30 giugno 2014

La stagione del tuo amore....



La stagione del tuo amore
non è più la primavera
ma nei giorni del tuo autunno
hai la dolcezza della sera.
Se un mattino fra i capelli
troverai un po' di neve,
nel giardino del tuo amore
verrò a raccogliere il bucaneve.



29 giugno 2014

"Gridavano e piangevano: La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto", un libro scritto dal giudice Roberto Settembre.

Adriano Prosperi per "il manifesto" del  

Una scena del film Diaz di Daniele Vicari
G8 2001. «Ciò che ci insegna Bolzaneto»: un capitolo di storia della tortura tratto dai faldoni processuali arrivati davanti alla Corte d’appello
Scuola Diaz, caserma di Bol­za­neto: nomi che spic­cano nelle pagine più nere della recente sto­ria ita­liana. Basta una sigla, G8, a ricor­darci come fu cele­brato in Ita­lia il primo anno del nuovo mil­len­nio: l’evento, il gran­dioso tea­tro del potere pre­pa­rato a Genova per acco­gliere gli «Otto grandi» e cele­brare così le magni­fi­che sorti di un’Italia entrata nel club, fu un giorno di bat­ta­glia: ci fu un morto, il gio­vane Carlo Giu­liani ucciso da un cara­bi­niere. La sera, men­tre nella città si alza­vano ancora nuvole di lacri­mo­geni e della festa dei potenti restava una scena di squal­lore e di deva­sta­zione, si sca­tenò la ven­detta not­turna delle forze cosid­dette di sicu­rezza. Quello che avvenne fu defi­nito «macel­le­ria messicana».
Non il Mes­sico, altri luo­ghi e altre macel­le­rie erano nelle menti degli agenti di poli­zia e dei cara­bi­nieri. Quando i fer­mati sce­sero dai cel­lu­lari all’ingresso della caserma, dalla fila degli agenti di poli­zia e dei cara­bi­nieri che li aspet­ta­vano si levò il grido: «Ben­ve­nuti ad Ausch­witz». A par­tire da quel momento fu nei nomi di Hitler e di Mus­so­lini che si sca­tenò una mat­tanza, una siste­ma­tica opera di sadi­smi, cru­deltà, umi­lia­zioni e tor­ture per cen­ti­naia di per­sone inermi, espo­ste senza difesa alcuna alla vio­lenza illi­mi­tata di quei corpi di «uomini dello Stato».
Alcuni di que­gli uomini, con­dan­nati da sen­tenza di primo grado nel luglio 2008, fecero ricorso in appello. Il com­pito di rie­sa­mi­nare tutta la docu­men­ta­zione venne affi­dato a Roberto Set­tem­bre: di quella sto­ria aveva dovuto occu­parsi come giu­dice in una causa pre­ce­dente nella quale erano stati accu­sati e con­dan­nati i mem­bri del «Black Bloc», causa sca­te­nante del disa­stro della gior­nata geno­vese del G8. Quello che poi gli venne affi­dato era un com­pito diverso: un com­pito simile a quello dello sto­rico, come osserva in aper­tura del libro di rifles­sioni nato da quella espe­rienza, Gri­da­vano e pian­ge­vano La tor­tura in Ita­lia: ciò che ci inse­gna Bol­za­neto (Einaudi, pp. 260, euro 18,00).
In appello si lavora su ciò che è scritto, non si ascol­tano di nuovo testi­mo­nianze, non si vedono com­pa­rire accu­sa­tori e accu­sati. Davanti alla Corte ci sono solo i grossi fal­doni con gli atti del pro­cesso di primo grado: molte migliaia di pagine che il giu­dice rela­tore deve scor­rere per for­marsi un libero con­vin­ci­mento in mate­ria. Quel con­vin­ci­mento prese poi forma in una sen­tenza. Ma qui, nel libro che ha scritto, il giu­dice si è fatto sto­rico. Ha pen­sato che que­sta vicenda dovesse essere cono­sciuta al pub­blico dei let­tori. È a loro che ha voluto sot­to­porre le con­vin­zioni e le pro­po­ste che ne ha ricavato.
Si deve essere grati al giu­dice Roberto Set­tem­bre per que­sto libro: le sue pagine gui­dano il let­tore lungo un per­corso di ricerca met­tendo a fuoco via via situa­zioni, per­sone e com­por­ta­menti, affron­tando e risol­vendo dubbi, cer­cando la verità dei fatti ma anche, alla fine, ponen­dosi il pro­blema di come, per­ché, da quanto lon­tano si sia potuti arri­vare a que­gli esiti. Non si può che essere d’accordo con lui sul punto cen­trale: que­sta è una sto­ria che deve essere cono­sciuta, deve essere medi­tata, per­ché c’è in essa, al di là delle vicende nar­rate, degli orrori di vio­lenza e delle sof­fe­renze umane delle vit­time, un segnale impor­tante per l’intero paese, un segnale che non è stato ancora colto nella sua gravità.
Per capirne la natura biso­gna cono­scere quel che avvenne, allora, den­tro la caserma di Bol­za­neto. Biso­gna leg­gere le depo­si­zioni, col­lo­care volti e sto­rie negli spazi di quella caserma, seguire quel che vi spe­ri­men­ta­rono le vit­time. L’autore sem­bra aver fatto pro­prio la stra­te­gia di rico­stru­zione inte­riore che Igna­zio di Loyola definì come «com­po­si­zione di luogo»: vedere la scena («ver el lugar»), ascol­tare le voci, entrare men­tal­mente nelle situazioni.
Que­sto signi­fica ad esem­pio imma­gi­nare di essere al posto dell’arrestato Alfredo B. men­tre l’agente di poli­zia Gian Luca M. gli afferra con le due mani le dita della mano sini­stra e le diva­rica con vio­lenza lace­rando la mano fino all’osso. Signi­fica anche cogliere il valore di pic­coli det­ta­gli, come quello che affiora nella testi­mo­nianza dell’arrestato Alfio P.: il quale, men­tre rac­conta che nell’infermeria della caserma il medico «non si è com­por­tato come soli­ta­mente si com­porta un medico», ricorda inci­den­tal­mente che lui, il paziente, forse ancora in manette, era nudo, disumanizzato.
L’insieme delle sto­rie qui rico­struite alla fine fa emer­gere nella mente del giu­dice e in quella del let­tore una con­vin­zione «al di là di ogni ragio­ne­vole dub­bio»: qui non si tratta degli eccessi di uomini tra­sfor­mati in bestie asse­tate di san­gue, ine­briate dal pia­cere sadico dell’umiliazione e del dolore delle vit­time. Quello che accadde allora a Bol­za­neto – scrive Roberto Set­tem­bre – «va al di là di ogni sin­gola sto­ria». Siamo davanti alla costru­zione deli­be­rata di un uni­verso con­cen­tra­zio­na­rio. Poli­ziotti e cara­bi­nieri hanno in mente il modello dei campi di ster­mi­nio nazi­sti. Per loro gli arre­stati sono tutti ebrei e comu­ni­sti. La sub-cultura dei tor­tu­ra­tori si esprime nelle can­zoni fasci­ste, nel costrin­gere gli arre­stati a gri­dare «Viva Mus­so­lini» e a fare il saluto romano, nel con­si­de­rare «troie» tutte le donne per­ché di sini­stra, nel minac­ciarle di stu­pri, nel ves­sarle e ter­ro­riz­zarle, nel far gra­vare su tutti la paura della morte.
C’è un mito di fon­da­zione di quell’universo da incubo che si mate­ria­lizza nella caserma di Bol­za­neto, un mito neces­sa­rio e sem­pre pronto a rina­scere quando si cerca legit­ti­ma­zione ideo­lo­gica a un sistema di sopraf­fa­zione, di umi­lia­zione spinta fino all’estremo degrado fisico e men­tale delle vit­time. Que­sto sistema, che si mate­ria­lizzò per ore e per giorni nello spa­zio con­cen­tra­zio­na­rio di Bol­za­neto, lo ave­vano pre­di­spo­sto e lo gover­na­rono uomini dello Stato. Gli atti pro­ces­suali per­met­tono di seguirne i pas­saggi: le foto mostrano i volti mar­chiati da croci trac­ciate a pen­na­rello, i corpi con­tusi, le teste san­gui­nanti. Una vio­lenza fredda e illi­mi­tata è scritta nel volto ince­rot­tato di Gudrun, nei punti sulla gen­giva e sul lab­bro, nella sua man­di­bola frat­tu­rata con sette denti but­tati giù. Da allora sono pas­sati tanti anni, quei gio­vani tor­tu­rati si sono rico­struiti una vita. Roberto Set­tem­bre rac­conta con quanta dif­fi­coltà abbiano ritro­vato esi­stenze nor­mali e come a lungo abbiano dovuto lot­tare col peso di incubi e ter­rori, con la per­dita di fidu­cia nell’umanità tutta.
Rimane al let­tore la domanda di quale incubo di odio e di vio­lenza abi­tasse le menti di tutti dei tor­tu­ra­tori. Di que­gli uomini e donne, di quell’insieme di poli­ziotti, cara­bi­nieri, ope­ra­tori sani­tari abi­tual­mente defi­niti «ser­vizi di sicu­rezza» col­pi­sce la defi­ni­zione che vol­lero dare di se stessi. A Paul, una delle loro vit­time, fu chie­sto di rispon­dere alla domanda: «Chi è il tuo governo»; e la rispo­sta che si fecero dare in coro fu: «Poli­zia è il governo».
Si è ten­tati di respin­gere nel pas­sato la minac­cia a cui det­tero corpo allora quei poli­ziotti e quei cara­bi­nieri. Ma sarebbe sba­gliato. Le tare anti­che dello Stato ita­liano, fin dalle sue ori­gini sospet­toso e ostile nei con­fronti dei gover­nati, la sub-cultura fasci­sta che alli­gna nei luo­ghi di for­ma­zione dei corpi di sicu­rezza sono solo la parte affio­rante in super­fi­cie. Il depo­sito del pas­sato non è suf­fi­ciente a chi vuole capire il pre­sente. Qual­cuno – come qui si accenna – ha acco­stato il G8 geno­vese all’11 set­tem­bre ame­ri­cano: lo ha fatto il docu­men­ta­rio The Sum­mit di Mas­simo Lau­ria e Franco Fra­cassa pro­po­nendo la tesi di un com­plotto, di un coor­di­na­mento tra ser­vizi stra­nieri e poli­zia ita­liana per dare un segnale defi­ni­tivo ai con­te­sta­tori dei sum­mit internazionali.

Chissà se c'è un modo per capire a che punto stanno i nostri sentimenti?

"Giorgio Gaber" Pastello di Enrico Fornaini
"Dentro le nostre vite gironzola una certa accettazione di tutto e di tutti, direi una specie di quiete emotiva, dove il sentire, dove l'odio e l'amore appaiono a tratti e per la durata di un attimo....
Non so se la gente senta di meno.
Sembrerebbe, ma non ne sono sicuro. 
Chissà se c'è un modo per capire a che punto stanno i nostri sentimenti?" 
                                                            Giorgio Gaber

La storia del colibrì

Un'antica fiaba africana raccontata qui da Wangari Maathai.

Una enorme foresta viene divorata dalle fiamme. Tutti gli animali della foresta scappano e restano attoniti mentre guardano la foresta che brucia e si sentono molto a disagio. Si sentono tutti impotenti tranne uno, un piccolo colibrì che dice: "Devo fare qualcosa per questo incendio".
Quindi vola al fiume più vicino, prende delle gocce d'acqua e le getta sul fuoco. E va su e giù, su e giù più veloce che può.
Nel frattempo tutti gli altri animali, molto più grandi, come l'elefante con la sua grande proboscide che potrebbe raccogliere molta acqua, restano inermi e dicono al colibrì: "Cosa pensi di fare? Sei troppo piccolo! Questo incendio è troppo grande, le tue ali sono troppo piccole e il tuo becco può portare solo poche gocce d'acqua alla volta!"
Ma mentre continuano a scoraggiarlo, il colibrì si gira e senza perdere tempo dice: "Sto facendo il meglio che posso e per me è quello che dovremmo fare tutti".
 

Tutti dovremmo agire come il colibrì.
Posso sentirmi come insignificante ma certamente non voglio essere come gli animali che guardano il pianeta che va verso la distruzione.
Sarò un colibrì, farò il meglio che posso.



"Sono parentesi aperta nel cuore di ogni racconto, 
il battito veloce che in questo mondo non ha confronto
sono la goccia d’acqua che scava la coscienza, 
faccio la mia parte con metodo e pazienza."

27 giugno 2014

Chiesa e scandali, non basta condannare


«Io sono una persona importante, faccio parte della commissione per il rilascio dei permessi di soggiorno, posso farti avere tutto facile o posso rendere tutto più difficile. Ma tu che mi dai? Ma non capisci che cosa voglio?».
Sono stati necessari mesi di indagini per incastrare il presidente della Caritas (avete letto bene, la Caritas!) di Trapani, Don Sergio Librizzi, che da anni, almeno cinque secondo gli inquirenti, usava il suo potere per costringere i migranti maschi, giunti in Sicilia stremati da viaggi sui barconi della speranza e atterriti dall’ipotesi di dover essere rimpatriati, ad avere rapporti sessuali con lui.
Una vicenda sordida e odiosa che, peraltro, non ha destato il clamore mediatico che meriterebbe e si aggiunge ad un lungo rosario di nefandezze di cui si rendono responsabili con una frequenza sconcertante coloro la cui missione dovrebbe attendere al benessere non solo spirituale dei fedeli, specialmente i più bisognosi.
L’affaire Don Librizzi verosimilmente non è, purtroppo, un caso isolato.
La scoperta di quest’ennesimo squallido episodio non potrebbe essere l’occasione perché il buon Papa Francesco, vada oltre l’invettiva e la condanna, mettendo mano ad una vera riforma del clero e degli statuti che ne regolano l’ordinamento?
L’ossessione sessuofobica della Chiesa cattolica, che è il brodo di coltura delle perversioni di cui sono protagonisti, da secoli, sacerdoti nonché i membri degli ordini femminili e, in particolare, l’obbligo al celibato, non dovrebbero apparire anche a lui come l’evidente, inutile e nefasto portato della Controriforma?
Fu il Concilio di Trento infatti a sanzionare la norma fino ad allora non scritta e largamente disattesa (“si non caste, tamen caute”, “se non castamente, almeno con cautela”, recita un detto latino).
Dopo secoli, il Concilio Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII nell’intento di riformare profondamente la Chiesa ed il clero, superando le rigidità dei codici tridentini, non riuscì, almeno sotto quest’ultimo aspetto, a portare a complimento la mission affidatagli poiché fu concluso dal nuovo Papa Giovanni Battista Montini che decise di imprimere un vistoso colpo di freno al processo riformatore.
Paolo VI, salito al soglio, orientò i lavori conciliari in modo tale che il tema del superamento dell’obbligo al celibato dei preti, introdotto in apertura dei lavori conciliari dal Card. Suenens, Primate del Belgio, fosse rapidamente accantonato.
A posteriori non appare casuale la scelta di Montini di chiamarsi Paolo: come Alessandro Farnese (Paolo III) quel Pontefice che, a seguito e per reazione allo scisma di Lutero, indisse il Concilio di Trento. I nefasti risultati dell’ottusa difesa di una norma che non trova alcuna giustificazione dottrinale, non hanno tardato a manifestarsi: se da un lato è andata ad ingrossarsi la legione dei sacerdoti (e delle donne appartenenti ad ordini religiosi femminili) che hanno chiesto la riduzione allo stato laicale per poter contrarre matrimonio, dall’altro le vocazioni sacerdotali maschili hanno subito nel corso degli anni un vistoso calo.
I dati ufficiali riferiti al decennio 2000/ 2010 solo in Italia parlano chiaro: la Chiesa ha dovuto fare a meno di circa 8 mila preti, fra decessi ed abbandoni, mentre ne sono stati ordinati poco meno di quattromila. E il trend, in Italia ed in Europa, continua ad essere in ribasso. Parallelamente si è assistito all’esplodere su scala mondiale di scandali legati agli abusi sessuali di ecclesiastici su bambini e adolescenti, al punto di costringere finalmente la Curia romana, immediatamente dopo la morte di Giovanni Paolo II che, sull’occultamento e l’impunità per i membri del clero macchiatisi di simili crimini, porta gravi e documentate responsabilità, ad affrontare il problema a viso aperto.
A viso aperto certo, ma con modalità di intervento che appaiono del tutto inadeguate. Non vi è infatti solo il problema della repressione a cui, sia pure ancora troppo timidamente, si è messo mano. Fintantoché prevarrà nei vertici di Santa Romana Chiesa l’ostinazione a non “prendere il toro per le corna”, in altre parole a non porsi il tema della sessualità non più nei termini dettati dalla dottrina della Controriforma, ma con la presa d’atto che quelle direttive hanno provocato, nel clero e nei fedeli nel corso dei secoli solo danni, difficilmente si potrà rimuovere il bubbone.
Va considerato che lo stesso Lutero, che non era certo un’interprete libertario della dottrina biblica ed evangelica, e dopo di lui tutti i riformatori, risolsero il problema richiamandosi alla Chiesa delle origini, dove il tema del celibato esisteva unicamente per chi intendeva dedicarsi a una vita religiosa di tipo ascetico. Non per i presbiteri. Da buon gesuita, dunque formatosi in un ordine religioso nato a seguito della Controriforma, Papa Francesco fino ad oggi si è limitato all’invettiva contro la pedofilia e gli abusi sessuali da parte del clero.
Non basta. Così come non bastano proposizioni come quella della Curia vescovile di Trapani che a seguito dei fatti ha diramato una nota in cui, tra l’altro, si legge: “Esprimiamo la nostra ferma condanna verso comportamenti gravi e riprovevoli, inammissibili non solo perché reati, ma soprattutto perché offendono la dignità della persona e ledono gravemente la dignità del servizio sacerdotale”.
Postilla: La diocesi di Trapani da anni è nell’occhio del ciclone, per vicende legate a malversazioni finanziarie. Il precedente vescovo, dopo una “visita apostolica” fu rimosso e il suo vicario sospeso a divinis.
“Chiedilo a loro”, recita l’audiovideo della CEI diffuso su web e tv, che mostra la meritoria attività di preti e suore a favore dei bisognosi e che invita a donare l’8 per mille alla Chiesa cattolica.
A Don Librizzi, contestualmente alla scoperta dei suoi pessimi comportamenti, sono stati sequestrati liquidi per parecchie migliaia di euro rinvenuti, nel corso di una perquisizione, nel Tabernacolo della Chiesa (!).
Domanda: costoro sono l’eccezione che conferma la regola? Speriamo. Tuttavia, in assenza della necessaria trasparenza più volte evocata da Papa Bergoglio ma, ad oggi rimasta lettera morta, è lecito dubitarne.

Sonata della speranza


Per gli alberi bruciati dopo il temporale.
Per le acque fangose del delta.
Per quello che c’è di persistente nel giorno.
Per l’alba delle preghiere.
Per quello che hanno certe foglie
nelle vene colore dell’acqua
profonda all’ombra.
Per il ricordo di questa breve felicità
già dimenticata
e che fu alimento di tanti anni senza nome.
Per la tua voce roca di madreperla.
Per le tue notti attraversate dalla vita
in un galoppo di sangue e di sogno.
Per quello che sei adesso per me.
Per quello che sarai nel disordine della morte.
Per questo ti tengo al mio fianco
come l’ombra di una illusoria speranza.

ÁLVARO MUTIS (da Los trabajos perdidos, 1965)

 

http://cantosirene.blogspot.it/2014/06/sonata-della-speranza.html

26 giugno 2014

Sarebbe bello


Sarebbe bello 
pensare che la storia venisse fatta 
dai pensatori, dagli intellettuali, 
dagli scrittori, dai filosofi ecc., 
ma purtroppo non è così: 
la storia è fatta dai “venditori”, 
cioè da tutti coloro che si rivelano abili 
nel vendere la loro merce, 
buona o cattiva che sia. 
Per costoro la verità è spesso un optional: ciò che conta è il modo con cui riescono 
a vendere, a persuadere, 
cercando di farti acquistare il loro prodotto con atteggiamento acritico, 
senza un’adeguata e corretta valutazione.

Affari di gioco

Da Finimondo
[Machete, n. 3, novembre 2008]
 
Più che mai lo sport contraddistingue il nostro spazio e il nostro tempo. Malgrado le centinaia di milioni di tesserati sul pianeta, i miliardi di telespettatori, la sua importanza nel commercio mondiale, le sue complicità politico-finanziarie ed il suo potere egemonico sul corpo, lo sport viene presentato come un innocuo e piacevole passatempo. Ma se ci si intendesse una volta per tutte sul significato di questo termine, se si smettesse di confondere una partita fra amici che corrono dietro a una palla con una finale di Coppa del Mondo, o una corsa fra i campi con una finale olimpica dei 100 metri, la questione dello sport non apparirebbe più così innocente e risibile. Lo sport non è un gioco, né un’attività fisica. Religione dei tempi moderni, i suoi valori sono indiscutibili e le sue pratiche universali. Nato con il capitalismo, ne difende l’ideologia e i principi. Regno del corpo e del pensiero unico, lo sport riflette e diffonde una visione del mondo. E poiché l’intelligenza tende a diventare pigra al cospetto del consenso, è il caso di porsi alcuni interrogativi. Perché mai lo sport occupa un posto così considerevole nella nostra società? Come spiegarsi che tanti poveri si identifichino con atleti che guadagnano in pochi mesi quello che loro non guadagneranno in tutta la vita? Perché le diseguaglianze, le menzogne e la corruzione tanto condannate altrove vengono tollerate in ambito sportivo? Perché questo «fatto sociale totale» resta impensato?
Con occhi ingenui o interessati, lo sport viene visto per lo più come un universo incantato e incantevole di pratiche che mirano al superamento di sé, dei propri limiti, che nulla ha a che vedere con progetti politici, programmi economici o fedi religiose. Lo sport è considerato fondamentalmente neutro, apolitico, al di sopra di ogni conflitto sociale. Questa pretesa neutralità nega il ruolo dello sport nell’impresa di abbrutimento, indottrinamento e cloroformizzazione di massa, e si manifesta essenzialmente in due modi. Il primo consiste nel sostenere che lo sport, se organizzato in maniera “progressista”, può contribuire al miglioramento del mondo: all’emancipazione delle donne, alla lotta contro la tirannia, all’integrazione razziale, nonché alla promozione della “cultura”. Ci sarebbe quindi uno sport vero, educativo, puro, dal volto umano, insomma un’essenza o idea platonica dello sport in aperta contraddizione con i deprecabili eccessi, gli abusi, le degenerazioni dello sport che conosciamo. Ma la brutale realtà dell’affarismo, del doping, dei risultati truccati e della corruzione avrebbe dovuto già fare piazza pulita di simili illusioni.
L’altro modo per sostenere la neutralità dello sport, ancor più diffuso, trae spunto dall’unanimità del suo consenso. Considerato il prolungamento professionale di pratiche dilettantistiche diffuse ovunque, lo sport è talmente popolare da risultare intoccabile e da consigliare agli eventuali critici un cauto silenzio. Il gregarismo, la massificazione, la mobilitazione totale — se non totalitaria — delle folle che le favolose imprese degli idoli degli stadi mandano in delirio, confermano in effetti l’universalismo dell’ideale sportivo, ma in quale maniera? Nelle estasi nazionali che affollano la piazza in caso di vittoria, gli amici dello sport riconoscono la manifestazione di una unione sacra rigeneratrice. I campioni diventano quindi l’avanguardia di una società riconciliata con se stessa. Come ebbe a dire il capitano di una nazionale campione del mondo, «il calcio è un mezzo che permette di cancellare le differenze razziali, sociali o politiche». Ma la civile concordia auspicata da questa affermazione, per altro indicativa del potere anestetizzante dello sport, risulta puntualmente smentita dalle violenze che sempre più spesso accompagnano gli incontri. Sebbene queste violenze siano presentate come tragici «incidenti» causati da qualche balordo, si tratta in realtà dell’ovvia conseguenza del trionfo della logica competitiva — della vittoria ad ogni costo — che prevale nello sport come in ogni ambito della società.
Da molti anni siamo costretti a subire l’inflazione dello spettacolo sportivo su tutti i canali di comunicazione. I campioni dello sport sono sul punto di sostituire le stelle della canzone e del cinema sul podio delle icone moderne. I tiracalci a palloni di cuoio fanno parte delle personalità predilette dal pubblico, sono diventati i modelli pubblicitari da imitare, quelli con cui i giovani devono identificarsi. Eppure, durante le loro innumerevoli ed insopportabili interviste, essi appaiono altrettanto vuoti dei loro omologhi della musica o del piccolo e grande schermo. Il loro successo deriva soltanto dall’enfasi di cui lo sport gode nell’universo mediatico. La loro immagine viene costruita, uniformata e diffusa: stesso linguaggio demenziale, stessi hotel di lusso, stessa passione per la automobili di grossa cilindrata, stesse relazioni sentimentali con soubrette dello spettacolo, stesse droghe, stesso interesse per i conti bancari. Arruolati da squadre in mano a potenti interessi finanziari, questi pochi eletti passano il tempo a incontrarsi in giro per il globo, dando spettacolo di fronte a una immensa platea di diseredati e oppressi ridotti ad essere telespettatori fanatici, mere macchine da applausi. Gli atleti sono trasformati in uomini-sandwich, i loro attrezzi da lavoro e i loro corpi vengono ricoperti di pubblicità e durante le interviste non mancano di esibire i marchi degli sponsor e un adeguato sorriso promozionale. Lo stesso vale per i luoghi dove avvengono le competizioni sportive, spazi traboccanti di annunci pubblicitari posizionati ad uso delle telecamere. Si tratta di fare audience e di vendere con ogni mezzo. 
Gli sport-spettacoli dominanti vengono declinati in tutte le forme fino allo sfinimento, mentre si avvicendano altri mercati sportivi. Non esiste ormai più alcuna interruzione, ogni stagione ha il suo “avvenimento” sportivo (quando non diversi contemporaneamente) in un’autentica frenesia competitiva.
I giochi circensi degli antichi romani erano innocenti bambinate a confronto delle odierne manifestazioni sportive. Ma com’è possibile che uno spettacolo così idiota e cretinizzante appassioni miliardi di persone? È stato detto che la sua potenza si fonda sulla moltiplicazione infinita delle immagini, mediata solo da banali commentari. Questa teletrasmissione permanente, offerta in tutte le salse (in diretta, in differita, alla moviola, da più angolazioni) trasforma la passione sportiva in passione dell’immagine («l’iconomania» di cui scriveva Günther Anders). La contaminazione generale delle coscienze deriva da questo martellamento continuo. Infatti il tifo sportivo (all’origine della parola “tifosi”) è un’autentica pandemia che ha trasformato ogni individuo in un potenziale sostenitore. Al punto che per molte persone lo sport è diventato un bisogno essenziale, lo spazio-tempo quasi esclusivo delle folle solitarie che abitano il mondo moderno. Insomma, i tifosi delle competizioni sportive sono del tutto permeabili alle tecniche di manipolazione mentale del mercato. Consumano beatamente tutto ciò che viene loro chiesto di consumare e ne domandano ancora, al di là di ogni più rosea speranza. 
D’altronde trovano nello sport un ottimo fattore di socializzazione e di calore umano, con un terreno comune per sfogare il proprio bisogno relazionale. Poco importa che i loro argomenti di conversazione siano patetici e i loro slanci collettivi da stadio ridicoli. Sono comunque contenti di stare insieme e di vibrare per la medesima “causa”. Ciò li conforta un poco dall’atomizzazione fredda e implacabile dell’abitudinaria vita quotidiana. Gli spettacoli sportivi ricreano una comunione nel bel mezzo degli odierni rapporti terra terra, perciò i tifosi sono felici di urlare all’unisono negli stadi, in una sorta di corale virile. All’uscita possono raccontarsi le partite e fare pronostici sul prossimo incontro. Il chiacchiericcio sociale, questo intralcio permanente al pensiero, viene continuamente alimentato dai commenti sportivi. È facile rilevare l’effetto gregario di tutto ciò. Dato che la maggioranza delle persone si entusiasma davanti allo sport, quelli che temono di sentirsi esclusi seguono la tendenza collettiva, anche se non ne sono attratti allo stesso modo. Avrebbero paura di perdere il calore del gregge, qualora ignorassero gli ultimi risultati. 
Non ci si pone troppe domande, ci si comporta come fanno tutti. Come si fa sempre.
L’idolatria sportiva può diventare una forma di affermazione identitaria (più o meno violenta). Le mentalità sanguinarie comuni ai pre-umani trovano qui un accettabile surrogato della guerra. Gli scontri a colpi d’ascia o di bazooka vengono sostituiti dalle scazzottate fra tifosi di squadre avversarie, che talvolta finiscono con feriti e anche morti. Gli stadi diventano campi di battaglia dove non a caso si odono le medesime urla eccitate (nel corso degli ultimi mondiali di calcio, un commentatore sportivo affermò che l’Italia aveva «annichilito» gli avversari, ripetendo l’espressione usata poche settimane prima dai cecchini italiani in Iraq per indicare l’eliminazione degli insorti). Sebbene altri sport, a differenza del calcio, scatenino meno gli istinti bellicosi — almeno qui in Italia —, ciò non toglie che la mentalità di fondo sia la medesima. Le competizioni sportive sono occasioni per dimostrazioni virili esacerbate, dove comuni spettatori hanno l’illusione di esistere attraverso colpi di mano e l’adesione a qualche gruppo. Onore insperato, possono addirittura arrivare anche loro in televisione!
Un’altra forma di identificazione è quella che spinge il tifoso ad “attribuirsi” le vittorie della sua squadra o del suo beniamino. Un misterioso transfert di energia passa dal campione ai suoi tifosi. Tipico il caso del tifoso che, sparapanzato nella sua poltrona, imbottito di birra, esulta davanti allo schermo televisivo: «abbiamo vinto!». Coi suoi incoraggiamenti verbali a distanza, ha persino l’impressione di aver contribuito alla vittoria, di aver egli stesso segnato dei punti. Lui che per lo più si spacca la schiena per un salario da fame, diventa il cortigiano di persone diventate ricche e celebri solo grazie alla sua creduloneria volontaria. Invece di provare disprezzo per le stelle dello sport e di ignorarle fino a farle scomparire nel buco nero dell’oblio, si getta ai loro piedi elemosinando un autografo. Adora pensare alla notorietà e alla fortuna degli altri, a cui orgogliosamente ritiene di contribuire col proprio sostegno. È più facile vivere delle “imprese” degli altri che fare da sé degli sforzi, nello sport o altrove. Il tifoso più accanito non vive che attraverso la sua squadra o il suo campione preferito, rinunciando ad una personalità originale per annegare nell’ebbrezza allucinatoria sportiva. È il perfetto esempio del piccolo uomo descritto da Wilhelm Reich, qualcuno che «dissimula la sua piccolezza e ristrettezza mediante grandezza e forza illusorie, grandezza e forza altrui». Quando si ha già il pane, i giochi sono il complemento indispensabile per dimenticare la propria condizione di docili schiavi. A volte, fra i più poveri, lo sport riesce a far dimenticare anche la mancanza di pane. Lo spettacolo diventa cibo.
Un’altra delle ragioni del successo dello sport è rintracciabile nella mitologia della sua purezza. Ci troviamo in un’epoca sempre più oscura, nonostante le dichiarazioni di continuo progresso, in cui dovunque dilagano conflitti d’interesse, compromessi e trame più o meno occulte; il solo ideale diffuso è quello del massimo arricchimento. Nel mondo della dittatura dell’economia, le “imprese sportive” appaiono come antidoti, boccate d’aria purificatrice. Si fanno indossare allo sport indumenti iridescenti e gli si attribuiscono tutte le virtù. Esso incarnerebbe la cavalleria, il rispetto dell’avversario, la fine delle ostilità (la famosa tregua olimpica), la fratellanza e la solidarietà internazionale, la festa della gioventù… tutte cose assenti nella vita reale. Ci vengono narrate eroiche vittorie sugli elementi contrari e sui limiti fisiologici. Gli atleti diventano eroi, saggi, icone, statue d’oro, santi da venerare senza riserva e di cui bisogna seguire l’esempio. Nell’entusiasmo ci si scorda semplicemente che i loro candidi mantelli sono ricoperti di pubblicità e che lo sport è la fedele immagine della società, vale a dire è completamente marcio (basterebbe pensare al pugilato — la «nobile arte» —, al suo ambiente particolarmente corrotto, ai 400 pugili morti sul ring dal 1945). Non appena entrano in gioco la minima somma di denaro o il più infimo onore, si scatena l’avidità. Truffe, doping, sfruttamento, disparità uomo/donna e paesi ricchi/poveri, spirito di odio e di conquista… le turpitudini sono le medesime che si trovano dappertutto nel mondo della merce e del potere. Fin dal 1894, e per più di trent’anni, lo stesso de Coubertin aveva definito il denaro «il grande corruttore, l’eterno nemico», denunciando la «fabbricazione del purosangue umano» e l’avvento dei «meticci dello sport, giornalisti in cerca di copie, medici in cerca di clienti, ambiziosi in cerca di elettori, fannulloni in cerca di distrazioni, gente di ogni risma in cerca di notorietà». Il barone era sì reazionario ma, a modo suo, preveggente. Il suo difetto è di aver creduto possibile costruire una «società umana» sul culto del più forte, sulla concorrenza generalizzata e la competizione permanente, sull’apologia della virilità, sulla reificazione dei corpi, sulla cloroformizzazione delle coscienze, sui deliri patriottardi.
Allo stadio come altrove, la funzione essenziale dello spettacolo sportivo è la manipolazione delle emozioni di massa. È attraverso il gioco delle identificazioni collettive e della contemplazione passiva che opera questo “oppio del popolo”. Lo sport consola, pacifica, fa volatilizzare ogni conflitto sociale e di classe. Ecco perché, oltre ad essere una inesauribile fonte di guadagno, è anche un potente strumento di controllo e di pacificazione sociale. Durante le competizioni, infatti, si dimenticano la miseria della propria esistenza e le drammatiche condizioni in cui versa il mondo. Senza il minimo sforzo, i flussi di immagini e di commenti sportivi imbottiscono il cervello e dispensano dal riflettere sulle cause e i possibili rimedi delle questioni sociali che ci affliggono. Hitler e i suoi emuli hanno sempre compreso la potenza del fascino dello sport, e se ne sono serviti per ipnotizzare, unire e galvanizzare le folle. 
Nonostante nel 1892 de Coubertin sostenesse che «il giorno in cui (lo sport) verrà introdotto nei costumi della vecchia Europa, la causa della pace avrà ricevuto un nuovo e potente sostegno», il XX secolo verrà ricordato per essere stato il secolo del male e dell’indifferenza. Non solo lo sport non ha limitato la tirannia, ma anzi ne è sempre stato il complice. A confermare questo aberrante successo sportivo è lo stesso de Coubertin che, in occasione delle Olimpiadi berlinesi del 1936, ebbe a dichiarare che i Giochi «sono stati esattamente quel che volevo che fossero… A Berlino si è vibrato per una idea che non dobbiamo giudicare, ma che fu lo stimolo passionale che io cerco di continuo. D’altronde la parte tecnica è stata organizzata con tutta la cura desiderabile e non si può rimproverare ai tedeschi alcuna slealtà sportiva. In queste condizioni, come volete che ripudi la celebrazione della XI Olimpiade? Dato che anche questa glorificazione del regime nazista è stato lo choc emotivo che ha permesso l’immenso sviluppo che ha conosciuto». I regimi democratici contemporanei seguono il modello totalitario, riproducendolo in maniera molto più estesa e sofisticata. 
E che lo sport sia un potente strumento di pacificazione sociale non l’hanno capito solo i politici, ma anche gli industriali. Non avendo i grandi manager più nulla da dimostrare nel mondo degli affari, vale la pena chiedersi cosa li spinga ad investire in squadre la cui redditività rimane alquanto dubbia. Sebbene gli sponsor vengano presentati come uno strumento recente del mercato sportivo, la storia dei club sportivi mostra il contrario. Quante squadre di calcio sono controllate da industriali? Il caso della Juventus è esemplare. Così come Peugeot controlla il FC Sochaux dal 1925, Philips controlla il PSV Eindhoven e Bayer il Bayer Leverkusen dal 1904, la Fiat possiede dal 1923 la squadra bianconera di Torino. Passatempo? Opera sociale? 
In tempi in cui il concetto di «cultura d’impresa» non era ancora sorto mentre erano diffuse forti tensioni sociali, il padronato ha subito colto l’interesse implicito nello sport e le sue potenzialità. L’obiettivo è duplice: tenere occupati i lavoratori durante il tempo libero e assicurar loro una migliore identificazione con l’impresa attraverso un sistema di valori e di comportamenti, uno spirito di squadra e di competizione che renda più efficiente lo sfruttamento. Il successo finanziario passa anche per la soddisfazione dei salariati, facendoli sentire fieri di appartenere a una impresa «vincente», sul campo come in economia.
 

24 giugno 2014

L'assenza è un assedio

Una vita a precipizio
l'esistenza senza un senso
e la discesa niente ritorno
poi la salita viene crudele
come un miraggio
mentre il giorno tramontando
lascia un solco...
Le parole giocano strane
e il tramonto guarda in silenzio,
esperienza forse è in mano di altri,
poi la memoria, nascondendo il presente,
diventa ladra...
Passeggiate tra milioni di sguardi
tutti folli la domenica stanchi
ed il riposo rimandato a un domani,
nell'estate è bello un bagno
tutti soli...
Nella notte la tentazione
di sedersi per non più rialzarsi
ma poi per caso da una sottile fessura
si ripropone con due occhi tristi
un problema eterno.

Amore
amore
va la vita, va, amore
va la vita, va, amore
va così la vita, amore
va, la vita va.


Piero Ciampi - L'assenza è un assedio


La notte



La notte rimuove l'abituale sensazione di una vita comunitaria; 
quando non brilla luce, né si ode più voce umana, 
chi ancora veglia prova un senso di solitudine, 
e si vede isolato e affidato a se stesso.

HERMANN HESSE, Bella è la gioventù

Arboricoli d'Italia


Sembra l’incipit di una delle storie del “Barone rampante” di Italo Calvino, invece è l’esperienza quotidiana di un gruppo di uomini, donne e una bambina (Galatea di cinque anni), definiti come “arboricoli”, che hanno scelto di vivere confortevolmente in un villaggio sospeso tra gli alberi. Un desiderio di molti, ma un privilegio di pochi; anzi, pochissimi, al punto da essere un caso internazionale. Di “arboricoli” infatti, in Europa se ne trova traccia di casi singoli, mentre qui parliamo di sette case e quindici persone che vivono tra le montagne del NorOvest d’Italia. 
Sono un nucleo di famiglie che hanno scelto di mettere su casa tra gli alberi. Questa è la storia dei primi “arboricoli” d’Italia che si sapeva esistessero, ma nessuno era ancora riuscito a raccontare e fotografare. In esclusiva, il racconto dei quindici speciali inquilini “verdi”, compresa una giovanissima bimba nata direttamente su un castagno…

Letto qui
Qui  l'articolo completo

22 giugno 2014

Quanta plastica vaga per i mari di tutto il mondo?

Un nuovo continente di plastica scoperto nell’atlantico grande 6 volte la superficie della Francia!



Un avvistamento dopo l'altro e si scopre che i nostri oceani sono pieni di spazzatura. Dei cento milioni di tonnellate di plastica prodotta ogni anno il 10 per cento va a finire in mare, da cinquecento miliardi a un trilione sono solo buste; la stessa quantità si registra per piatti, bicchieri, pellicole per alimenti e bottiglie. Così in meno di cinquant'anni gli oggetti che utilizziamo solo per qualche attimo hanno formato un continente artificiale di roba inutile di cui non ci libereremo mai. Galleggerà in eterno senza che si riesca a raccoglierla.
Questa enorme massa di rifiuti potrebbe raddoppiare nei prossimi dieci anni, se non si adottano comportamenti più responsabili sia da parte dei consumatori, nell’utilizzo degli oggetti di plastica, che da parte di chi disperde in mare la spazzatura.
Il pericolo non è solo per pesci, volatili, tartarughe e mammiferi marini, ma anche per la vita dell’uomo. La plastica si degrada molto lentamente e frammenti e detriti agiscono come spugne che assorbono composti chimici micidiali per la nostra salute e per quella degli animali. Ingeriti dagli organismi marini, entrano nella catena alimentare e da qui raggiungono l’uomo.


Da BELLACIAO
Una grande massa di rifiuti di plastica inquina gli oceani del nostro pianeta. L’esploratore Deixonne Patrick e il suo team hanno recentemente condotto una spedizione per prelevare diversi campioni nel Nord Atlantico.
Accumulati nel tempo, i detriti di plastica gettati in mare formano letteralmente quello che gli scienziati chiamano il 7° continente, nel Pacifico settentrionale. Ma i continenti di plastica esistono anche in altri oceani. Un team di ricercatori è decollato per esplorare il fenomeno e prelevare diversi campioni nel Nord Atlantico tra i Caraibi e l’Africa.
A bordo di un catamarano di 18 metri, Patrick Deixonne ha guidato la spedizione con otto compagni di squadra tra il 5 e il 25 maggio scorso. L’obiettivo era quello di individuare e analizzare le grandi quantità di rifiuti nella parte settentrionale dell’Atlantico. Ogni anno, milioni di tonnellate di rifiuti vengono scaricati negli oceani, l’80% sono in plastica.

Risultati scioccanti.
Trasportati dalle correnti oceaniche,i rifiuti di plastica si accumulano progressivamente in aree ben definite. Uno studio dello scorso anno nel Nord Pacifico mostra dati allarmanti. I risultati mostrano che 3,5 milioni di km2 sono contaminati da rifiuti di plastica, sei volte la superfice della Francia.
Nel Nord Atlantico, l’esploratore Patrick Deixonne trova un’area che potrebbe avere una superfice due volte più grande di quella della Francia. Diversi campioni sono stati prelevati per determinare come la plastica si concentra e rilascia sostanze inquinanti. Inoltre, i ricercatori stanno anche cercando di capire che tipo di organismi si svilupano all’interno di questi materiali.

Diversi continenti di plastica.
Il team di scienziati ha constatato che esiste un vero e proppio continente di plastica nel Nord Atlantico. Molti rifiuti sono visibili ad occhio nudo: secchi, bottiglie, stivali, elmetti e plastiche di ogni tipo mostrano un eccessivo inquinamento della acque del globo. Tuttavia, il risultato più sconvolgente é di ordine microscopico, poiché milioni e milioni di particelle di plastica a forma di fiocchi stagnano nelle acque del globo.
Non sempre visibile, la minaccia è reale: ci sono milioni di uccelli, pesci e mammiferi marini che muoiono dopo aver ingerito questi materiali artificiali.L’eccessivo consumo di plastica dell’essere "umano" ha delle conseguenze ambientali che innegabilmente sconvolge l’ambiente degli animali marini. Poiché i rifiuti che abbondano nei mari e negli oceani fanno ormai parte della loro catena alimentare.
Le conseguenze di inquinamento delle acque sono significative ed è necessario contenerlo rapidamente a preservarlo prima che l’impatto sia totalmente irreversibile. Ci sono fino ad oggi non meno di cinque continenti di plastica sparsi in Atlantico, Pacifico e Oceano Indiano .


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16 giugno 2014

Meno male che c'è sempre qualcuno che canta

Meno male che c'è sempre qualcuno che canta e la tristezza ce la fa passare, se no la nostra vita sarebbe una barchetta in mezzo al mare, dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c'è confine, dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio di spine.


Troppo


01 giugno 2014

Oltre euro e antieuro

di Andrea Papi


Bisogna trovare la maniera di andare oltre il denaro per come è definito, organizzato e concepito. 
Bisogna ripensare come ricostruire autentici strumenti di scambio, 
questa volta autogestiti dalle comunità 
e non lasciati alle gestioni autoritarie 
della speculazione finanziaria.

La rappresentazione che continuiamo a farci del mondo è irrimediabilmente antropocentrica. Espone esclusivamente il punto di vista umano, che abusivamente si autoconsidera l'unica specie animale padrona, depositaria indiscussa del pianeta terra. Inoltre è discriminante nei confronti della gran massa dei più deboli, degli oppressi e dei sottomessi. Uno sguardo criminalmente parziale, che obnubila la consapevolezza e l'ammissione della letale tragicità con cui la nostra specie opera quotidianamente.
Gli strumenti che l'umanità continua a rendere operativi, motivandoli con una sempre meno convincente ricerca di “stare meglio”, continuano a trasformarsi regolarmente in lacci, gabbie, massacri, genocidi e stimoli per decessi suicidi. In pratica tutto e tutti siamo esposti a continui effetti deleteri. Solo un'esigua minoranza, sempre meno definibile come elite dal momento che non si tratta certo dei migliori, può difendersi perché possiede risorse per approntare mezzi adeguati, supportata dagl'ingenti capitali che le derivano dalle continue rapine perpetrate contro la stragrande maggioranza delle popolazioni che, ignare della partita che si gioca sul loro capo, ne subiscono invece le deleterie conseguenze.
Dentro un contesto culturale e d'azione che procede esclusivamente per dominare, mentre tutto finge di mostrarsi aperto verso mete dall'aspetto affascinante, la cosiddetta “globalizzazione”, cioè l'incontrollabile circolazione sovraterritoriale ed extrastatale di qualunque cosa, non fa altro che favorire sistematici effetti devastanti. In tal senso, per esempio, è illuminante e altamente significativa la propagazione planetaria sia delle malattie sia delle finanze che, pur muovendosi in campi molto distanti fra loro, entrambe producono effetti di massa particolarmente deleteri proprio in ragione della loro sostanziale capacità di espansione. Hanno in comune che scorrazzando liberamente producono disastri.
In un mondo sempre più interconnesso virus e batteri viaggiano in aereo e possono raggiungere in poche ore ogni angolo del pianeta. Secondo le statistiche dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità), le malattie veicolate da insetti uccidono ogni anno un milione di persone, su più di un miliardo d'individui infettati nello stesso arco di tempo, e più della metà della popolazione mondiale sarebbe a rischio. Poi ci sono le cosiddette malattie tropicali dimenticate, come ad esempio la lebbra e la Dengue, un'infezione virale tropicale trasmessa dalla puntura della zanzara “Aedes aegypti” che nella sua forma più grave può provocare febbri emorragiche, che colpiscono più di un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo. Cifre che, sebbene allarmanti, in realtà sottostimano le gravi conseguenze sui sopravvissuti, come cecità, mutilazioni e altri handicap – afferma Margaret Chan, direttore generale dell'Oms. I fattori che favoriscono la diffusione globale di queste patologie sono molteplici. Oltre ai super citati cambiamenti climatici contribuiscono la sistematica rapida urbanizzazione, le inarrestabili sciagurate deforestazioni, l'agricoltura intensiva, il turismo di massa in continua rapida espansione e la colonizzazione di nuovi territori, ormai sempre meno circoscritti alle aree più depresse.

Folle accumulo di ricchezze
La finanziarizzazione dell'economia invece, che opera attraverso le reti telematica ed elettronica globali, dal canto suo agisce su un piano di realtà virtuale che viaggia all'inimmaginabile velocità di nanosecondi (un nanosecondo corrisponde a un miliardesimo di secondo), riuscendo a imporre ad intere popolazioni condizioni di vita altamente diseguali, in moltissimi casi aberranti.
Da una parte favorisce solo un'esigua minoranza privilegiata, per conto della quale secondo dopo secondo accumula rendite finanziarie che raggiungono cifre iperboliche. Dall'altra parte, attraverso meccanismi e automatismi fuori controllo e al di là di ogni supposta regolamentazione, per realizzare questo folle accumulo di ricchezze concentrato in un numero infimo di mani costringe masse ingenti di persone a vivere in condizioni indigenti. Poveri o sotto la soglia di povertà, schiavizzati, ricattati e sottomessi, non protetti da nessuno e sottoposti alla prepotenza sistematica di normative e regolamenti che solo i ricchi riescono tranquillamente ad aggirare, gli altri, i non ricchi, subiscono sistematicamente soprusi e prevaricazioni insopportabili, anche fino alla morte all'inedia e all'impotenza. Siamo precipitati in un incubo che sta superando ogni immaginazione sui peggiori effetti della supremazia capitalista.
Di fronte a un tale desolante scenario, in questo terribile panorama le cui tinte sembrano più orride che fosche, rischia di diventare fasulla la contrapposizione diadica “euro o non euro?” che in Europa sta avviluppando la propaganda politica di ogni parte istituzionale in causa. Il problema non può essere racchiuso e limitato a soluzioni, solo apparentemente tecniche, che vanno alla ricerca di come rimettere in moto l'economia. È questo sistema economico e finanziario che non va e che, per sua stessa natura, produce mostri.
Per avere un'idea delle prospettive verso cui stiamo marciando con grande celerità è interessante la riflessione di Federico Rampini. Su “la Repubblica” del 3 aprile riporta lo scenario prospettato dall'esperto di finanza Sorkin sul New York Times. Nel 2040, o giù di lì, saremo pienamente entrati nell'era post-monetaria. Il denaro non si userà più perché ogni acquisto ci verrà addebitato, senza neanche accorgercene, direttamente sul conto personale aperto sullo smartphone, oppure identificandoci pupille, impronte digitali e impronte facciali con tecniche biometriche. Pagheremo tutto non con monete tradizionali, come euro o dollari, ma con monete virtuali emesse da Google o Facebook, oppure con crediti accumulati attraverso le spese su Amazon o i Tunes.


Una dicotomia dialettica destinata ad essere superata
L'era post-monetaria in parte è già iniziata. Giappone e Corea del sud, per esempio, usano già da un po' gli smartphone come portafogli virtuali. In Svezia, nella metropolitana di Londra, perfino in Kenia, stanno sperimentando l'uso di massa del telefonino come carta di credito per pagare vari servizi. E sempre di più si usano il PayPal di eBay e i sistemi di addebito che usano il software Android sui telefonini Samsung.
Nella prospettiva di cui parla Rampini l'esistenza del denaro quale mezzo di transazione smette di essere un problema eminentemente economico, per diventare un problema squisitamente di potere (potere di controllo, di prelievo, di indirizzo, ecc.). Personalmente non so se arriveremo mai alla condizione prospettata dalla “post-moneta”, cioè ad una totale mancanza dell'uso monetario sotto qualunque forma. Quello che invece mi sembra di capire è che stiamo avanzando verso un cataclisma sociale in cui il denaro si userà sempre meno, per essere progressivamente sostituito da mezzi di controllo sugli individui, come cip, carte di credito, prodotti finanziari e quant'altro, che non gestiremo direttamente e che ci verranno prelevati alla fonte da forze sovrastanti che decidono tutto al posto nostro in nome nostro.
Il problema allora sarà sempre meno se val la pena di far parte dell'euro o no, perché qualsiasi sia la moneta che useremo verremo di fatto giocoforza incanalati in un altro sistema di “acquisto-consumi”, non più basato su mezzi concretamente tangibili come la carta moneta, ma su operazioni computerizzate via etere la cui base non è materiale ma virtuale. Il fondamento di questo sistema non sarà più lo scambio volontario e consapevole, ma il controllo dei movimenti individuali e la perdita dell'autonomia. Sarà il trionfo più completo dell'ingerenza del dominio direttamente nella condizione esistenziale delle persone.
Euro o non euro è una dicotomia dialettica che a breve sarà superata dai fatti, da uno status delle cose oltre l'uso del denaro, obbligante con tutti i vincoli e le limitazioni che più che condizionare l'esistenza la incatenano. Un'impostazione che sta perdendo totalmente le caratteristiche del mezzo di scambio, ormai solo finalizzata a controllare, condizionare e obbligare, in modo che non si riesca più a sottrarsi alla condizione di dipendenza su cui si fondano le società del dominio, oggi potenti più che mai. Il problema vero allora va cercato e identificato nel trovar la maniera di andare oltre il denaro per come è definito organizzato e concepito. Bisogna ripensare come ricostruire autentici strumenti di scambio, questa volta autogestiti dalle comunità e non lasciati alle gestioni autoritarie della speculazione finanziaria.
.........dopo tutto, ci vuole troppo tempo 
a trovare gente 
con la quale vivere le mie idee, 
e così me le vivo da solo........
 
Fabrizio De André