27 novembre 2016

Una cosa che non riesco a capire.

In questi giornate dedicate alla violenza sulle donne si fa un gran parlare: dibattiti, discorsi di esperti e non, giornali e libri sulle dinamiche, i motivi, le ripercussioni, le misure da adottare, ecc. ecc. Ben venga tutto, anche se è chiaro che fino a che ci si limita alle analisi o a reiterare semplicemente le condanne quando succede qualche tragedia, di passi avanti se ne fanno pochi, mentre, nel frattempo, qualche altra donna o bambina, o comunque un essere indifeso, subirà le conseguenze di questo lassismo. 
C'è un punto però, molto importante, che mi ha sempre fatto pensare e di cui credo non si parli molto: perché certe donne (e credo siano molte purtroppo) hanno difficoltà ad uscire da una situazione che le tiene soggiogate al loro carnefice.
Perché le misure sociali sembrano inefficaci? Certo, conta molto il fatto che le denunce che le donne fanno restino lettera morta e questo è un aspetto che andrebbe modificato immediatamente. 
C'è la paura, d'accordo, anche questo è un deterrente non da poco.
Ma c'è qualcos'altro all'interno della vittima che ostacola lo scioglimento di un rapporto in cui viene manipolata, controllata, denigrata e battuta. 
Quante donne perdonano, tornano da un compagno che le ha appena mandate al pronto soccorso e dicono che lo amano troppo per lasciarlo? Perché restano così tanto tempo, spesso anni, implicate in in una ragnatela affettiva fatta di umiliazioni, molestie e violenza? 
Come si fa ad amare una persona che fa del male?
Gli psicologi dicono che c'è un meccanismo di difesa che porta a minimizzare il torto subito, una difficoltà della vittima nel riconoscersi oggetto di abuso e si può arrivare addirittura a negare l'evento traumatico, alla minimizzazione o alla sua amnesia. Che sono donne "generose" che pensano di poter cambiare un partner che ritengono fragile e disperato. 
Per me è un paradosso: una donna abusata che vuole proteggere il suo uomo violento come fosse un bambino sfortunato è inconcepibile.
Eppure non demordono, non rinunciano, non si arrendono al fatto che non ci sia nulla da fare, non lo abbandonano al suo destino perché se ne sentono responsabili...e qui il paradosso continua: ci sono davvero vittime che credono di poter sopportare fino alla morte? La mia razionalità mi impedisce di pensarlo.
Allora mi chiedo: cos'è quella pulsione, quel perturbamento affettivo da cui si origina questo delirio paradossale della vittima che non riesce a chiudere il legame e, in molti casi, protegge il suo usurpatore? Qual'è il senso di questo strano fenomeno della "comprensione"? Non riesco a capire il plagio, la dipendenza, le false premure e i pentimenti. 
Per me basta una volta che ci si scotta, dopo si sta lontani dal fuoco. 
Mi scuso con quelle mie sorelle che non riescono a trovarne la forza, non voglio rigirare il coltello nella piaga e non ne faccio una questione di colpa, ma è una domanda che mi ossessiona e mi intristisce come una sconfitta, da donna che sa cosa vuol dire subire violenza. 
Chissà se qualcuna di loro riesce a darmi una risposta.



25 novembre 2016

L’amore è amore soltanto se si è felici, altrimenti è qualcos'altro. Quello che fa male non è mai amore.

Qualsiasi cosa faremo in questi giorni contro la violenza diretta a donne e bambine, per la loro effettiva eguaglianza, per il rispetto a loro dovuto, per amore di tutta l’umanità che le comprende, avremo al nostro fianco una fila interminabile di donne di ogni nazione: le figlie, le sorelle e le madri che sono state violate, soggiogate, umiliate, uccise. Loro ci hanno preceduto e continueranno a sostenerci in questa lotta che non è un fatto privato, non è un'emergenza, ma un fenomeno strutturale e trasversale della nostra società, è una delle più vergognose violazioni dei diritti umani, e come tale è una responsabilità di tutto il genere umano, appartiene a tutti, cancella i confini e non conosce geografie. 
Lottare contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne è un obbligo dell’umanità.



20 novembre 2016

Arriva un momento...


Arriva un momento 
in cui serve solo un po' di pace, 
qualcuno con cui parlare 
e ridere per ore, 
musica e libri, 
un buon film, 
respirare. 
Un posto dove non arrivano 
le intemperie 
di questo violento e confuso mondo, 
capire e capirsi, 
lavorare su ciò che ci piace, 
e sapere quanti cucchiai di zucchero, 
o nessuno, 
bisogna mettere in una tazza di caffè...

Danza con me.

Ho sempre amato ballare e adesso che non ne ho la possibilità un po' mi manca. A livello di puro divertimento, sia chiaro, balli da sala e di coppia e nelle balere più infime magari, però mi piaceva molto. Era con un senso di libertà che mi abbandonavo all'eco della musica, un'espressione leggera che partiva dal cuore e fluiva nei movimenti del corpo. 
Ma ballare vuol dire anche comunicare, incontrarsi, parlare. Perché il ballo libera la mente dal tran tran della vita ordinaria, unisce le persone in amicizia, rende armonia sulle note di un tango, un fox o un cha cha cha. Ballare un ritmo che prende o una melodia che commuove è qualcosa che rende felici in quel momento, perché è in quel momento, magari stretti in una presa ammaliante e calda di una bachata o in una sacada di un tango argentino, che si sente l'unicità del proprio essere unito a quello del partner, una sensazione primordiale che fa scivolare sulla pista come se nemmeno si appoggiassero i piedi per terra. Ballare è come estasiarsi davanti ad un tramonto speciale, o sentire una brezza leggera sul volto quando si ha caldo. Ballare è anche questo: un rapporto intenso fra mente e cuore, in cui la mente predispone il cuore a ricevere emozioni, profonde e magiche, qualcosa di necessario per la vita, come la musica da cui scaturisce. Cosa sarebbe la vita senza musica? E' un'esigenza primordiale dell'uomo, un metodo di liberazione e protesta oltre che espressione delle idee. Dagli schiavi colonizzati nelle varie terre del mondo, si sono originati alcuni fra i ritmi migliori, che oggi raffinati e rivisitati generano la musica da ballo. Basti pensare alla “rumba” nata dagli schiavi colonizzati e portati da svariate terre dell’Africa fino all'America latina. Essi, per sentirsi vivi, si riunivano e creavano gruppi di movimento, sui ritmi di arcaici cucchiai battuti su casse di baccalà rovesciate o fusti di legno vuoti che venivano percossi per creare un ritmo. Su queste prime percussioni, il movimento corporeo intenso si esprimeva e dava un senso alla vita di queste persone, che poco o nulla avevano per vedere il sereno delle loro giornate.
Questo è uno dei molteplici esempi dell’importanza della musica, ma anche della danza per ogni uomo.
La musica è vita e la danza è poesia!

La danza è l’unica arte in cui noi stessi siamo la materia di cui è fatta. (Ted Shawn)


16 novembre 2016

I miei sì e i miei no..

Posso dire che mi sono stancata di questa diatriba che coinvolge  i due fronti del sì e del no al referendum del 4 dicembre? Sembra che da quella data dipenda chissà cosa, mentre invece io sono convinta che i giganteschi e quotidiani problemi della gente comune saranno gli stessi di prima, che non saranno né il sì né il no a modificare sostanzialmente il quadro sociale e politico. E anche se fosse vero (cosa di cui dubito fortemente e che comunque non risolverebbe nessun problema) che la vittoria del no manderebbe a casa Renzi, non è certo affidandomi a qualcun altro che mi solleverebbe il morale. 
Io posso dire sì alla partecipazione diretta, in prima persona, alla quotidiana trasformazione. E posso dire no alla delega, alla rinuncia, al disimpegno. Ma questi sì e questi no non trovano nessun riferimento nella sfida del referendum, che è giocata tutta sul piano della politica politicante. 
Non mi interessano gli aspetti superficiali di un meccanismo di potere che io contesto alla sua radice e non trovo nessun motivo che meriti una deroga alla mia convinzione: stare alla larga dalle urne.
So bene di essere considerata un'utopista, un'incapace di prendere posizione irrigidita come sono in un'ideologia del passato, ma sono così: se qualcosa non mi convince non lo faccio. E trovo questo tanto strombazzato referendum una grande operazione mediatica per coinvolgere la gente nel niente. O peggio, per farla sentire protagonista mentre i fili del potere sono manovrati da ben altri burattinai.


13 novembre 2016

Stanotte ho sognato.

Cioè, mi ricordo il sogno che ho fatto distintamente, cosa che non mi succede quasi mai, forse perché era un sogno tranquillo, pacato, di quelli che fanno sperare che continui tanta è la beatitudine. Ho sognato che ero sola tra alberi immensi, le cui cime arrivavano quasi al cielo, di fronte al mare. Ricordo la sensazione di silenzio, la pace interiore che sentivo di fronte a quel tramonto che si stava riversando sull'acqua. Non succedeva niente, rimanevo lì, ad ascoltarmi, e forse pensavo, ma non ricordo cosa pensavo. Mi sono svegliata serena, con una serenità che supera la mia comprensione e che non è stata troppo costante negli ultimi giorni. Ora penso che questo sia dovuto a due cose. La prima, un ricordo appena prima di addormentarmi: mi rannicchio nel mio letto, tra tutti i miei cuscini, e butto l'occhio sulle foto che ho sulla cassettiera. Mio padre e mia madre nel cinquantesimo anniversario di matrimonio. Una bella foto, un bel giorno felice con tante persone care. 
Due lacrime silenziose e felici hanno offuscato la stanza e mi sono sentita di dire grazie a loro, per quello che mi hanno dato, per come mi hanno amato, sostenuto e aiutato, perché non credo di averglielo mai detto, persa com'ero nelle mie ribellioni, nella mia testardaggine e nei miei impulsi contraddittori. 
E ho capito che non perdiamo mai quello che abbiamo vissuto. 
L'altra, un piccolo pensiero che mi è venuto in mente proprio ieri sera: passiamo la vita a pensare a quello che non abbiamo e vogliamo avere, a quello che abbiamo avuto e abbiamo perso. Non ci concentriamo su quello che effettivamente abbiamo, e tra le cose più importanti e concrete ci sono i ricordi...un modo per incontrarsi...
Grazie a coloro che mi hanno coniato, mi hanno accompagnato, mi hanno voluto nei momenti di tempesta. 
Dove cerco la mia pace, riesco a trovarli.

12 novembre 2016

Una piccola lacrima in più.

Ci sono persone che quando se ne vanno lasciano vuoti più vuoti di altri, persone mai conosciute se non attraverso il loro genio artistico che facciamo nostre e che andiamo a cercare quando abbiamo bisogno di conforto, come amici con cui condividere una sensibilità che altrove non riusciamo a trovare. Persone che non sapranno mai quanto bene hanno seminato e quanto amore hanno sparso.
Ascolto Leonard Cohen da una vita e la sua presenza era quasi un'ovvietà, una dolce compagnia, un balsamo lenitivo, una conferma dell'esistenza dei sentimenti e della genialità di come possono essere descritti e cantati.  Mi ha accarezzato come un'amante, con le sue canzoni ho ballato e cantato, viaggiato e sostato in lunghi tempi di riflessione. Ed era sempre lì, con la curiosità, la sensualità e l'ironia che hanno segnato tutti i suoi capolavori. Ed io sentivo un senso di appartenenza, come se, nel segreto delle mie più intime vicende, fossi legata alla sua poesia da un legame invisibile e indissolubile.
Ora non c'è più, ma io preservo il legame, anche se con una piccola lacrima in più. Queste poesie, queste canzoni mi accompagneranno ancora a lungo, mi renderanno il cammino meno impervio, la notte più accogliente, le ferite meno dolorose. Mi aiuteranno a sopportare questo tempo, un tempo in cui volgarità e tracotanza trionfano e appestano la terra, un tempo in cui la rara fiamma della bellezza e della poesia si è spenta a Montreal. You want It Darker. Ciao Leonard.




06 novembre 2016

Ho la mia età.

E così un altro anno è passato e sono 64 da quando sono nata. Ho la mia età e nessuno può togliermela. Dovrei forse fare attenzione a dichiararla? Perché dire "ho la mia età" è quasi una dichiarazione di acquiescenza di uno stato ineluttabile di vecchiaia, anche se di fatto vecchia non mi ci sento così tanto. Però sto dando al mondo una non ovvia informazione su me stessa e su come mi sento con me stessa. E dire "ho la mia età", con più o meno ironia, significa dire "ho un'età (ormai) avanzata, sono vecchia (o quasi)". C'è un destino in un'affermazione del genere, perché il senso porta appunto verso un'età che è definita come matura (o più che matura), proprio l'età in cui capita di cominciare a riflettere, sull'età. E non sempre allegramente. Parlando dell'età, infatti, si possono dire tante cose, ma quando si dichiara come propria l'età che si ha, invece di trovarsi a dire un'ovvietà, si sta dichiarando di essere vecchi. Perché tutti hanno un'età, anche appena nati e anche quando sono giovani , ma solo di alcuni, a partire da una certa età, si dice che "hanno un'età". E così, senza nemmeno dire l'età, si è dichiarati vecchi, con un semplice aggettivo possessivo o con un ancor più semplice articolo indeterminativo. Che strana faccenda è la lingua!
Va beh, non fateci caso...è l'età...
Che poi siano 30, 40 o 64 non importa, importa come ci si sente, importano gli amici, importa avere un'opinione, un discreto pensiero critico. Importa che ancora non ho voglia di accontentarmi, che qualche sogno rimasto nel cassetto c'è, un po' logoro e stantio ma c'è. Importa quella piccola scorta di spensieratezza, e di irrequietezza forse, che mi fa dire che quel che importa è questo presente di cui domani poco importerà. Importano le mie radici, per amare il mio passato nonostante tutto, e importano quelle ali che, ad un certo punto della mia vita, si sono aperte per guardare tutto da un'altra prospettiva, senza le quali non sarei mai potuta essere la persona che sono, nel bene e nel male. 
E voglio tenermi stretti anche quei piccoli piaceri che ogni tanto mi fanno fermare a pensare, magari impugnando penna o tastiera per sottolineare le sensazioni che il mio cervello traduce e concretizza in parole spesso neanche troppo esaustive.....ma mi capirete ugualmente...è l'età...




"Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni in cui si cominciano ad accarezzare i sogni con le dita e le illusioni diventano speranza. Ho gli anni in cui l’amore, a volte, è una folle vampata, ansiosa di consumarsi nel fuoco di una passione attesa. E altre volte, è un angolo di pace, come un tramonto sulla spiaggia. Quanti anni ho, io? Non ho bisogno di segnarli con un numero, perché i miei desideri avverati, le lacrime versate lungo il cammino al vedere le mie illusioni infrante valgono molto più di questo. Che importa se compio venti, quaranta o sessant'anni! Quel che importa è l’età che sento. Ho gli anni che mi servono per vivere libero e senza paure. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni. Quanti anni ho, io? A chi importa! Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento..."(José Saramago)


03 novembre 2016

No future

Che lo si dica chiaramente: la paura più grande è quella della povertà!
Non avrebbero altrimenti giustificazione gli episodi avvenuti in Sardegna, in Calabria e in Emilia Romagna, dove parte degli abitanti di alcuni paesi hanno letteralmente eretto barricate per impedire che degli stranieri rifugiati fossero ospitati nei loro paesi. Semplicemente non li volevano per paura , oltreché del diverso, dello specchio e dello spettro che gli si paventava davanti: trovarsi un giorno nelle medesime condizioni, quelle di emigranti, di persone senza casa e senza lavoro e senza neanche un posto dove andare.
Tutto è crollato, i falsi miti sono crollati, a uno a uno. Crollato il mito della Patria o dello Stato, retto da un gruppuscolo di parassiti autoreferenziali; crollato il mito e la realtà di uno stato sociale che forniva qualche garanzia; il mito del lavoro, che trovarlo a condizioni decenti sembra una chimera. Di cultura manco a parlarne: a farla da padrone è la Tv di Rete 4, che propaganda ogni sera razzismo e ignoranza.
È rimasta solo la guerra tra poveri, tra sfruttati, esclusi, isolati, arrabbiati, tra persone che non parlano neppure più tra loro, ma che tra un whatsapp e una notifica, la cosa cui tengono di più è il loro ultimo smartphone. Un implacabile destino di apartheid ci attende se non mettiamo il naso fuori, se non ci mettiamo in mezzo, se non rispondiamo con la solidarietà. Se non individuiamo i veri nemici che hanno portato a tutto questo: le frontiere e l’economia, gli Stati e i loro apparati, con le loro guerre e devastazioni in giro per il mondo, la loro precarizzazione e il loro sfruttamento, con la loro propaganda e i media che hanno invaso con la paura le giornate di tutti. Ad essere esiliati e cacciati, sfruttati e affondati non saranno solo gli stranieri che oggi molti non vogliono, ma saranno tutti, quando non serviranno più ai Marchionne di turno, quando la guerra tornerà indietro costantemente e saremo incapaci di prendere qualsiasi decisione, perché avremo delegato tutto ai politici da televendita. Quando non sapremo più coltivare neppure un ulivo e la terra sarà tutta privatizzata e avvelenata; quando, eternamente interconnessi, piangeremo se non potremo usare internet veloce per qualche minuto; quando sempre sotto le telecamere, un poliziotto arriverà pronto a multarci per aver gettato una carta per terra.
La paura non è il campo su cui si può vivere e lottare, ma è il campo della morte sociale a cui non ci si può rassegnare.