30 maggio 2012

Virtualità: fantasia e realismo.


IL web, internet, la rete... la virtualità. Non sono un idealista, preferisco la razionalità a qualsiasi romanticismo, ma la virtualità... mi affascina. E cos'è la virtualità?  E' una simulazione della realtà, che oggi viene praticata attraverso strumenti tecnologici più o meno sofisticati. Io mi riferirò alla simulazione via chat, e-mail, con o senza video, del pc.

Avviene, in questo mondo virtuale (inesistente...), fatto di parole e di immagini che... la realtà scompare, sostituita da descrizioni grafiche più o meno vere. Più o meno... ho detto così, perchè si sa che la VERITA' assoluta  non esiste, nemmeno in natura, ma solo nelle  convenzioni, nel nostro modo superficiale di intenderci fra noi umani.

E' a questo punto che il fascino della virtualità mi invade. Perché  contrariamente alla realtà, la virtualità possiede una VERITA' ! Sì, una sola : la mia; quella di chi scrive, di chi comunica al resto del mondo ... qualunque cosa. Come si fa a sapere che è vera? Lo è per definizione: è una comunicazione, non è una realtà. Qualcuno dirà che le comunicazioni, nel mondo reale, servono solo se sono vere.... sì, ma qui sto parlando del mondo virtuale!

Ecco dov'è il problema: IL MONDO. E' un modo di dire, non esiste il mondo virtuale.... invece no, oggi esiste: è la rete. E nella rete avviene che molti, moltissimi, si rifanno una vita. Ma sì esagero, molti ancora ci annegano nella virtualità, ma è che non sanno ancora nuotare. Il mondo virtuale ha delle regole, delle leggi, delle caratteristiche ... insormontabili, o si accettano, o si ricade nella realtà. La prima clausola ferrea: la virtualità non è reale! E' un'ovvietà? Troppi che la frequentano non lo capiscono: vogliono che sia realistica. Invece  può essere solo VERA.
Sì, la differenza fra  REALTA' e VERITA', è la discriminante fra mondo reale e mondo virtuale. A questo punto ci vuole una precisazione: sto parlando di un mondo, non di uno strumento! Se uso la rete per motivi pratici, per leggere un giornale o un libro, quello è un uso strumentale appunto, non un vivere nella virtualità. Come si fa a viverla? Con i rapporti strettamente personali. Comunicando con un mio simile, in modo rigorosamente  personale, intimo, unico! E costruendo attorno a me  e alla persona con cui comunico, una VERITA' esclusivamente  nostra, virtuale. Non reale, virtuale, ma .... senza limiti, senza confini, senza costrizioni, senza obblighi, senza malattie, senza presenze contaminanti, senza necessità di alcun genere: solo il piacere di comunicare. E se si rimane in questo mondo, senza la pretesa di portarcelo a casa, e di farlo vedere agli amici e ai parenti, se restiamo lì dentro, e riusciamo a viverci davvero, e con qualcuno....... allora le cose diventano moooolto interessanti.
Ma questo è un altro discorso, se mai lo farò un'altra volta.

25 maggio 2012

“Schiavo non è tanto colui che vive oppresso dalle catene, ma piuttosto chi non riesce neppure ad immaginare la libertà” (Silvano Agosti)


Dedicato a chi mette in discussione il comma, la tassa, l’accisa, senza mai mettere in discussione il Sistema, con i suoi dogmi assurdi e fuorvianti: la crescita, la competizione, il profitto ecc, e a chi crede al brutto racconto che il potere fa dell’anarchia. Il giorno che la maggioranza della gente capirà l’anarchia ed avrà il coraggio di svegliarsi liberamente anarchica questo mondo potrà finalmente cambiare.

Tratto da: “Lettere dalla Kirghisia” di Silvano Agosti, un libro, a metà tra reportage e testo utopico, che racconta il miracolo di una società a misura d'uomo, in un paese dove tutti noi vorremmo vivere, dove si impara giocando, dove a 18 anni viene regalata una casa, si lavora 3 ore al giorno, chi ha voglia di fare l’amore si appunta sul petto un fiore blu, i politici guadagnano quanto le persone normali, ecc. ecc. Un mondo ideale, insomma.

Caro Abuniag Trinzek (cittadino della Kirghisia),
hai sollevato un bel vespaio con la tua lettera nella quale mi descrivevi le novità sociali del tuo Paese.Tra l’altro, giustamente, ha colpito i lettori il fatto che da voi, in Kirghisia, si lavora finalmente, con lo stesso stipendio, solo un giorno la settimana e gli altri sei giorni ognuno può dedicarli alla vita, alla scoperta del mondo, all’incontro vero con i propri simili. Devi sapere che qui da noi nessuno si è accorto che le nuove tecnologie hanno centuplicato la produzione della ricchezza che si può effettuare in una giornata lavorativa e lasciato misteriosamente intatti gli orari di lavoro, ne tanto meno si sono accorti che da oltre mezzo secolo i loro figli vengono obbligati a starsene seduti, tra scuola e compiti, circa otto ore al giorno, e che, alla fine dei loro corsi di studi, a qualsiasi domanda culturale spesso rispondono “boh!” O che la sanità sembra produrre più morti che guarigioni o che le carceri sono ricolme di poveri disgraziati e che le loro televisioni parlano solo di futilità, pestaggi, ammazzamenti (come i film che affollano le sale cosiddette “cinematografiche”).
Qui ormai è impossibile immaginare un modo diverso di organizzare la vita, perché tutti i grandi intellettuali ufficiali non propongono riflessioni nuove sull’organizzazione del lavoro, della cultura, della vita in generale, perché ognuno ci tiene a far bella figura con l’apparto, che li paga bene affinché rimangano allineati con le tematiche in vigore.
In questi giorni tutti sono diventati espertissimi sull’Islam e sui Paesi d’Oriente, ma nessuno accenna al tuo, la Kirghisia, dove finalmente è l’essere umano a trionfare e la struttura sociale non ha più la forma di una piramide, come qui da noi, con ai vertici i poteri e un po’ più sotto i privilegiati, e poi più sotto i lavoratori, i disoccupati, gli emarginati, i senzatetto alla base. Credo di aver capito che da voi finalmente la struttura sociale è a forma di sfera con al centro la vita e tutti gli esseri umani sono equidistanti dal centro, perché avete scoperto che “vivere” e “lasciar vivere” è la vera beatitudine, mentre qui da noi ci si accontenta di “produrre e consumare sempre di più” (a costo di ridursi in miseria, ammazzarsi di lavoro, e distruggere la Terra per trasformarla in una uniforme discarica). Alcuni hanno addirittura confuso la Kirghisia con il Kirghistan, forse non potendo neppure concepire che esista un Paese nel mondo che si ponga come unico e prioritario obbiettivo il rispetto per la vita, il benessere e la liberta. Altri hanno affermato “l’irrilevanza” di tue rilevazioni come: “Ognuno qui da noi, essendo obbligato a lavorare solo un giorno la settimana, può vivere accanto ai suoi figli, agli amici, agli amori e rendere le proprie giornate più simili a una festa che non, com’era prima da noi e come credo sia anche da voi, a una vera e propria condanna”.
O anche che: “Gli stadi qui da noi sono ormai semivuoti perché gli spettatori, invece di andarsene a vedere gli altri a giocare, si sono messi a giocare loro stessi”. O perfino che: “Ogni anziano è nominato ad honorem ‘insegnante di vita’ e viene invitato nelle scuole a raccontare la propria esperienza e la propria visione del mondo, e ha diritto dai settant’anni in su a mangiare gratuitamente in tutte le mense statali e a circolare sempre gratuitamente su autobus, metropolitane, treni e aeri, nonché a frequentare cinema e teatri senza alcuna spesa”. Insomma un lettore ha scritto sdegnato che tutte queste non sono che delle misere banalità, luoghi comuni e che significano soltanto che tu non hai nulla da dire, tra l’altro attribuendo a me il tuo scritto. Avevi ragione quando nel finale della tua lettera affermavi: “Certo per ora non conviene divulgare troppo queste notizie, potrebbero gettare la maggioranza di voi in uno stato di disperazione”. L’incredulità sull’esistenza stessa di uno Stato sociale che metta in primo piano il benessere dei propri cittadini è, come temevi tu, un sintomo di nascosta disperazione. Del resto i nostri padri ci hanno tramandato che “schiavo non è tanto colui che vive oppresso dalle catene, ma piuttosto chi non riesce neppure ad immaginare la libertà”

Peccato che la Kirghisia sia pura utopia… anche se esiste come stato e la qualità di vita è sicuramente più umana. Ma l’utopia cos’è? L’utopia è tale fintanto che pochi la sognano, ma quando si raggiunge il limite quantistico questa diventa realtà. Quindi la realtà esiste quando in tanti la sogniamo e realizziamo!

Qui potete ascoltare Silvano Agosti.

21 maggio 2012

I consigli del nonno picconatore.

Ricordatre Francesco Cossiga? Ebbene, questo simpatico vecchietto, già nel novembre del 2008, in uno dei tanti deliri di onnipotenza che lo hanno contraddistinto, scrisse una lettera aperta al capo della polizia Antonio Manganelli (sempre lui!!!)
Leggete, inorridite e pensate a come stanno seguendo bene i suoi consigli:

«Caro Capo, per alcune dichiarazioni paradossali e provocatorie da me rese sul come gestire l'ordine pubblico in questa ripresa di massicce manifestazioni e come, spengendo tempestivamente i focarelli, si possa evitare che divampino poi gli incendi, mi sono beccato denunzie da molte persone, sacerdoti, frati e suore comprese, e sembra che ne sia in arrivo una da parte di S.Em.za il Card. Tettamanzi, firmata anche dai alcuni suoi fedeli adepti dei Centri Sociali, dei No Global e dei Black Bloc.
Ma osando contro l'osabile, caro Capo, vorrei darLe un consiglio. Gli studenti più grandi, anche se in qualche caso facendosi scudo con i bambini, hanno cominciato a sfidare le forze di polizia, a lanciare bombe carta e bottiglie contro di esse e a tentare occupazioni di infrastrutture pubbliche, e ovviamente, ma non saggiamente, hanno reagito con cariche d'alleggerimento, usando anche gli sfollagente e ferendo qualche manifestante. È stato, mi creda! un grande errore strategico.
Io ritengo che, data anche la posizione dell'opposizione (non abbiamo più il Partito Comunista e il ferreo servizio d'ordine della CGIL), queste manifestazioni aumenteranno nel numero, in gravità e nel consenso dell'opposizione. Un'efficace politica dell'ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti. A mio avviso, dato che un lancio di bottiglie contro le forze di polizia, insulti rivolti a poliziotti e carabinieri, a loro madri, figlie e sorelle, l'occupazione di stazioni ferroviarie, qualche automobile bruciata non è cosa poi tanto grave, il mio consiglio è che in attesa di tempi peggiori, che certamente verranno, Lei disponga che al minimo cenno di violenze di questo tipo, le forze di polizia si ritirino, in modo che qualche commerciante, qualche proprietario di automobili, e anche qualche passante, meglio se donna, vecchio o bambino, siano danneggiati, se fosse possibile la sede dell'arcivescovo di Milano, qualche sede della Caritas o di Pax Christi, da queste manifestazioni,e cresca nella gente comune la paura dei manifestanti e con la paura l'odio verso di essi e i loro mandanti o chi da qualche loft o da qualche redazione, ad esempio quella de L'Unità, li sorregge.
L'ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio come ho già detto un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita.
Io aspetterei ancora un po', adottando straordinarie misure di protezione nei confronti delle sedi di organizzazioni di sinistra. E solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di ''Bella ciao'', devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell'ordine contro i manifestanti, ma senza arrestare nessuno.
E il comunicato del Viminale dovrebbe dire che si è intervenuto contro manifestazioni violente del Blocco Studentesco, di Casa Pound e di altri manifestanti di estrema destra, compresi gruppi di naziskin che manifestavano al grido di ''Hitler! Hitler!''. Questo il mio consiglio».

Non penso ci sia altro da aggiungere.

18 maggio 2012

Invito...

Questo post è un invito ad approfondire la conoscenza della FAI e della vera anarchia: con essa poi ci si potrà trovare legittimamente può o meno concordi ovvero discordi, ma che di essa non si debba dire che sia un qualcosa di incivile, rozzo, barbaro, violento o quant’altro di insultante, perché è l’esatto opposto e di certo è idea più elevata e sublime di molte di quelle che oggi reggono la nostra “civile” e “libera” società contemporanea…


Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale, e che gli uomini volendo e sapendo, possono distruggerli.
La società attuale è il risultato delle lotte secolari che gli uomini han combattuto tra di loro. Non comprendendo i vantaggi che potevano venire a tutti dalla cooperazione e dalla solidarietà, vedendo in ogni altro uomo (salvo al massimo i più vicini per vincoli di sangue) un concorrente ed un nemico, han cercato di accaparrare, ciascun per sé, la più grande quantità di godimenti possibili, senza curarsi degli interessi degli altri. Data la lotta, naturalmente i più forti, o i più fortunati, dovevano vincere ed in vario modo sottoporre ed opprimere i vinti.
Fino a che l'uomo non fu capace di produrre di più di quello che bastava strettamente al suo mantenimento, i vincitori non potevano che fugare e massacrare i vinti ed impossessarsi degli alimenti da essi raccolti.
Poi, quando con la scoperta della pastorizia e dell'agricoltura un uomo potè produrre più di ciò che gli occorreva per vivere, i vincitori trovarono più conveniente ridurre i vinti in schiavitù e farli lavorare per loro.
Più tardi, i vincitori si accorsero che era più comodo, più produttivo e più sicuro sfruttare il lavoro altrui con un altro sistema: ritenere per sé la proprietà esclusiva della terra e di tutti ì mezzi di lavoro, e lasciar nominalmente liberi gli spogliati, i quali poi non avendo mezzi di vivere, erano costretti a ricorrere ai proprietari ed a lavorare per conto loro, ai patti che essi volevano.
Così, man mano, attraverso tutta una rete complicatissima di lotte di ogni specie, invasioni, guerre, ribellioni, repressioni, concessioni strappate, associazioni di vinti unitisi per la difesa, e di vincitori unitisi per l'offesa, si è giunti allo stato attuale della società in cui alcuni detengono ereditariamente la terra e tutta la ricchezza sociale, mentre la gran massa degli uomini, diseredata di tutto, è sfruttata ed oppressa dai pochi proprietari.
Da questo dipendono lo stato di miseria in cui si trovano generalmente i lavoratori, e tutti i mali che dalla miseria derivano: ignoranza, delitti, prostituzione. Da questo, la costituzione di una classe speciale (governo), la quale, fornita di mezzi materiali di repressione, ha missione di legalizzare e difendere i proprietari contro le rivendicazioni dei proletari; e poi si serve della forza che ha, per creare a sé stessa dei privilegi e sottomettere, se può, alla sua supremazia anche la stessa classe proprietaria. Da questo, la costituzione di un'altra classe speciale (il clero), la quale con una serie di favole sulla volontà di Dio, sulla vita futura, ecc., cerca d'indurre gli oppressi a sopportare docilmente l'oppressione, ed al pari del Governo oltre a fare gli interessi dei proprietari, fa anche i suoi propri. Da questo, la formazione di una scienza ufficiale che è, in tutto ciò che può servire agl'interessi dei dominatori, la negazione della scienza vera. Da questo, lo spirito patriottico, gli odi di razza, le guerre, e le paci armate talvolta più disastrose delle guerre stesse. Da questo, l'amore trasformato in tormento o in turpe mercato. Da ciò l'odio più o meno larvato, la rivalità, il sospetto fra tutti gli uomini, l'incertezza e la paura per tutti...


In fondo, da cosa è formata la nostra realtà, le nostre verità quotidiane – in tantissime circostanze – se non da utopie divenute appunto realtà? E’ curioso rileggere la storia della civiltà umana e scoprire quanti casi vi siano a dimostrazione di ciò: che la Terra girasse attorno al Sole non era considerata una grande utopia – persino riprovevole, tanto da costare al povero Galileo lunghi anni di prigione? Cristoforo Colombo non inseguì una utopia nel dirigersi verso l’ignoto cercando le Indie e trovando addirittura un nuovo continente? Non erano utopie il volo umano, la televisione, l’uomo sulla Luna – ovvero, cambiando argomenti, la pari dignità della donna in tante società, un “certo” benessere, la libertà di espressione, certi progetti sociali? Di contro, è ugualmente curioso – e oltremodo interessante – scoprire quante verità ritenute certe, assodate, indiscutibili, sulle quali si era fondato e costruito gran parte del mondo, si siano rilevate irrazionalità, assurdità, anche errori spesso fatali: per riprendere l’esempio “galileiano” prima portato, quanti scienziati nel passato, per aver scoperto e annunciato nuove verità opposte a quelle accettate dai poteri vigenti (scientifici e non), conobbero le più atroci pene?
Ma anche tanti di coloro che si batterono per nuovi e migliori sistemi sociali, appunto, che in qualche modo potessero di conseguenza migliorare la vita e l’esistenza di quelli che ne facevano parte, hanno subìto sovente una brutta fine – anche solo per il fatto che le loro teorie, buone o cattive che fossero, andavano ad intaccare l’egemonia dei poteri vigenti e dominanti; e chissà quanti meravigliosi progetti di sviluppo sociale – e non solo: politico, economico, culturale e così via – sono divenuti utopie loro malgrado, ovvero così resi dal corpus dei poteri che li avversavano e che vedevano in essi una loro potenziale condanna… Tuttavia la storia dell’umanità ci parla anche di progetti considerabilmente utopici, nella loro essenza originaria, che sono stati capaci di trovare la strada della realizzazione concreta ma che poi si sono rilevati assai diversi da quanto la loro teoria sembrava esporre, per i più svariati motivi....
..............continua su L'utopia possibile di Luca Rota

17 maggio 2012

Se introduci un po' di anarchia... se stravolgi l'ordine prestabilito... tutto diventa improvvisamente caos. Sono un agente del caos. E sai qual è il bello del caos? È equo! (Il cavaliere oscuro)


Una delle cose che maggiormente viene contestata agli anarchici è quella della possibilità dell’autogestione. Soprattutto adesso, soprattutto rispetto all’"evoluzione" (???) che c’è stata nei meccanismi della società, troppo complicati per essere compresi dalla maggior parte delle persone e troppo difficili da gestire da chi non è “pratico”. Si pensa subito al famoso “caos” di una situazione totalmente assente di direttive e ruoli prestabiliti. Eppure fatti di questo tipo accadono continuamente nella vita reale: in determinate circostanze storiche (crisi economiche e finanziarie, crollo di regimi dittatoriali, guerre civili, processi di decolonizzazione, fasi successive a catastrofi naturali come i terremoti) ecco che il popolo si sveglia dal torpore e “scopre” l’autogestione, si riprende le fabbriche, i servizi, le scuole, le campagne. L’energia finalmente liberata s’impadronisce della realtà. Il metodo autogestionario può assumere anche un carattere rivoluzionario, soprattutto quando effettivamente il popolo si rende conto che può osare di più, ed è in grado di prendere parte al grande sogno della rivoluzione – come è accaduto nella Spagna del 1936 – autogestendo ogni ambito lavorativo e di vita: dalla grande industria all’agricoltura, dai servizi fino ai più piccoli esercizi commerciali, nei paesi, nei villaggi e nelle città. In Argentina, nei primi anni di questo secolo, dopo che i proprietari erano fuggiti all’estero con il denaro per paura delle conseguenze dell’incombente crisi finanziaria, abbiamo assistito all’autogestione delle fabbriche: i diretti interessati hanno lavorato anche in assenza dei vecchi padroni senza mettere in discussione l’autorità costituita.
L’autogestione può avere infatti varie caratteristiche, può essere limitata ad un ambito, come per esempio l’educazione scolastica, ma, in campo economico, può accadere che sia addirittura emanazione di uno Stato, com’è accaduto nella ormai estinta Jugoslavia durante la seconda metà del Novecento. Qui i lavoratori si autogestivano la produzione, decidevano autonomamente le varie fasi, i salari, i ritmi, ma all’interno di una pianificazione calata dall’alto. Nel caso jugoslavo si può senz’altro dire che in definitiva gli operai autogestivano il loro sfruttamento. Solo quando è parte integrante di un progetto antigerarchico l’autogestione diviene incompatibile con il sistema autoritario, capitalistico e statale; solamente in questo caso riproduce al suo interno tale incompatibilità, favorendo cioè la piena autonomia individuale, senza gerarchie o ruoli prestabiliti che diano accesso a privilegi. La libertà di tutti i soggetti che fanno parte del progetto convive con la responsabilità individuale, con la rotazione dei ruoli, l’equa distribuzione del sapere e dei beni di prima necessità, l’abolizione della proprietà privata... Non vi può essere infatti possesso individuale dei beni primari, come la terra, le materie prime, gli strumenti e le macchine, di cui la comunità fa uso: appartengono a tutti, perciò a nessuno; sono in prestito da chi ci ha preceduti e vanno in dote a chi ci seguirà.
Faccio un esempio che si inserisce meglio nella quotidianità: supponiamo che un gruppo di amici decida di comprare un casolare abbandonato e di rimetterlo in piedi per trascorrervi le vacanze. Ognuno mette in campo le proprie competenze in materia, tutti partecipano alle spese e tutti egualmente si spartiscono il lavoro senza che si sviluppino posizioni privilegiate. E se qualcuno ha meno possibilità di contribuire economicamente rispetto ad altri, prenderà parte lo stesso al progetto senza per questo venire penalizzato. Iniziano i lavori: l’autorità (per usare un termine che dovrebbe sempre fare rizzare i capelli) del falegname, o l’autorità del muratore non danno diritto a questi di assumere posizioni gerarchiche, di comando, ma, se riconosciute dagli altri, sono solo ed esclusivamente il frutto della loro esperienza, e come tale rappresentano la loro autorevolezza in una materia. Ciò definisce il contributo che daranno allo sviluppo dell’opera ma non gli concede in cambio ritorni dal punto di vista materiale, tipo particolari privilegi. Se saranno stati bravi la loro autorevolezza verrà confermata o accresciuta, verranno gratificati per questo, ma dal punto di vista del compenso finale esso sarà uguale a quello di tutti gli altri: la fruibilità di quel luogo che hanno contribuito a ristrutturare per poterci trascorrere le vacanze.
La bravura di una persona non deve essere motivo di gratificazioni economiche. È vero, e non c’è alcun dubbio che la capacità professionale di un individuo è il frutto dei suoi studi, del suo impegno, ma è altrettanto vero che essa è il prodotto di una società che gli ha permesso, con le sue strutture scolastiche, con gli insegnanti, con i libri e con il sapere che gli ha trasmesso, di divenire capace di fare determinate cose; una società che ha dedicato risorse, energie, tempo, spazio alla sua formazione. Il suo impegno senza tutto ciò non sarebbe stato sufficiente a farne quello che è diventato; viceversa la cura della società non sarebbe bastata senza i suoi sforzi personali. In quanto ai meriti, partiamo da un fatto: ciascun individuo si dedica a qualcosa. Mentre qualcuno si applica nello studio, tanti altri individui lavorano, producono, si impegnano in attività diverse ma altrettanto importanti. Se lui, per fare alcuni esempi, mangia, si veste, viaggia, legge, è perché altre decine di individui coltivano i prodotti che consuma, tessono e cuciono i vestiti che indossa, costruiscono, guidano i veicoli che lo trasportano, scrivono, stampano, rilegano i libri su cui studia... E così via. Dietro il merito di uno c’è il merito di tutti, questo è il senso di una comunità, di una società. Ora, il fatto che egli abbia raggiunto un certo grado di professionalità e sia entrato nel mondo del lavoro non può rappresentare un fattore di distacco da questo contesto, semmai è il momento in cui egli comincia a restituire parte di quanto ha ricevuto sotto i più svariati aspetti. È difficile dire che il pastore che accudisce le sue pecore per ricavarne latte e lana svolga una professione meno importante del professore che pure beve latte e indossa maglioni di lana, o che il lavoro dell’artigiano costruttore di borse sia meno dignitoso e meritevole dell’attività dello studente che riempie una di quelle borse coi libri sui quali studia.
È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, mediante la cooperazione volontaria, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo con la persuasione, l’esempio e il vantaggio reciproco che può trionfare  una società di persone liberamente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili. L’origine prima dei mali che hanno travagliato e travagliano l’umanità, a parte s’intende quelli che dipendono dalle forze avverse della natura, è il fatto che gli uomini non hanno compreso, o hanno smesso di comprendere, che l’accordo e la cooperazione è l’unico e solo mezzo per assicurare a tutti il massimo bene possibile. I più forti e più furbi hanno voluto sottomettere e sfruttare gli altri, e quando sono riusciti a conquistare una posizione vantaggiosa hanno voluto assicurarsene e perpetuarne il possesso creando in loro difesa ogni specie di organi permanenti di coercizione.


"Aspetterò domani, dopodomani e magari cent'anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie".
Fabrizio De André

13 maggio 2012

Per la mia mamma.


Qualche volta, quando i rumori tacciono
e il silenzio stende un mantello caldo di ricordi,
ascolto un tempo lontano, vivido di attese e di speranze.
Erano giochi della mente, lunghe corse di una fantasia vergine di mete.
Sento ancora la tua mano, un po' forte e un po' ansiosa,
che cercava di farmi entrare in un mondo che nemmeno tu conoscevi.
Sento il suono della tua voce, vedo i gesti stanchi, sempre quelli,
che non mi permettevi di ripetere, non era lì che dovevo stare.
Era là, dove i tuoi occhi si perdevano, che volevi portarmi.
Alzavi il velo dei tuoi segreti solo quando non vedevo,
per non aprirmi il tuo scrigno di lacrime.
Mi hai accompagnato, per un tratto, indicandomi l'orizzonte,
era il tuo respiro quel vento che mi sospingeva,
era il tuo amore che disegnava fiori sul mio cammino.
Non mi sono mai voltata indietro, pensavo fossi sempre lì,
pronta ad accarezzarmi la stanchezza.
Poi il vento ha smesso di soffiare
e la tempesta ha disperso le radici.
Perdonami mamma, ma non sono riuscita a vedere quell'orizzonte,
i tuoi occhi si sono chiusi troppo presto,
non ho più il coraggio dei tuoi desideri,
né il sorriso della tua forza.
Ho perso, come te, la battaglia della vita,
e il mantello si sta raffreddando.
Credo che riaccenderò i rumori,
comincio a sentirmi sola
senza le tue lacrime nello scrigno.

Gianna

11 maggio 2012

Signore in bianco

Signore in bianco
Voi insegnate la carità
Bene ordinata
Nei vostri castelli in Italia
Signore in bianco
La carità
E molto gentile
Ma che cos'è?
Spiegatemi

Di questi tempi io vivo a Aubervilliers
Un piccolo angolo sperduto in fondo alla miseria
Dove non ci poniamo troppe domande
Per mangiare bisogna sgobbare paparino mio
Signore in bianco
L'uccello ferito che ogni giorno
Voi consumate
Apparteneva ad une razza maledetta
Signore in bianco
Detto tra noi
Ricordate
Non molto tempo fa
Siete stato zitto
A quei tempi vivevo a Aubervilliers
Non era certo l'epoca per dire dei rosari
Ci ponevamo cosi tante domande
Per tirare avanti bisogna lottare paparino mio
Signore in bianco
Se un bel mattino partirete
Con i piedi davanti
Verso i vostri castelli in paradiso
Signore in bianco
Il paradiso
Puo essere carino
Pregate per me
Io non ho il tempo
Perché io vivro sempre a Aubervilliers
Le braccia annodate attorno alla mia miseria
Non ci porremo più tante domande
Nella vita bisogna amarsi paparino mio
Signore in bianco
Se io insegnassi la carità
Bene ordinata
Nei mei castelli di Aubervilliers
Signore in bianco
Non sareste certo voi
Che andrei a trovare
Per farmi indicare
Cio che bisogna donare


Il Signore in bianco è papa Pio XII.
Questa canzone di Léo Ferré, scritta nel 1949, venne
proibita dal Comitato di ascolto della
radiodiffusione francese.

Traduzione : Enrico Medail

La mélancolie.

Oggi va così...la mélancolie...e tutto per aver ascoltato questo brano.
E' difficile parlare di Leo Ferré a coloro che non lo conoscono: cosa proporgli per cominciare? Gli inni rabbiosi, violentemente anti-civili (e – attenzione – mai incivili!) quali appunto Ni dieu ni maître, Les anarchistes, Y en a marre, L’espoir... ma come poterli comprendere a pieno senza tener conto dei contemporanei folgoranti versi esistenzial-visionari, che travolgono le nostre coscienze personali quanto quegli altri travolgono il «buon senso comune»? Come capire a fondo Les anarchistes senza La memoire et la mer o Tu ne dis jamais rien? Oppure di accostarsi a Leo Ferré attraverso le centinaia di versi dei suoi «fratelli» poeti maledetti, trasformati in altrettanti classici della... canzone (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire... avete mai conosciuto migliore équipe di parolieri)?
Insomma... da qualunque parte la si prenda, l’opera di Ferré assomiglia a una cima montuosa che si può scalare da lati opposti sempre certi di giungere a un vertice, ma anche di averne impressioni diversissime.
A coloro che non lo conoscono posso dire: ascoltate quella voce che vi parla personalmente come un intimo amico. Io l'ho scoperto tardi, quando la sua vita cominciava già a finire, perché in Italia il nome e l’opera di Leo Ferré sono semi-sconosciuti, la sua discografia introvabile se non in pochi frammenti, rispetto alla sua sterminata produzione… E usare l’aggettivo “sterminata”, in questo caso, non è uno sproposito, perché Leo Ferré non è stato solamente un poeta, ma è stato cantante, musicista, saggista, romanziere e direttore d’orchestra, e alla sua morte, datata 14 luglio 1993, ci ha lasciato cinquecento canzoni, cinquanta album, due opere, una sinfonia, un oratorio lirico, la messa in musica di cento poemi dei poeti maledetti ed altri poeti (tra cui i “nostri” Cesare Pavese e Cecco Angiolieri), un romanzo, innumerevoli saggi e tre libri di poesia.
Per quarant’anni è stato acclamato in tutta Europa, nonché in Canada e in Giappone, come uno dei poeti e musicisti di maggior statura del nostro Novecento. La critica più esigente ha riconosciuto in lui un fenomeno raro: un puro letterato con il talento smisurato del grande compositore. Folle oceaniche hanno gremito i suoi concerti in Francia, Germania, Portogallo, Belgio e Spagna.
E in Italia, dove ha addirittura vissuto gli ultimi 25 anni della sua vita (a Castellina in Chianti, in provincia di Siena), è pressoché sconosciuto al grande pubblico. È incredibile, ma, come accennato precedentemente, la discografia di Leo Ferré in Italia è limitatissima e non certo di facile reperibilità.
Leo Ferré è stato un poeta scomodo, un provocatore (come lui stesso amava definirsi), ma un provocatore colto, elegante, geniale. Mauro Macario di lui dice:
"Il pazzo ispirato, il poeta profetico, colui che sempre più apparterrà al futuro ha attraversato i cieli d'Europa nel secolo scorso simile a una cometa incendiaria, inseminando germogli libertari a raggiera plurigenerazionale, scoprendo le zone clandestine di una geografia interiore dove, a resistenza permanente, bengala luminosi rischiarano i luoghi di une natività anarchica. La sua scia stellare, anatemica e catartica, non si spegne. Si chiamava Léo Ferré." E in veste di regista televisivo: "Proponevo periodicamente degli special su Leo Ferré, mi rispondevano “non fa audience”.
Ma in realtà la matrice libertaria delle sue scelte era la vera causa di questa indecente esclusione. 
La matrice libertaria di un artista che diceva di sé “sono anarchico da quando ero nella pancia di mia madre”, accostando (si immagini lo sgomento dei benpensanti) il calore e la serenità di un grembo materno al caos dell’anarchia. Ma l’Anarchia di cui parla Ferré non ha nulla a che vedere col caos o con la violenza, è l’Anarchia “con la A grande come Amore”, l’Anarchia che per molti anni ha dipinto attraverso le sue canzoni-poesie (“Les anarchistes” e “Ni Dieu ni maitre” ne son due tra gli esempi più famosi), attraverso quei versi che “devono far l’amore nella testa dei popoli”, attraverso i suoi monologhi e le sue pagine:
"L’anarchia è anzitutto un concetto umano, è prima di tutto amore e poi solitudine, perché l’anarchia è la negazione di tutte le autorità. Penso che sia qualcosa di veramente nobile. […] Se la gente conoscesse l’anarchia sarebbe anarchica così come è innamorata”.
E a chi fa finta di non capire e vorrebbe screditarlo, cercando di attaccargli l’etichetta di violento, Ferré spiega:
“Quando parlo di violenza parlo sempre di violenza intellettuale. Non sono un violento nella vita, sono un violento nelle parole perché ciò appartiene alla mia espressività”.
È ovvio, è tristemente ovvio alla luce di queste parole che l’opera di Leo Ferré non abbia trovato lo spazio che meriterebbe presso le case discografiche e le case editrici italiane. Basti pensare alla travagliata storia della pubblicazione del romanzo (l’unico scritto da Ferré) Benoit Misère, nella traduzione italiana del professor Giuseppe Gennari (presidente del “Centro Leo Ferrè” di San Benedetto Del Tronto) col titolo “Mi racconto il mare”, che, prima di trovare una casa editrice disposta a pubblicarlo, ha dovuto subire venti rifiuti da altrettanti editori.
Eppure, come scrive lo stesso Gennari, prendendo atto di questa serie incredibile di rifiuti editoriali:
credo che con la morte di Ferré l’umanità abbia perso un genio, l’unico che si sia espresso nel campo della canzone di ogni tempo e paese, dove pur sono fioriti tanti straordinari talenti. […] un genio, e come tale un probabile autore di durevoli novazioni; un genio che ha operato nel campo della poesia e della musica e ha avuto il torto o il merito (i posteri lo diranno) di esprimersi principalmente in quella forma poetica originaria, plasmata in musica e canto, che è la canzone.
In rete si trova poco di lui e mi dispiace, ascoltarlo e cogliere il pathos, la bellezza e il lirismo delle sue opere vorrebbe dire fare esercizio di sensibilità, andare alla ricerca del senso profondo dell’esistenza attraverso l’Amore come bene universale di uguaglianza sostanziale e di rispetto umano fra tutti gli esseri senzienti...
Andrebbe studiato nelle scuole, nelle università per la profondità del suo pensiero, della sua etica umana...

http://www.leo-ferre-by-scl.com/sommairegen.html

07 maggio 2012

Aspettando il messia.....


È piuttosto significativo che nei tg la notizia di apertura sia la “gambizzazione” di un emerito sconosciuto dirigente di non so che, rispetto a quella dell’ennesimo suicidio o tentativo di suicido.
Ora, non è che io mi strappi i capelli per coloro che si tolgono la vita, la considero una resa; è l’escalation continua di questi suicidi che deve far pensare, questo sì, non una pallottola nello stinco di uno che santo sicuramente non era!
Detto questo, vorrei in qualche modo cercare di razionalizzare la mia rabbia (rabbia innescata anche dal ricevimento del modulo per l’IMU!!!). Non sono d’accordo con la violenza, qualsiasi forma essa abbia, ma definire attentato terroristico una “gambizzazione” e paventare un ritorno al clima di terrore degli anni ’70, mi sembra eccessivo.
Quello che penso, anche alla luce delle elezioni in Grecia e in Francia, dove, secondo me, il dato di maggior risalto è l’avanzata della destra estrema , è che tutto questo agitare di fantasmi porti soltanto a una cosa, a una brutta cosa.
La gente si spaventa, si sente indifesa, ha paura di perdere anche quel poco che gli è rimasto, e allora che fa? Chiede maggior sicurezza, maggiore giustizia. 
Ma li avete letto i proclami dell’estrema destra? 
Giustizia, sicurezza, lavoro, meno tasse. 
Ma non è quello che vogliamo tutti? E che fa la gente che fino ad ora si era affidata ai cosiddetti partiti moderati e che ha visto disattesa questa fiducia? È piuttosto facile immaginarlo, no? Ed è lì che ci vogliono portare: alla disperata ricerca di una soluzione, QUALUNQUE ESSA SIA! E noi lì, a boccheggiare e ad aspettare il messia! 
No, non è mettendoci nelle mani di qualcun altro che potremo risolvere i nostri problemi! E non è dalla politica che possiamo aspettarci la soluzione, o perlomeno non da questa politica asservita alla finanza!
Noi, il popolo, siamo gli unici che possiamo cambiare le cose. Con questo non sto inneggiando alla rivoluzione armata (anche se…..a mali estremi….), sto solo pensando quello che sto mettendo in pratica da una vita: se ho un problema e lo voglio risolvere, l’unico metodo sicuro è quello di darmi da fare in prima persona, perché se aspetto che qualcun altro me lo risolva…..campa cavallo!!
Certo i problemi di una nazione non sono paragonabili ai miei, ma, facendo le dovute proporzioni, sono convinta che solo chi vive le difficoltà sulla propria pelle può trovare la maniera di risolverle. E sicuramente banchieri, finanzieri e politici o chi si proclama salvatore della patria non fanno parte di questa schiera.
E per risolverli dobbiamo smettere di essere schiavi dell’economia e tornare ad un ordine naturale e umano, dobbiamo riscoprire la cooperazione, il mutuo appoggio, dobbiamo combattere il razzismo, il militarismo e il fascismo.

Utopia? No, anarchia!

Direi d’essere un libertario, una persona estremamente tollerante. Spero perciò d’essere considerato degno di poter appartenere ad un consesso civile perché, a mio avviso, la tolleranza è il primo sintomo della civiltà, deriva dal libertarismo. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine negativo, addirittura orrendo…anarchico vuol dire senza governo, anarché… con questo alfa privativo, fottutissimo… vuol dire semplicemente che uno pensa di essere abbastanza civile per riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia (visto che l’ha in se stesso), le sue stesse capacità. Mi pare così vada intesa la vera democrazia. […] Ritengo che l’anarchismo sia un perfezionamento della democrazia. (Fabrizio De André)

Grazie a Paolo Schicchi

03 maggio 2012

Quando ho cominciato ad amarmi davvero...


Non so quando ho cominciato ad amarmi davvero, forse quando ho preso consapevolezza delle mie potenzialità, piccole o grandi che fossero,  e ho smesso di volere a tutti i costi piacere agli altri. Ma è stata una presa di coscienza lenta, progressiva e anche dolorosa, perché arrivare a piacere a sé stessi prima che agli altri implica una perdita di punti di riferimento che, anche se fasulli, danno un senso di appartenenza che viene meno quando si decide di non essere più come gli altri vogliono.
Ed è facile sentirsi soli in queste circostanze, quando si decide di dar retta ai propri pensieri, compresi impulsi e istinti, più che al giudizio di chi ruota intorno alla propria vita. Molti lo chiamano egoismo e forse è vero, ma è anche giusta la libertà di essere quello che siamo, senza condizionamenti o imposizioni (nei limiti del possibile).

Perché questi pensieri? Perché stamattina mi è capitato sott’occhio questo: 



Quando ho cominciato ad amarmi davvero,
mi sono reso conto che la sofferenza e il dolore emozionali sono solo un avvertimento che mi dice di non vivere contro la mia verità.
Oggi so che questo si chiama AUTENTICITÀ
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta, anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama RISPETTO PER SE STESSI.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere.
Oggi so che questo si chiama MATURITÀ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre ed in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene.
Da allora ho potuto stare tranquillo. Oggi so che questo si chiama RISPETTO PER SE STESSI.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro. Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi.
Oggi so che questo si chiama SINCERITÀ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato di tutto ciò che non mi faceva del bene: cibi, persone, cose, situazioni e da tutto ciò che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso, all’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma oggi so che questo è AMORE DI SÈ
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre ragione. E cosi ho commesso meno errori. Oggi mi sono reso conto che questo si chiama SEMPLICITÀ.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di vivere nel passato e di preoccuparmi del mio futuro. Ora vivo di più nel momento presente, in cui TUTTO ha un luogo. E’ la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo PERFEZIONE.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che il mio pensiero può rendermi miserabile e malato. Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore, l’intelletto è diventato un compagno importante. Oggi a questa unione dò il nome di SAGGEZZA DEL CUORE.
Non dobbiamo continuare a temere i contrasti, i conflitti e i problemi con noi stessi e con gli altri perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi.
Oggi so che QUESTO È LA VITA!

Questa splendida poesia è stata erroneamente attribuita a Charlie Chaplin. In realtà il titolo originale della poesia è “When I loved myself enough” ed è stata scritta da Kim e Alison McMillen

01 maggio 2012

Dedicato a tutti i “perseguitati” e a coloro che credono di sapere come debba andare avanti uno stato

Tucidide racconta un discorso di Pericle in “La guerra del Peloponneso” II, 34-41.

Siamo all’inizio della guerra del Peloponneso – Atene è al massimo della sua potenza e alla fine del primo anno Pericle commemora, secondo la tradizione della città, i caduti ateniesi. Con grande maestria Tucidide utilizza questa occasione per far comprendere al lettore come gli Ateniesi “vivevano” l’éthos della loro città.  

“Il nostro sistema politico non compete con istituzioni che sono vigenti altrove. Noi non capiamo i nostri vicini, ma cerchiamo di essere un esempio. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: per questo è detto Democrazia. Le leggi assicurano una giustizia uguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. 

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana: noi non siamo sospettosi l’uno dall’altro e non infastidiamo il nostro prossimo se preferisce vivere a modo suo (…). Ma questa libertà non ci rende anarchici. Ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede solo nell’universale sentimento di ciò che è giusto (…). La nostra città è aperta al mondo; noi non cacciamo mai uno straniero (…). Noi siamo liberi di vivere proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo (…). Noi amiamo la bellezza senza indulgere tuttavia a fantasticherie, e benché cerchiamo di migliorare il nostro intelletto, non ne risulta tuttavia indebolita la nostra volontà (…). Riconoscere la propria povertà non è una disgrazia presso di noi; ma riteniamo riprovevole non fare alcuno sforzo per evitarla.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private (…). Un uomo che non si interessa dello Stato non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché soltanto pochi siano in grado di dar vita a una politica, noi siamo tutti in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla strada dell’azione politica, ma come indispensabile premessa ad agire saggiamente (…). Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà e la libertà il frutto del valore, e non ci tiriamo indietro di fronte ai pericoli di guerra (…).
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la prontezza nel fronteggiare le situazioni e la fiducia in se stesso.”

Tucidide, Passo del discorso di Pericle citato nella Costituzione Europea

Tucidide, L’encomio di Pericle

Quando il 1° Maggio non era un concerto



di Lorenzo Stecchetti (pseudonimo del poeta romagnolo Olindo Guerrini, 1845-1916)


Passano lenti. Un lampeggiar febbrile
arde a ciascun il ciglio.
Passan solenni e da le dense file
non si leva un bisbiglio.
Toccandosi le mani ognun di loro
cerca il vicin chi sia.
Se i calli suoi non vi segnò il lavoro,
quella è una man di spia.
Sotto l'aspra fatica e il reo destino
molti già son caduti,
molti il carcer ne tiene od il confino,
e pur sono cresciuti.
Striscia il gran serpe de la folla oscura
de i ricchi su le porte.
Dentro, ne lo stupor de la paura,
si ragiona di morte.
Intanto il passo de la muta schiera
allontanar si sente
e nel silenzio de la fosca sera
spegnersi lentamente.
Ecco allora Epulon, vinto il terrore,
socchiude l'uscio e guata
e dice: "lode a Cristo ed al Questore,
anche questa è passata!".
È passata, ma invan te ne compiaci
ne l'allegre parole,
son gli antichi rancor troppo tenaci
per tramontar col sole.
Chi ti difenderà domani, quando
le turbe mal nutrite
assedieranno le tue case, urlando:
"è il primo maggio: aprite" ?
Oh, ben gli sguardi noi tendiam levati
a l'avvenir fecondo
e tu chini la fronte! I tuoi peccati
hanno stancato il mondo.