28 ottobre 2015

La miseria. Da "Il tramonto del diritto penale". (Luigi Molinari 1909)

La più grande creatrice di delitti è la miseria. Vi è la miseria assoluta del morente di fame e la miseria relativa, ma non meno terribile nelle sue letali conseguenze, dello spostato maschio o femmina, che non trova né modo né possibilità di soddisfare a bisogni fisici e psichici altrettanto necessari quanto il pane quotidiano. La miseria oltre che essere causa diretta di delitti lo è anche indirettamente. Tutte le ribellioni, individuali o collettive, trovano il loro movente nella miseria.
Vi è una categoria di persone che soffrono delle sofferenze altrui. Costoro da alcuni chiamati martiri, da altri delinquenti volgari, derivano pure i loro atti dalla miseria. La deficenza o la mancanza assoluta del sentimento di solidarietà umana genera la miseria. L'incoscienza dei popoli, dominati da sentimenti religiosi di rassegnazione ad uno stato economico che non è naturale, la mantiene, come in determinate pasture gelatinose si mantengono i microbi. La coscienza del diritto alla esistenza nei miserabili è latente ma compressa prima di tutto dalle religioni (tutte uguali) e poi dalla forza brutale. Qualche scatto collettivo, qualche scoppio di folgore individuale, poi la rassegnazione, il dolore, la morte.
Se veramente la parola delitto avesse un significato scientifico-positivo, nessun delitto sarebbe maggiore di quello che la società compie col lasciare sussistere la miseria.
Ma anche la società è vittima inconscia dei fattori che la costituiscono. Il sole dell'avvenire non è ancora spuntato sull'orizzonte dove solamente qualche tenuissimo barlume d'aurora appare, e noi non possiamo pretendere che i suoi raggi benefici già riscaldino il cuore dell'umanità.
Quando l'umanità avrà imparato dalla scienza che l'individuo è intimamente connesso con la collettività umana e che la sventura di un essere trova la sua eco in tutti gli altri esseri e si propaga come le onde sonore nell'aria, fino agli estremi limiti della società, allora troverà modo di riparare alla miseria dei suoi singoli. Ma bisogna distruggere le religioni! Ecco il grido di guerra della nuova umanità, ecco l'uscita, che non ha intravveduto il grande umanitario Leone Tolstoj, ma anche Emilio Zola ha presentito. Solamente sulle rovine di tutte le religioni s'innalzerà la statua della "verità".
Le religioni ingannano ricchi e poveri.
I ricchi, in nome della religione, compiono il loro dovere con la carità. Con la carità essi in buona fede credono di rispondere al sentimento di solidarietà umana che germoglia nel loro cuore, e non comprendono di battere strada falsa. La carità si perde fra una miriade di parassiti e non giunge al bisogno se non per avvilirlo.
I poveri, fiduciosi in una vita futura che è menzogna, accettano l'elemosina e protraggono la loro miserabile condizione fino alla morte.
Intanto gli intermediari della carità vivono agiatamente alle spalle dei ricchi e dei poveri e non lavorano.
Il misero, cui non arriva l'elemosina del ricco, che estenuato di forze, sente grado a grado avvicinarsi la morte morale e la morte fisica, talvolta trova il coraggio di allungare la mano per afferrare la salute.
Quest'atto eminentemente sociale perché toglie alla disperazione un essere che è pur parte della società umana, è dalle leggi penali considerato un delitto. La reclusione accoglie il disgraziato per restituirlo più tardi ancor più povero e forse ancor più ribelle alla ingiustizia che lo opprime.
Ed è da codesti esseri che la macchina del diritto penale è specialmente alimentata, è sopra codeste vittime infelici che cala, nel silenzio della notte, la ferrea e pesante porta della reclusione.
Ma l'opinione pubblica è stanca di simili infamie sociali. Un fatto solo luminosamente lo dimostra.
Un giudice francese, il Magnaud, ha qualche volta violato la legge per rendere veramente giustizia all'infelice. Ebbene, quell'uomo si ebbe il plauso di tutti! Che significa questo plauso unanime ad un giudice che viola la legge?
Ma l'uomo non vive di solo pane. Il soddisfacimento di altri bisogni spinge talora il fragile essere al delitto.
L'opinione pubblica vuole che determinate persone, appartenenti a determinate funzioni abbiano a vivere con un certo decoro, in una certa agiatezza.Il pane non manca, ma la veste nera è sdruscita, i bimbi crescono, hanno bisogno di maggior nutrimento, di vestiti, di libri; la moglie fa il broncio se è costretta a mostrarsi alle amiche con l'abito non più di moda, senza il più modesto ornamento...La tentazione lancia i viscidi tentacoli ed avvinghia il povero impiegatuccio...Dalli al ladro! Gridano poi i vittoriosi, ed il vinto seduto sul banco degli imputati, col capo chino fra le mani, fiancheggiato da due gendarmi, pensa alla famiglia piombata nella disperazione, ed inerte, istupidito, ascolta ma non comprende le chiacchiere dell'accusatore e del difensore. Non è più un uomo, mille volte meglio per lui la morte.
Spesso il vinto è un uomo d'ingegno e di studio. Un mio conoscente, giovane distinto, appassionato per lo studio delle matematiche, dovette, dopo aver frequentato per un anno l'università, troncare gli studi per assoluta mancanza di mezzi di sussistenza. Si accorò talmente il povero giovane che morì di dolore. Il vinto in questo caso fu fortunato!
Tanti altri al suo posto, esacerbati, avviliti, imbestialiti, si danno al vizio nel modo più abbietto. Cercano consolazione e distrazione nell'alcool, nel gioco, nel bordello e finiscono in prigione. Così la società umana prima crea i delinquenti poi li condanna!
Tutte le ribellioni individuali o collettive, tutte trovano il loro movente nella miseria, oppure nelle ingiustizie che la collettività compie contro i singoli individui! La riabilitazione, ho già detto, non esiste, ed allora il fuoriuscito, l'uomo che non è più e non può più essere l'associato della collettività, il colpito dalle leggi o si rassegna alla vita del delinquente e dal miserabile o si erge come epico monumento a vendicatore.
Un giorno mi trovai col procuratore del re e con un magistrato al capezzale di un testimone in una corsia dell'ospedale di Mantova.
In un letto vicino stava coricata una bambina pietosamente assistita da due suore. Curiosità mi spinse a domandare.”Che ha quella piccina?” “E' una povera pellagrosa” mi rispose una suora, e con lo sguardo mi accennò alle braccia scoperte dell'ammalata. Erano tumefatte e gonfie, e le manine nerastre e squamose...
Un sentimento di profondo dolore sconvolse in quel momento l'animo mio, e rivolgendomi al procuratore del re: ”Ecco", gli dissi, "dove si ispirano coloro che voi chiamate assassini”. Che uno spettacolo simile od anche e non di rado, più doloroso e costante, si presenti a qualche individuo dotato di esuberante sentimento altruista, e la dolcezza e la bontà e l'altruismo per un fenomeno psichico evidentissimo si trasformerà in odio, in furore contro coloro che egli crede esser causa principale di tanta vergogna. E la società vorrà dessa punire questi infelici che per un sentimento di esagerato altruismo trasportati dalla passione si erigono a giustizieri e vendicatori della miseria? O non vorrà piuttosto prima provvedere acché alle già tante cause d'infelicità umana altre non se n'aggiungano volute e create dalla malvagità della costituzione sociale?
E' o non è la pellagra una malattia che nasce dalla miseria? E' o non è la miseria una piaga sociale voluta dagli uomini d'ordine che lottano per conservare lo stato attuale basato sull'ingiustizia e sul privilegio?

 http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/molinari/il_tramonto_del_diritto_penale/pdf/molinari_il_tramonto_del_diritto_penale.pdf

25 ottobre 2015

Janis (little girl blue)

Fa un certo effetto pensarla lì, nella camera di un motel di Los Angeles, morta di overdose a 27 anni, il 4 ottobre 1970. Janis Joplin: una delle più grandi voci della storia del rock. Fa un certo effetto perché in "Janis", film di montaggio realizzato con materiali d’archivio, a colpire sono proprio la solitudine e la fragilità di una little girl blue, di una ragazzina triste. Janis era di Port Arthur, Texas, e l’odio per le radici (ma non per la famiglia) e la rivalsa verso chi a scuola la maltrattava perché bruttina, o perché dalla parte dei neri, non se li è mai scordati. Nemmeno quando divenne una star a San Francisco, quando si esibì a Woodstock e Monterrey. Janis era furiosa verso chi l’aveva ferita, ed era capace di mollare tutto per una rimpatriata di compagni del liceo, giusto per far vedere chi era diventata. Nel film di Amy Berg c’è ovviamente molto altro: le radici soul, il rock anni 60, il Chelsea Hotel, gli amori tristi e pure un’esibizione in treno di “Me and Bobby McGee” con i Grateful Dead. Emergono dolore e spinta all’autodistruzione, la voglia di sballarsi e divertirsi come sola via di fuga da un paese che Janis non seppe mai abbandonare. Imperdibile.

 

16 ottobre 2015

16 Ottobre 1968: il giorno del pugno chiuso a Città del Messico.


Il Black Power dentro il recinto sacro dello sport.
Loro sono quelli che col pugno chiuso contro il cielo svegliarono il mondo dai gradini di un podio olimpico. 16 ottobre 1968, i giochi di Città del Messico, un pomeriggio caldo e nuvoloso. Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nella finale maschile dei 200 metri, sollevano il pugno guantato di nero e portano il Black Power dentro il recinto sacro dello sport. Ascoltano l'inno senza scarpe, calzini neri, testa bassa. Alfieri di una razza povera e discriminata cui l'America concedeva dignità solo in cambio di successi sportivi. Con quel gesto entrarono nella storia, nella memoria e nei poster di una generazione. Icone di un'epoca di grandi cambiamenti che due atleti infiammarono pacificamente nel momento più alto della loro carriera, pagando quell'atto di coraggio civile con l'isolamento e l'ostracismo per tutta la vita.
Tommie Smith era nato a Clarksville, in Texas, il giorno dello sbarco in Normandia. Cresciuto riempiendo ceste in una piantagione di cotone, si era iscritto all'università vendendo macchine e studiando la Costituzione e i discorsi di Thomas Jefferson. Correva veloce in pista, lo chiamavano Tommie Jet e lo paragonavano a Jesse Owens, il campione afro-americano che nel '36 aveva tolto il sorriso a Hitler dominando le Olimpiadi di Berlino nonostante la pelle scura. Lui però non voleva essere come il grande Jesse, cittadino emerito quando vinceva e negro il resto dell'anno. Quando tagliò il traguardo davanti a tutti in Messico, Tommie Smith aveva 24 anni e decise di dedicare la sua medaglia d'oro ai fratelli e alle sorelle che venivano linciati, umiliati, esclusi nella terra delle pari opportunità.

John Carlos invece era nato a Harlem, il ghetto nero di New York dove lavorava nel negozio di scarpe del padre e apriva le portiere dei taxi davanti ai locali jazz che rilanciavano le note di Duke Ellington. Grazie alle sue doti atletiche, aveva vinto una borsa di studio al college e si era poi trasferito in California dove si allenavano i velocisti più forti del paese. Lì, alla San Josè State University, aveva conosciuto Tommie Smith e insieme avevano aderito al Progetto olimpico per i diritti umani, una petizione degli atleti afro-americani contro le discriminazioni razziali promossa da Harry Edwards, sociologo e attivista con un passato da lanciatore del disco, il 'Professor Protesta' di uno dei tanti campus in fermento contro la guerra del Vietnam che la tv portava nelle case americane nella seconda metà degli anni Sessanta. Quando conquistò la medaglia di bronzo a Città del Messico, John Carlos aveva 23 anni e pensò che la giustizia sociale fosse più importante di un pezzo di metallo.
Sei mesi prima a Memphis era stato assassinato Martin Luther King. Subito dopo a Los Angeles, era toccato a Robert Kennedy. Il sogno americano listato a lutto. Gli atleti riuniti attorno al Progetto olimpico per i diritti umani avevano discusso tra loro la possibilità di boicottare l'appuntamento dei giochi: non volevano essere i cavalli da corsa dei bianchi, chiedevano allenatori neri da aggregare alla squadra americana, contestavano la riammissione del Sud Africa razzista nella famiglia dei cinque cerchi. Nella primavera del '67 Muhammad Ali aveva rifiutato l'arruolamento nell'esercito per motivi di coscienza, vedendosi strappare la corona dei pesi massimi. Kareem Abdul Jabbar, che all'epoca era ancora un cestista universitario chiamato Lew Alcindor, rinunciò a un posto nella nazionale olimpica ma alla fine la proposta di boicottaggio non passò. Si decise per un gesto simbolico e rispettoso che richiamasse l'attenzione su una giusta causa e ognuno fu lasciato libero di decidere come comportarsi.

L'apertura dell'Olimpiade messicana fu preceduta di pochi giorni dalla strage degli studenti a piazza delle Tre Culture, un corteo represso nel sangue davanti ad atleti e giornalisti internazionali. Smith e Carlos non furono gli unici a sentire il vento del cambiamento soffiare alle loro spalle. Dopo di loro, i quattrocentisti Usa Lee Evans, Ron Freeman e Larry James salirono sul podio col basco nero in testa, salutando col pugno chiuso. Con un volo infinito, Bob Beamon riscrisse il libro dei record nel salto in lungo e andò a ritirare la medaglia d'oro con i calzettoni neri tirati su per protesta. La ginnasta cecoslovacca Vera Caslavska vinse quattro ori e due argenti e quando fu suonato l'inno sovietico dell'avversaria Natalia Kuchinskaya abbassò la testa in silenzio contro i carri armati che avevano invaso il suo paese un mese prima. A cambiare la storia dell'olimpismo e l'iconografia del '68 fu però il podio nero dei 200 metri sul quale, accanto a Smith e Carlos, salì anche un terzo uomo. Bianco. L'australiano Peter Norman, che a 26 anni finì secondo e capì anche di esser finito nel bel mezzo della Storia. Negli spogliatoi dopo la gara, sfinito e sudato, si avvicinò ai due rivali che confabulavano tra loro con un paio di guanti in mano, comprati dalla moglie di Smith. Fu informato da Carlos di quello che si apprestavano a fare e chiese se per caso avessero una spilletta col simbolo del loro Progetto olimpico per i diritti umani. Norman era membro dell'Esercito della salvezza, un'organizzazione della Chiesa cristiana mondiale, e a Melbourne dove era nato e cresciuto aveva visto con i propri occhi la discriminazione razziale nei confronti degli aborigeni. Fu lui a suggerire agli altri due di dividersi i guanti, uno per uno. E si appuntò la loro spilla sul petto, rendendo ancora più dirompente la protesta in mondovisione. "Quel giorno diventammo fratelli", disse 25 anni dopo Carlos quando i tre si rincontrarono per la prima volta. Norman fu duramente ripreso dai dirigenti australiani e ai giochi successivi di Montreal non fu neanche convocato nonostante avesse i tempi richiesti. A Smith e Carlos andò molto peggio.
Il pugno destro di Smith era la forza dell'America nera. Quello sinistro di Carlos la sua unità. I piedi nudi avvolti nei calzini neri lo stato di povertà in cui il loro popolo versava da sempre. La testa piegata durante l'esecuzione dell'inno un omaggio a tutti quelli che avevano perso la vita per la libertà. Il pubblico fischiò, applaudì, gridò: in pochi si resero conto sul momento di quello che stava succedendo. La reazione del Comitato olimpico internazionale fu immediata. I due atleti furono sospesi dalla squadra americana ed espulsi dal villaggio olimpico, accusati di aver ricevuto soldi sottobanco. Rispediti in patria, ricevettero pacchi di sterco e minacce di morte dal Ku Klux Klan, persero il lavoro, si disse che gli avevano ritirato pure le medaglie. Bisognava dimostrare che quel gesto li aveva distrutti affinché nessun altro ci riprovasse più. L'esercito cacciò Smith per 'attività anti-americane': volevano punirlo, lo salvarono dal Vietnam. Carlos, dopo una breve esperienza nel football americano, si ridusse a fare il buttafuori nei locali.
Quaranta anni dopo Tommie Smith è un professore di sociologia che insegna ginnastica in un piccolo college a Santa Monica. Non si è mai pentito e i suoi studenti sono soliti chiedergli 'coach ma se sei così famoso, perché stai qui con noi?'. John Carlos fa l'allenatore di atletica in un liceo di Palm Springs, si occupa di servizi sociali, è un cristiano rinato. Dopo decenni di oblio, c'è sempre qualcuno che li cerca per un'intervista sul loro indimenticabile '68. Norman invece non c'è più, se n'è andato nel 2006 per un attacco di cuore e a reggere la bara a Melbourne c'erano Tommie e John. Gli sprinter che fecero la rivoluzione con un pugno, senza far male a nessuno. Dopo di loro lo sport non sarebbe più stato così politicamente sfrontato. Ma nemmeno, più, così innocente.

Fonte

Avviso.

Mi piace questa poesia, l'idea di infilarsi in testa un cappello rosso, fregarsene delle regole e godersi la vita....

"Quando sarò vecchia mi vestirò di viola
con un cappello rosso che non si intona e non mi dona.
E spenderò la mia pensione in brandy e guanti estivi
E in sandali di raso, e poi dirò che non abbiamo soldi per il burro.
Mi siederò sul marciapiede quando sarò stanca
E arrafferò assaggi di cibo nei negozi, suonerò tutti i campanelli
Farò scorrere il mio bastone sulle ringhiere
E mi rifarò della sobrietà della mia giovinezza.
Uscirò in pantofole sotto la pioggia
E raccoglierò fiori nei giardini degli altri
E imparerò a sputare.
Quando sei vecchia puoi indossare assurde camicie e ingrassare
E mangiare tre libbre di salsicce in un colpo solo
O solo pane e sottaceti per una settimana,
E accumulare penne e matite e tappi di bottiglia e cianfrusaglie nelle scatole.
Ma ora dobbiamo indossare vestiti che ci tengano asciutti,
E pagare l’affitto e non dire parolacce per strada
E dare il buon esempio ai bambini.
Dobbiamo invitare amici a cena e leggere il giornale.
Ma forse dovrei cominciare a fare un po’ di pratica adesso?
Così chi mi conosce non rimarrà troppo scioccato e sorpreso
Quando improvvisamente sarò vecchia, e comincerò a vestirmi di viola."
(Jenny Joseph)


Da questo buffo piccolo poema, è nata una vera e propria Red Hat Society, di ironiche signore decisamente over 50, che si ritrovano indossando un cappello rosso. L’autrice è Jenny Joseph, è un’inglese nata nel 1932, e prima di diventare la lady con il cappello porpora si è guadagnata da vivere scrivendo libri per bambini.

Il bello del web è anche questo: le poesie possono avere una seconda vita, una vita segreta, forse anche all’insaputa dei poeti. Passano di sito in sito, vengono usate e soffocate di emozioni diverse. Finiscono in una e-mail o in uno degli innumerevoli blog che popolano la rete come questo. Insomma, viaggiano e vengono lette, anche solo di sfuggita, ma danno il loro contributo di bellezza ad un mondo che di poesia ha tanto bisogno.

14 ottobre 2015

Tensione evolutiva.


Capita nella vita di dover fare delle scelte. Scelte che mettono davanti ad un bivio sconosciuto, senza navigatore ad indicare quale strada prendere. 
Capita che in quel momento crollino le certezze e tornare indietro possa sembrare la più saggia delle decisioni perché ciò che si para davanti è imprevedibile. 
Ma se si è arrivati a quel bivio non vuol forse dire che c'è stato un cammino che si è percorso fino ad arrivare lì? 
E allora, invece di avere paura dell'imprevisto e tornare sui propri passi, non è più stimolante cogliere l'opportunità di soddisfare la curiosità e risvegliarsi dal sonno della stagnazione?
Credo che scegliere una strada incerta significhi credere in ciò che si fa. 
Credo che rischiando ci si metta alla prova e si testino le capacità. 
Credo che preferire la tensione emotiva della ricerca e della scoperta sia più esaltante della paranoia della routine.
Scelgo la mia strada, altrimenti non vado in nessun luogo.


"Ci sono sempre due scelte nella vita: 
accettare le condizioni in cui viviamo 
o assumersi la responsabilità di cambiarle". 
(Denis Waitley)


11 ottobre 2015

Una piccola storia, una fantasia...o forse no.


Vento e acqua bussano alle finestre ora. Da poco siamo tornati facendoci sorprendere dal temporale. Non abbiamo voluto dar retta a quei nuvoloni profetici che volevano impedirci di camminare come sempre in mezzo ai boschi. Siamo bagnati, il cane ci rivolge uno sguardo di rimprovero e va ad arrotolarsi corrucciato nel suo angolino morbido. Per fortuna in casa c'è ancora una buona scorta di legna e basta poco per riaccendere il fuoco, un soffio e le braci sotto la cenere tornano ad occhieggiare, pronte a contagiare il loro calore. Un calore che si confonde e unisce con quello delle note lente e strascicate di un sax. Il nome no, quello non lo ricordo mai, ma tu sì e lo declami, evocandone la magia, mentre ti togli i vestiti bagnati di là, in camera. Anch'io mi spoglio, ma davanti al fuoco, perché la mia pelle ne assapori immediatamente la carezza. Ecco, la sensazione di benessere si allarga a tutto il corpo, mentre faccio spazio al piumone e qualche cuscino davanti al camino. Ti chiamo ma non rispondi perso a fare o a pensare chissà cosa. Ho voglia di abbracciarti e di consumare con te quelle lingue di fuoco sempre più alte che si insinuano predatrici. Il sax continua a illanguidire i pensieri, viene voglia di lasciarsi andare, seguire quelle note ovunque portino, senza resistenza, senza pudore. Eccoti finalmente. Sì, hai indovinato i miei pensieri: quei due calici di nettare rosso sono quello che mancava per annullare qualsiasi confine con la fantasia. Potrebbe succedere di tutto là fuori e non ce ne accorgeremmo, si sta troppo bene qui per preoccuparsi di altro.
Parliamo. Di noi, di emozioni. Ridiamo. Del presente e del passato. Del futuro no, incerta previsione che non sarà fruibile fino a che non diventerà anch'esso passato.
Poi le parole tacciono, non servono ora. Ora parliamo con gli occhi, con le mani, ipnotizzati dal calore dentro e fuori. Occhi socchiusi, mani lente e curiose, bocche solo morbide di baci.
I bicchieri sono ancora quasi colmi là, in un angolo, testimoni di un inizio appena accennato. Dopo, quando gli abbracci si scioglieranno e il velluto delle parole busserà al silenzio dei baci, dopo, forse, li vuoteremo…….se non ci addormenteremo, cullati dal calore delle tenerezze.

08 ottobre 2015

Vorrei.


Vorrei ancora sentirmi innocente, con gli occhi puliti di chi fa solo bei sogni e crede che si avverino.
Chiedere tutti i miei perché a qualcuno che riesca a rispondermi senza mentire.
Avere la possibilità di ignorare tutto ciò che è brutto perché troppa bellezza occupa la mia mente.
Stupirmi di ciò che non conosco senza pensare che è sconosciuto.
Avere la spontaneità di chi ancora non conosce.
Avere l'istinto di allargare le braccia senza pensare a difendermi.
Sentire sapori autentici, annusare il vento e ascoltare la musica che porta con sè.
Guardarmi intorno e scoprire che le lacrime sono semplice rugiada.
E poi ridere, ridere ancora, a bocca aperta,
perché nessuno può più piangere, nessuno può più soffrire.
Poter fare ciò che amo, perché tutti fanno ciò che amano senza togliere nulla a nessuno.
Vorrei...ma non posso.