30 gennaio 2012

Chiamami quando vuoi....

 Dopo averla tramortita l'ha trascinata in un vicolo, l'ha violentata e poi, tronfio per "l'impresa", le ha scagliato addosso un foglietto sul quale aveva scritto il suo numero di telefono:
"Chiamami quando vuoi". Tre parole che graffiano più delle unghie e feriscono almeno quanto i pugni, che le hanno devastato il volto prima dello stupro. Una frase che una giovane donna di Cagliari difficilmente riuscirà a dimenticare, perché l'uomo che l'ha pronunciata non è un qualunque amico o un corteggiatore, ma il bruto che l'ha violentata. 

29 gennaio 2012

La tredicesima vittima

Ci vuole fegato a essere donne in Italia, perché il pericolo è dietro l’angolo, e si tratta di un pericolo di morte.

È di venerdì la notizia della tredicesima vittima di femmicidio dall’inizio del 2012 nel nostro paese: una ragazza rumena di 23 anni trovata cadavere sulla spiaggia del lungomare di Porto Potenza Picena, a Lido Bello, con il cranio fracassato, il volto sfigurato e un sacchetto di plastica infilato in testa. Il corpo di Cristina Andrea Marian, questo il nome della ragazza, è stato trovato da un signore che portava a spasso il cane sulla spiaggia: era riverso semisepolto con due cordoli di sabbia attorno, e completamente vestito compreso il cappotto.
Lei era una giovane ballerina che lavorava in un night club (chi dice che faceva anche l’entraineuse o che si prostituiva ma per me era una donna e basta), arrivata dalla Romania in Italia forse pensando che questo fosse un paese migliore del suo, ma si sbagliava.
Cristina Andrea Marian è stata aggredita in ascensore, dove sono state trovate numerose macchie di sangue, e il suo corpo è stato trasportato sulla spiaggia: nessun segno di violenza, nessuna forzatura alla porta di casa dove stava rientrando, nessun furto né in casa né sugli effetti personali che aveva con sé.
E viene spontanea la domanda: questa ragazza conosceva l’assassino? Secondo gli inquirenti, che possa essere stato un uomo, vista la violenza con cui le hanno fracassato il cranio, è praticamente indubbio, e che il movente possa essere di genere è quasi una certezza (soprattutto se si esclude il furto, rimane o un cliente respinto o un fidanzato geloso), e quindi c’è solo un nome per chiamare questo omicidio, ovvero: femmicidio, per una vittima che non solo era una donna ma anche migrante, costretta a un lavoro “a rischio” e quindi tre volte esposta.
Ma un femmicidio che accade proprio il giorno della fiaccolata che in tutta Italia ricordava Stefania Noce, uccisa un mese fa dall’ex fidanzato, e in cui la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza di genere nel mondo, Rashida Manjoo, ha esternato grosse perplessità sull’Italia sottolineando la diffusione della violenza domestica nel nostro paese, la grave distorsione della donna nella rappresentazione femminile sociale e mediatica, e la poca attenzione riguardo il riconoscimento di questi reati da parte della giustizia, forse ci dovrebbe far riflettere in maniera più profonda e puntuale sul ruolo delle istituzioni e sull’azione del governo per proteggere le donne, ma soprattutto su cosa sono, a cosa servono e che ruolo hanno le donne in questo paese.

Contestualmente faccio anche un appello ai giornalisti e giornaliste che stanno trattando il caso: per favore, non abusate delle parole “raptus”, “delitto passionale”, “momento di follia”, perché non fanno che sostenere mediaticamente  la poca rilevanza del reato e lo stereotipo che “l’uomo innamorato può tutto”.
Grazie


Fonte

28 gennaio 2012

Ebbri di sobrietà

Abbiamo un sottosegretario al Welfare genialoide che si esprime come l’ultimo dei paninari. E non basta la testa leonina e spaziosa alla Gramsci per farci mutar giudizio. Il linguaggio sottoculturale del viceministro lo conferma. Anche se l’estetica confonde, evocando uomini e tempi meno truci dei nostri, il suo cervello fonde liquefacendo la credibilità di tali dottorini.  Martone è un mattone ma per certi versi ha ragione, siamo tutti sfigati, non tanto perché studenti fuori corso ma poiché popolo in corso di buggeramento da parte di una squadra di tecnisticoli senza attributi che s’impancano per una superiorità dottorale ostentata ma non dimostrata.
A questi professori passati dalla cattedra in cattedra sembra che tutto sia concesso, per il bene dell’Italia ma, soprattutto, per quello di chi li sostiene, dalle banche alle potenze straniere. Gli illuminati delle aula magna magna, con  doppio e triplo stipendio, stanno confermando i nostri sospetti sui loro comportamenti da Mario-nette allorché quotidianamente mettono in scena uno spettacolo privo di volontà e dignità che colpisce i deboli, sperando di calmierare l’incazzatura generale con le battute rassicuranti per i mercati. Come fa Mario Monti da Bruxelles quando, dall’alto della sua austerità, mentre la Patria spaccata in due sacramenta contro il suo gabinetto che sgambetta i soliti, risponde alla Maria Antonietta a chi lo interroga sui disagi italiani. Per sua fortuna oggi la ghigliottina non è più di moda e nemmeno sapremmo cosa farcene considerato che di teste pensanti in giro non se ne vedono proprio, quindi inutile pretendere il controllo di determinate azioni da chi non ha né zucca né schiena dritta per far valere le ragioni nazionali. Un amico che ha un’impresa di autotrasporto, pur non condividendo in pieno lo sciopero, si diceva stupefatto della maniera in cui i media, la stampa e la politica, fossero riusciti ad alleggerire con commenti tutto sommato delicati una situazione drammatica che ha lasciato a secco mezza  Penisola, scatenando scene da far west ai distributori e nei supermercati. Fosse successo con altri governanti si sarebbero già chieste le dimissioni dell’esecutivo, almeno dopo il morto di Asti, ma la neutralità dei tecnici serve proprio a neutralizzare l’azione di chi sulle proteste e sul malcontento generalmente costruisce i suoi spazi elettorali o di consenso. Non essendoci in questa fase la possibilità di sobillare gli animi a proprio vantaggio, per ricavarne merce di scambio con le istituzioni o profitti opportunistici per le proprie organizzazioni, si fanno tutti una bella pennichella, dai partiti ai sindacati, mandando in letargo la democrazia e la civiltà (delle quali non siamo tifosi per l’inganno ideologico che nascondono). Sperano di recuperare in seguito, ammesso che un seguito ci sia per questo  pauvre pays ormai anche pays pauvre. I complimenti di Soros ai Mari (Monti e Draghi) significano certamente che il Belpaese sta andando alla deriva e per uno speculatore come lui non c’è notizia migliore. Se Soros fa festa vuol dire che ci stanno facendo la festa. Non è la prima volta che accade, ricorderete la speculazione sulla lira agli inizi dei ’90, ed è proprio la recidività di una classe dirigente stupida ed imbrogliona allo stesso grado che ci riprova di aver toccato il massimo del degrado. Il tempo è scaduto, siamo quasi fottuti e nelle birrerie non accade nulla essendoci Bersani e nessun uomo forte con le idee chiare sul come preservare la nazione dalla voracità mondiale. L’ebbrezza della sobrietà ci concilierà il sonno politico (e l’incubo economico) dal quale non ci risveglieremo per qualche decennio.

27 gennaio 2012

Autogestione e autorganizzazione, i veri grimaldelli.

La violenza si presenta come un rapporto sociale in quanto implica due soggetti, chi la esercita e chi ne soffre. E come in ogni rapporto sociale essa apre un problema politico in quanto il suo uso implica un giudizio etico su ciò che è giusto e ciò che non lo è.

“...Lo spirito insurrezionale che c’è nell’anarchismo è oggi l’unica resistenza che si opponga all’utilitarismo riformista invadente. Lungi dal ripudiarlo, appunto per ciò, lo consideriamo la migliore sorgente delle nostre energie”. (da “Lettere ad un socialista” di Luigi Fabbri, 1914)

Trovo interessante questo richiamo a Fabbri, ben noto tra l’altro per la sua lontananza da ogni eccesso estremistico, per una riflessione sul tema della violenza, che ritengo particolarmente opportuna in un periodo di crescenti contraddizioni sociali e di potenzialità rivoluzionarie (non necessariamente libertarie) come quello che stiamo vivendo, nel quale il binomio insurrezione e violenza viene vissuto da alcuni come inscindibile, come se ogni atto violento sia di per se stesso insurrezionale, e da altri come irricevibile tout court.
Il potere ha sempre giocato
Richiamandomi alla definizione di violenza ho più volte affermato che il soggetto esercitante per eccellenza l’elemento costitutivo della stessa – e cioè la coazione, fisica e morale – è lo Stato che con la minaccia di leggi, dispositivi, norme, l’istituzione di carceri, di manicomi giudiziari, ecc. intende conformare gli individui ad un sistema di gerarchie e di valori autoritari e proprietari, in modo che non venga messa in discussione la presunta legittimità del potere e della proprietà.
Parimenti la violenza può essere intesa – ed è questa l’interpretazione che va per la maggiore – come l’affermazione di una volontà criminale che si esprime nell’uso della forza fisica e delle armi.
Comunque la si legga ne discende che la violenza si presenta come un rapporto sociale in quanto implica due soggetti, chi la esercita e chi ne soffre. E come in ogni rapporto sociale essa apre un problema politico in quanto il suo uso implica un giudizio etico su ciò che è giusto e ciò che non lo è.
A tal fine non è inutile sottolineare che la parola “violenza” è maggiormente usata dal potere per denigrare i suoi oppositori, reali o meno che siano; mentre, paradossalmente è il potere, lo Stato che avocando a sé il monopolio delle armi ed esercitando il governo sulla società grazie a normative e leggi, frutto esclusivo dei rapporti di forza esistenti, esercita coazione e obblighi, quindi di fatto “violenza”, pur mascherata dai meccanismi machiavellici della democrazia sedicente rappresentativa.
Poiché la parola “violenza” fa giustamente orrore alla stragrande maggioranza della popolazione, che pur aspira ad una società più giusta, più umana, accusando di ‘violenza’ i suoi oppositori e chiunque non è sottoposto al suo controllo totale, il potere vuole suscitare e diffondere nella società il discredito e la paura nei loro confronti per giustificare ulteriormente l’uso legittimo della repressione, più o meno violenta, rafforzata periodicamente da misure “speciali” varate a parole contro i “violenti”, ma dirette contro l’intero corpo sociale.
Su questo piano il potere ha sempre giocato per dividere e frantumare i movimenti di opposizione, accusando le componenti più radicali e determinate di ‘violenza’ – strumentalizzando singoli fatti, provocandone artatamente altri, sfruttando evidenti ingenuità – per mettere gli uni contro gli altri secondo l’antico principio del “dividere per regnare”.
Questa strategia, che gioca, ripeto, sulla ripulsa della violenza da parte della maggior parte della popolazione, alimenta nel contempo le componenti più moderate dei movimenti di opposizione che appaiono disposte ad accettare le limitazioni imposte al modo di manifestare e protestare secondo i dettami del governo, pur di non rischiare di dare un’immagine violenta del proprio agire.
Ma operando in questo modo, ogni prospettiva di cambiamento viene di fatto delegata alle élite che si contendono il potere, rinunciando di fatto ad essere protagonisti della propria vita e del proprio futuro, restringendo la propria possibilità d’espressione ad una elezione ‘una tantum’ o a manifestazioni sempre più svuotate da una reale volontà di trasformazione concreta fatta di di lotte incisive, di scioperi reali, di sabotaggi e boicottaggi, di corpi che si mettono di traverso.
Clamoroso errore di analisi e di prospettiva
A fronte di questo stato di cose c’è chi risponde con atti e proclami che rivendicano la legittimità dell’azione violenta contro le violenze dello Stato, pensando di sopravanzare i limiti dei movimenti. E lo fa anche richiamandosi alla ‘propaganda del fatto’ di antica memoria, oppure all’individualismo nichilista o ad una certa tradizione guerrigliera di tipo fochista.
Presentando e vivendo il conflitto sociale come guerra in effettivo svolgimento si vuole proporre un’azione violenta ‘rivoluzionaria’ in grado di scuotere e coinvolgere le masse in questo combattimento che si considera già dichiarato da entrambe le parti. Ma, contrariamente alla maggior parte delle guerre combattute, ove le parti in causa si sentono (a torto o ragione) in guerra, nel caso della lotte di classe o del conflitto sociale la stragrande maggioranza dei ceti subalterni odierni non si sente in guerra.
Rivendicare quindi la violenza rivoluzionaria come parola d’ordine dell’azione trasformatrice di chi si oppone all’ordine esistente è un regalo che si fa alla controparte, al potere e alle sue élite politiche, sociali e sindacali, che la utilizzano per ritorcerla contro ogni realtà indisponibile al collaborazionismo ed alla subordinazione.
È necessario aver presente quelle che sono le caratteristiche e le conseguenze del potere odierno: il dominio del capitale e la subordinazione alle sue dinamiche, la frammentazione di gran parte della popolazione, continuamente sottoposta ai condizionamenti gerarchici di una società autoritaria (il patriarcato, una scuola costruita per l’irreggimentazione, il lavoro salariato, il controllo poliziesco, la giustizia di classe, ecc.) rafforzato da un uso massiccio dei mezzi di comunicazione di massa, la paura di perdere i mezzi di sostentamento necessari (disoccupazione, precarietà), la sollecitazione continua al consumo, un senso di inadeguatezza continua, di alienazione, di isolamento, la mercificazione dei rapporti umani, ecc.
In queste condizioni interpretare il conflitto sociale come una guerra tra due contendenti sullo stesso livello di consapevolezza, di chiarezza d’intenti, è un clamoroso errore d’analisi e di prospettiva. Utile magari a rimpolpare le proprie file di qualche unità, ma incapace di ribaltare la situazione complessiva.
Ragionamento e scelta consapevole
Parimenti la resistenza alla violenza del potere non si può definire ‘violenza’ ed il rifiuto dell’uso sistematico della violenza non implica l’accettazione della violenza sia su di noi che su altri soggetti.
L’essere risoluta ed energica è una caratteristica dell’azione diretta propugnata degli anarchici ed è ciò che li contraddistingue dalla mediazione e dal compromesso del metodo parlamentare e riformista. Ma per gli anarchici l’efficacia dell’azione diretta non viene espressa dal grado di violenza in essa contenuta, quanto piuttosto dalla capacità di indicare una strada praticabile dai molti, di costruire una forza collettiva in grado di ridurre la violenza il più possibile.
L’anarchismo, di per se stesso, implica ragionamento e scelta consapevole delle azioni; se da un lato rifiuta di sposare tesi violentiste, dall’altro rifugge da impostazioni piattamente non violente; rimandando sempre alla coscienza degli individui e alla interpretazione del momento storico in cui essi vivono l’anarchismo odierno deve saper coniugare il rispetto dei valori umani che lo contraddistinguono da sempre con la capacità di rafforzare il sentimento di libertà e di eguaglianza presenti nei movimenti promuovendo autogestione e autorganizzazione, veri grimaldelli per ogni reale processo di trasformazione rivoluzionaria della società.

24 gennaio 2012

Il rischio di buttarsi via

Sei gay? Ti rifiuto. I ragazzi allontanati dai genitori perché omosessuali subiscono un trauma che li espone a feroci atti di autolesionismo. E’ successo nel vicentino proprio nei giorni di festa. Un giovane si è arrampicato sulla balaustra di un cavalcavia, sei metri più sotto scorreva il traffico di auto e tir. Gli automobilisti lo hanno notato,  cercando invano di parlargli: lui guardava dritto davanti a sé. Finché si è fermata una pattuglia dei carabinieri e uno dei militari lo ha raggiunto riuscendo a portarlo giù con la forza. Solo qualche ora prima il giovane aveva detto al padre e alla madre di essere omosessuale, i due avevano reagito duramente. Non si tratta di un caso eccezionale.  “Ragazzi e ragazze rifiutati perché omosessuali perdono stima e fiducia in loro stessi, si sentono responsabili del dolore arrecato ai genitori e del rifiuto subito, avvertono un bisogno forte di farsi del male, e lo fanno in modo palese o nascosto”, commenta Francesca Marceca,  mamma “Agedo” (associazione genitori di omosessuali), presidente della sede palermitana. “Il genitore è vissuto come colui che è dalla parte della ragione, intesa anche come ragione sociale che condanna l’omosessualità. Il ragazzo o la ragazza si sentono causa delle lacrime e delle liti. Hanno un’idea adolescenziale dei genitori e non immaginano che possano avere dei limiti”. Dialogando con altri papà e mamma  e con gli operatori sociali, i ragazzi riescono ad avere una visione diversa di ciò che sta accadendo. “Il punto di svolta si raggiunge quando i ragazzi comprendono che i genitori sono in difficoltà e che   anche loro hanno  bisogno di aiuto”. Enorme il danno procurato dal giudizio sociale: in mille modi, con parole, silenzi, esclusioni, omissioni, fa sentire agli omosessuali   il peso di essere una svalutata minoranza. Per Francesca Marceca   “se nella società ci fosse l’accettazione serena della omosessualità svanirebbe il gioco perverso di rifiuti e autopunizioni. I ragazzi non dovrebbero fare una “confessione tragica”,  la loro comunicazione andrebbe accolta con gioia dai genitori poiché si tratta della vita affettiva dei figli”. Utopia? “Sto parlando di uno scenario della speranza, che oggi è fantascienza”. Le storie di non accettazione, sia  palese che subdola,   sono all’ordine del giorno. “La mamma di  X, una ragazza di 17 anni   viene in associazione a  raccontare con enorme dispiacere che la figlia ha una   fidanzata. Dice di averle scoperte mentre si baciavano. Definisce lei e il marito persone “aperte” e ritiene che il problema non sia l’omosessualità. Dice: “mia figlia è immatura, non sa cosa fa, si è lasciata trascinare dalla compagna, l’omosessualità è una delle tante fantasie che lei ha ancora”. E’ la madre a parlare, il padre tace. E assume un atteggiamento che non è insolito. “La mamma sconferma l’affettività della figlia – aggiunge Francesca Marceca –  Accade spesso. Invece quando è un ragazzo a dire di essere gay viene preso sul serio”.  La madre di X per un po’ non frequenta l’associazione, poi ritorna. “Le chiedo come va e mi risponde che la figlia si è trasferita a Roma per motivi di studio, che ha un’altra fidanzata e torna in vacanza con lei. Capisco che l’allontanamento è servito ad allentare la tensione, a far si che le cose vengano  affrontate una per  volta. Da qui a metterci la faccia e dirlo ai parenti e ai conoscenti ce ne corre”.   E i ragazzi? Francesca Marceca legge uno dei tanti sos che arrivano in Agedo via mail: “Mi presento, vivo in un paese, ho 16 anni, sono gay e mi sono dichiarato con alcuni amici. I miei sanno tutto e non mi accettano. Voglio sapere se mi date una mano, altrimenti io davvero…”.
Ed ecco alcune lettere:
“I compagni mi hanno fatto bere la loro urina”, “Sono gay e mi sto sposando, aiutatemi”, “Grazie per avermi soccorso”. Sono  alcune frasi delle tante lettere che arrivano all’associazione Agedo Palermo e che possiamo citare “camuffate” per rispettare la privacy di chi le ha scritte. Ne riportiamo qualche stralcio. Di commenti   non ce n’è bisogno, poiché sono parole che urlano.  “Nel paese dove vivo mi insultano e mi offendono, sto morendo dentro, prendo farmaci per stare calma”. “Ho 28 anni, mi sto sposando con una ragazza perché non mi accetto e mi vergogno di dire che mi piacciono i ragazzi, vorrei parlare con qualcuno perché non ce la faccio più”. “Mi hanno cacciata dal lavoro quando hanno scoperto che sono lesbica, nessuno capisce le nostre sofferenze, aiutatemi”. “ Ho sentito parlare della vostra associazione all’ultimo anno di scuola da un professore che ha spiegato bene cosa è l’orientamento sessuale e cosa sono i pregiudizi, anche se i miei compagni non hanno smesso di sfottere e di perseguitarmi. Sono sempre stato preso di mira, sono sempre stato taciturno e i compagni mi hanno fatto passare anni terribili, mio padre non smette di insultarmi e di dirmi “non fare la voce da checca che sei sulla bocca di tutti per strada, mi sei venuto proprio male, forse non sei neanche mio figlio”. Sono cresciuto senza il coraggio di aver un rapporto con nessuno, ho tanta paura che mi immagino privo di desideri, datemi una mano, sono disperato”. “Volevo ringraziarvi per aver creato una associazione così, con le mamme, i papà e anche gli psicologi, ho avuto la fortuna di incontrarvi in un momento in cui avevo davvero bisogno. Ho frequentato la vostra associazione di nascosto dai miei, inventandomi mille sotterfugi, gli incontri sono stati per me ossigeno, soprattutto quelli con lo psicologo. Adesso mi sono trasferita al Nord, e sono decisa a vivere a testa alta la mia vita, e non smetto mai di ringraziare il momento in cui vi ho mandato la mail e le parole che avete scelto per farmi sentire accolta. Vi devo la vita e il coraggio che mi avete fatto ritrovare”.

13 gennaio 2012

12 01 2012 Ai numerologi l’ardua sentenza!

Chi aveva cominciato ad illudersi (spero più per disperazione che per altro) che tutte le panzane che ci stavano raccontando avessero un fondo di rassicurazione, ieri ha avuto il suo bel caffè amaro: 
la decisione della Corte costituzionale di respingere i quesiti referendari per abrogare in tutto o in parte la più oscena delle leggi elettorali dell’intera storia italiana (compreso il Ventennio mussoliniano, beninteso), e quella della Camera dei deputati di rifiutare la richiesta dei giudici di arresto per l’on. Nicola Cosentino sono state una bella botta di consapevolezza. 
Consapevolezza che non c’è niente da fare, è inutile sperare che il meno peggio sia meglio, non è vero. 
È inutile sperare che, cambiato il modo di porsi, dal volgare al classico, sia cambiato il sistema di porsi. No, il potere è camaleontico, ha mille modi di porsi per autoproteggersi e autoperpetrarsi e un solo ed indiscusso modo di agire: sopraffazione!!
Ma la cosa peggiore di cui dobbiamo renderci conto è che tutto questo sta diventando normalità! Quello che in qualsiasi tempo della storia veniva chiamato democratico è esattamente l’opposto di quello che sta succedendo in Italia, non c’è più niente che ricordi quella parola: δῆμος = popolo e κράτος = potere.
Gli Italiani e le Italiane volevano cambiare il “Porcellum”: la Corte Costituzionale (e togliamoci dalla testa che la politica non c’entri nelle sue decisioni: c’entra sempre!) ha respinto i quesiti referendari.
E quel galantuomo di Cosentino, cosparso di fetidi slinguazzamenti  di leghisti e radicali perché gli altri non bastavano a renderlo sufficientemente viscido, rimarrà a piede libero, libero di continuare a frequentare gli amici casalesi e di rimanere deputato fino al termine della legislatura maturando, ovviamente, anche la sua onesta pensione di deputato, cumulabile con quella da “normale cittadino lavoratore”.
Due diversi organi dello stato hanno rifiutato la volontà del popolo arrogandosi il diritto di decidere diversamente.
Questa, in Italia, è normalità!!
È normale andare contro la volontà popolare che l’anno scorso si è prodigata in un gigantesco esercizio di democrazia diretta, in difesa dei beni comuni, o contro questa legge elettorale, o contro l’energia nucleare. E’ normale, non scandaloso.
Ebbene, c’è quasi da ringraziarli perché spero che con quest’ultima performance abbiano svelato chiaramente, anche ai più scettici, il loro “piano” per salvare l’Italia.
E spero che i disoccupati, i cassaintegrati, i lavoratori in nero, i precari, gli immigrati e i pensionati a 400 euro mensili, bevendo questo caffè amaro, si risveglino tutti e tutti insieme si rendano conto che non ci si può aspettare che di peggio da questo squalificato, corrotto e incompetente ceto politico, ma soprattutto che non è questo il sistema che permette al popolo di governare.

11 gennaio 2012

Ridiamo, siamo Italiani!

Nelle recensioni viene presentato così: “Ripescando nella memoria del primo affresco natalizio vanziniano, il cinepanettone si rivolge all'attualità del Bel Paese”.
Parlo, naturalmente di “Vacanze di Natale a Cortina”.
In effetti è proprio così, l’attualità c’è tutta: fra storie di corna e imprenditori che rincorrono belle donne, gaffe e furberie, lo spaccato è assolutamente realistico.
Ma non voglio giudicare questo filone  cinematografico che tanto successo sembra avere (o aver avuto?) e non voglio nemmeno criticare qui l’immagine volgare e un tantinello naif che i film stessi danno di un’Italia furbetta e fracassona, però una domanda me la faccio: 

c’è davvero da ridere della parodia di una realtà che in questi giorni spicca sule prime pagine dei giornali per illegalità e cattivo gusto?
Mi sembra che questo attualismo ridanciano e deresponsabilizzante favorisca un atteggiamento di condiscendenza, quasi di ammiccamento, verso i comportamenti e le caratteristiche peggiori della nostra italianità. E così non ci si scandalizza più di fronte a niente, si sorride delle battute pesanti dei nostri politici, si seguono con curiosità i gossip sulle escort, l’illegalità dilagante non suscita sdegno, non c’è indignazione davanti al fenomeno dell’evasione fiscale, dei Suv e degli attici che mal si addicono ai bassi redditi dichiarati.
Ridere dei problemi a volte fa bene, ci aiuta a tirare avanti, a sdrammatizzare. Ma poi i conti con la realtà vanno fatti e bisogna ritrovare la capacità di condannare azioni e comportamenti illegali, o che,  semplicemente, si fanno beffa di chi vive onestamente, di chi lavora e studia, di chi le vacanze a Cortina se le sogna, di chi vorrebbe mostrare il bello della nostra Italia, fatta di intelligenza e cultura, lavoro, solidarietà, coscienza sociale, cultura politica, identità storica, senso comune.
Ridere dei problemi a volte fa bene, il rischio è che, pur di ridere della realtà, la si esorcizzi a tal punto da cadere nell’indifferenza.

02 gennaio 2012

La Comune di Parigi: 72 giorni di storia dimenticata.

La Comune di Parigi: per la prima volta nella storia il proletariato arrivava al potere, e si parla di 140 anni fa. E anche se ebbe vita molto breve iniziò un lavoro che caratterizzò sufficientemente il suo vero significato e i suoi scopi. 
Essa sostituì l'esercito permanente, strumento cieco delle classi dominanti, con l'armamento generale del popolo, proclamò la separazione della Chiesa dallo Stato, soppresse il bilancio dei culti (cioè lo stipendio statale ai preti), diede all'istruzione pubblica un carattere puramente laico, arrecando un grave colpo ai gendarmi in sottana nera.
Nel campo sociale poté fare molto poco, ma anche quel poco dimostra chiaramente il suo carattere di governo del popolo, di governo degli operai.
Il lavoro notturno nelle panetterie fu proibito; il sistema delle multe, questo furto legalizzato a danno degli operai, fu abolito.
La Comune promulgò il famoso decreto in virtù del quale tutte le officine, fabbriche e opifici abbandonati o lasciati inattivi dai loro proprietari venivano rimessi a cooperative operaie per la ripresa della produzione.
Per accentuare il suo carattere realmente democratico e proletario, la Comune decretò che lo stipendio di tutti i suoi funzionari e dei membri del governo non potesse sorpassare il salario normale degli operai e in nessun caso superare i 6000 franchi all'anno.

 
“Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti”. (Karl Marx)

 
Grazie a Paolo Schicchi per averlo ricordato e per avere così ben segnalato le iniziative per divulgare il ricordo di quei 72 giorni di storia importante di cui nessuno parla mai.

 
Ho letto anche questo e questo.