30 maggio 2013

"Al mio funerale vorrei donne vestite di rosso che cantano Bella Ciao"

Qualche mese fa Franca Rame, moglie di Dario Fo e sua compagna di palcoscenico e di impegno politico, scriveva questa bellissima lettera al marito....
Da http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/30/lettera-damore-a-dario/483928/

Sono nata nel 1929.
Quando ero piccola, sette, otto anni, mi veniva in testa un pensiero che mi esaltava: morire.
Quando morirò?
Com’è quando si muore?
Come mi vestirò da morta?
Forse mamma mi metterà quel bel vestito che m’ha cucito lei di taffetà lilla pallido orlato da un bordino di pizzo d’oro.
“Sembri un angelo! Quanto è bella la mia bimba che compie gli anni!” mi diceva.
A volte mi stendevo sul lettone di mamma: vestito, calze, scarpe, velo bianco in testa, una corona del rosario tra le mani poste sul petto (tutta roba della Cresima), felice come una pasqua aspettavo che qualcuno mi venisse a cercare e si spaventasse…scoppiando in singhiozzi. “E’ mortaaa! Franchina è mortaaaaa?!” E tutti a corrermi intorno piangendo…arrivavano i vicini, il prete e tutti rosariavano in coro.
Arrivasse un cane di un cane. Nessuno spuntava.
Nell’attesa mi addormentavo.
Al risveglio ero incazzata nera.
“La prossima volta vi faccio vedere io!” bisbigliavo minacciosa.
Poi mi sgridavo: “Cattiva, sei cattiva!!! Dare un dolore così grande alla tua mamma. Vergognati! Con tutti il bene che ti vuole…”

“Ascoltami Franchina… – mi diceva mamma – ci sono delle regole nella vita che vanno rispettate, ogni giorno: non poltrire nel letto, la prima cosa che devi fare, come apri gli occhi è sorridere. Perché? Perché porta bene. La seconda correre in bagno, lavarti con l’acqua tiepida, orecchie comprese, velocemente, vestirti. Far colazione e via di corsa a scuola. Salutare con un sorriso le persone che conosci, se aggiungi al sorriso un ciao-ciao con la manina è ancora più gentile. Non dare confidenza ai maschi. Tenerli a rispettosa distanza. Non accettare dolci o regali da nessuno…specie se uomini. Non parlare mai con gli estranei. Mi raccomando bimba, non prendere freddo, d’inverno sempre la cuffietta di lana all’uncinetto con i pom-pom rosa che ti ha regalato la zia Ida…gli stivaletti rossi di Pia (mia sorella maggiore) che non le entrano più. Ti voglio bene-bene-bene.” Lo ripeteva tre volte con ardore perché mi si inculcasse bene nel cervello. “Fai attenzione a tutto…come attraversi la strada…guai se vai sotto a una macchina. Ti rompi tutta…ricordati che ci ho messo nove mesi a farti!”
Me ne andavo felice…Un po’ soprappensiero per quei nove mesi di lavoro per la mia mamma a farmi. E’ stata impegnata per un bel po’ di tempo…tutti quei mesi!
La vedevo intenta a mettere insieme i pezzi.

Ma dove li prendeva?
Forse c’eran dei negozi nascosti che li vendevano: “Vorrei due gambette con i piedini, due braccine con le manine, un corpicino, la testolina no…ho una bellissima bambola lenci di quando ero piccola…ci metto quella. “Chiederò a mamma, quando sarò più grande che mi spieghi come ha fatto a confezionarmi.

Ora siamo nel 2013. Da allora sono passati molti anni. Sono arrivata agli 84 il 18 luglio. Faremo una bella festa tutti insieme.
Quando Jacopo era piccolo, a Natale arrivavano regali da ogni parte…più i nostri.
Li posavamo tutti sul tavolone della sala da pranzo. Come il bimbo si svegliava lo si portava tenendolo in braccio davanti a tutto quello che aveva portato il Bambin Gesù. Ci si incantava a guardarlo.
Meraviglia, felicità, grida, risate. “Grazie Bambin Gesù…grazie!!!” gridava guardando verso il soffitto come fosse il cielo…poi seduto sul tappeto a scoprire e godersi i suoi giochi.
All’arrivo della torta con le candeline, non riuscivamo a convincerlo a soffiare per spegnerle.
“Lo devi fare! Soffia!!”
“Perché?”
“Perché cresci più in fretta! Soffia!”

Era un bimbo molto curioso e pensoso. Chiedeva sempre: e cosa vuol dire questo e perché no…Una volta sui 5 anni, stava appoggiato al davanzale del balcone su di una sedia con un filo in mano che agitava. “Che fai Jacopino?”
“Do da mangiare al vento…”
Ero un po’ preoccupata.

Mi diverto molto con le mie nipotine. Quando Mattea (la figlia di Jacopo) era piccola, sui sei anni e veniva a trovarci a Sala di Cesenatico a passare l’estate con noi, le preparavo una festa alla grande. Compravo al mercato di tutto…non che spendessi tanto. Nascondevo i regalini spargendoli nel giardino tra alberi e cespugli e via con il gioco del “freddo e caldo”: si girava di qua e di là…davo segnali dei nascondigli dicendo “fredddo… freddo… tiepidino caldino… caldo, caldissimo… oddio brucia!” Mattea infilava la manina nel cespuglio, trovava il pacchetto, si sedeva su prato e lo scartava mandando grida di gioia.
Una mia cara amica, Annamaria Annicelli aveva un grande negozio dove vendeva di tutto e mi regalò per Mattea un mare di Barbie con fidanzato Ken. Cartoncini con guardaroba completo: abiti per tutte le occasioni.
Come ogni estate per anni, arrivò la mia dolce bimba più bella che mai. Le sbatto un uovo con zucchero e cacao – la rusumàta si chiama a Milano – che le piace tanto. Se la mangia leccandosi i baffi.
“Vieni, andiamo a fare il gioco del caldo-freddo.”
Lancia un urlo di felicità.

Le avevo preparata una festa alla grande. E via che si parte: freddo… freddo… tiepidino… caldo… caldissimo! E dal cespuglio estrae una Barbie…poi un’altra…poi il fidanzato Ken, cartelle con abiti…ad un certo punto si lascia andare sull’erba sfinita: “E’ troppo nonna… è troppo!” Quando Jacopo, dopo tre mesi, veniva a prenderla era un momento triste per tutte e due. Ce ne stavamo abbracciate e silenziose in attesa della partenza. Saliva in macchina. La salutavo con la mano e mi scendevano le lacrime…pure lei piangeva. Cercavamo tutte e due di sorridere… ma si faceva fatica.
Una gran fatica.

Una volta, quando eravamo più giovani Dario ed io ci si faceva festa ai compleanni. Festa? Una festicciola…nulla di speciale. La torta, le candeline…dell’anno prima, qualche amica, amici…Ricordo invece un fantastico compleanno, il mio settantesimo a Sala di Cesenatico. Non mi aspettavo nulla di speciale. Invece…
Quella mattina mi svegliai un po’ tardi, Jacopo venne a prendermi in camera dicendomi che Dario aveva bisogno di me…Neanche la mattina del mio compleanno posso restare disoccupata…scendo le scale, esco in veranda, e lì mi trovo una folla con i musicisti che suonavano, clown e maschere e tanta gente, amici venuti da ogni parte, ci saranno state cento persone, tutti a cantare tanti auguri a te…Mi sono messa ad abbracciare tutti uno per uno…Erano veramente tanti, che a un certo punto mi sono dovuta sedere…Anche per l’emozione. Poi siamo andati a mangiare fuori, sul porto canale di Cesenatico, e anche lì c’erano parecchi amici che erano venuti a festeggiarmi. Ogni tanto mi stupisco di quanta gente mi voglia bene. È proprio una grande fortuna…

UNA STELLA SUL LETTO?!
Una volta mi piaceva guardare il cielo di notte. Specie in inverno. Sottozero il blu è più intenso. Le stelle spiccano come brillanti.
Preziose.
Ieri notte niente. Ce ne erano poche ma una ha attirato la mia attenzione era una stella senza luce, piatta come fosse di plastica opaca.
“Vieni qui” le ho detto… hai dei problemi? Ti vedo giù….” In un attimo eccola sul mio letto, senza nemmeno rompere i vetri della finestra.
La guardo incredula… non so come comportarmi…

UNA STELLA SUL LETTO?!
L’astro si rizza su una punta… prendendo colore lentamente.
Una luce iridescente illumina la mia stanza…ma non smargiassa di chi vuol strafare…appena appena per farsi notare.
“E’ così facile avere una stella vera in casa? Basta chiamarla?” penso. “E’ facile per forza… – mi risponde – sono te.”
“Sono una stella?” – dico senza meraviglia, anzi un po’seccata – mi stai prendendo per il sedere?” Avrei detto volentieri culo, ma non volevo darle confidenza.
“Dì pure culo cara, non mi scandalizzo…” e fa una risata a piena gola.
Una stella che dice culo e mi sghignazza dietro!
Ero scandalizzata! Non c’è più religione!
“Bigottona! Son qui per aiutarti… sono te, quindi la tua più grande amica. Sei giù di morale…hai pensieri fissi che ti fan dormire male. Perché vuoi ammazzarti?
Mi manca il respiro. Un qualcosa mi sale lento dallo stomaco alla gola: un magone che mi soffoca.
“Lasciati andare… non trattenere le lacrime…ci sono io vicino a te…sono scesa apposta da lassù…tutta per te!”
Le lacrime non si fanno pregare, si rincorrono sulle mie guance una dopo l’altra. I singhiozzi escono strazianti anche se in realtà non si sentono.
Allunga una punta, quella di sinistra e mi fa una carezza.
Ma dai…sto sognando…la stella sul letto in punta di stella che mi accarezza con la sinistra…una stella mancina…Mio dio…ha pure 5 punte!
Una stella delle Brigate Rosse!

“Non stai sognando…conosco la ragione della tua voglia di morire ma solo se ne parli, se svisceriamo il problema insieme, lo risolviamo. Parola di Stella!”
Respiro profondamente. Sto per dire qualcosa che mi costa.
“Sono tanto triste perché sono disoccupata. Ho perso il mio lavoro.”
“Come hai perso il tuo lavoro? Sei dalla mattina alla sera al computer…scrivi, scrivi, scrivi senza alzare nemmeno gli occhi.”
“Sì lo so, ma questo non è il mio lavoro. Sono nata il teatro, a 8 giorni ero già in scena…ho sempre recitato. Da 8 giorni a 81 anni… avevamo in scena “L’anomalo bicefalo” una satira su Berlusconi. Ci divertivamo un sacco! Ma eravamo nell’’83… quanti anni son passati?”
“Ti stai dimenticando di Mistero buffo,….L’avete fatto tanto…”
“Sì hai ragione…ma ora non si fa più nemmeno quello.
Poi uno spettacolo ogni morte di vescovo, che ne muoiono pochissimi.

Sono felice di aiutare Dario che è il MIO TUTTO, curare i suoi testi, prepararli per la stampa, ma mi manca qualcosa… quel qualcosa che non mi fa amare più la vita.
È per questo che voglio morire.
Ma non so come fare.
Immersa nella vasca da bagno e tagliarmi le vene?
Poi penso allo spavento di chi mi trova in tutto quel rosso.
Buttarmi dalla finestra, ma sotto ci sono gli alberi e finisce che mi rompo tutta senza morire: ingessata dalla testa ai piedi.
Avvelenarmi con sonniferi…ci ho già provato una volta…tre, quattro pastiglie e acqua… avanti così per un po’ e mi sono addormentata con la testa sul tavolo…
Insomma, morire è difficilissimo!
A parte che mi ferma anche il dolore che darei a Dario a Jacopo alla mia famiglia, Nora, Mattea, Jaele (la più bella della famiglia) e tutto il parentado…alle amiche, amici.
Penso anche al mio funerale e qui, sorrido. Donne, tante donne, tutte quelle che ho aiutato, che mi sono state vicino, amiche e anche nemiche…vestite di rosso che cantano “bella ciao”.

Che tristezza essere disoccupata. “Hai messo in scena molti spettacoli che hanno avuto gran successo ed eri sola – prosegue la Stella…Tutta casa letto e chiesa, Parliamo di Donne, Sesso? Grazie tanto per gradire, Legami pure che tanto spacco tutto lo stesso, Il funerale del padrone, Il pupazzo giapponese, Michele ‘Lu Lanzone e altri ancora che non mi ricordo… dovrei andare su internet ma non ne ho voglia.
Perché non ne rimetti uno in scena?”
Ma…sono abituata con Dario…
L’ho conosciuto in palcoscenico nel ’51… abbiam fatto tourné, avuto successo… anche troppo. Dopo anni di fermo abbiam debuttato per due soli spettacoli in settembre del 2012 con “Picasso desnudo”.
E adesssssso? Ci metto sei S per sottolinearti bene il concetto. Adesso nulla! Nessun programma futuro. Deglutisco per mandar giù il magone
Dovresti aiutarmi tu Stella, dammi la forza… la voglia.
“Che piagnona! – mi urla, mi hai proprio rotto i…No, non lo posso dire perché lassù si incaz…Mamma mia solo parolacce mi vengono…è perché sono scesa in terra…qui ci si sporca!
Potresti mettere in scena un testo da recitarti tutto da sola…hai un mare di materiale a disposizione. Li conosco tutti i tuoi monologhi mai rappresentati.”
“Ma smettila, conosci i miei monologhi….”
“Certo, sono te!”
“Ah sì…Hai ragione…Sì, potrei farlo…ma poi penso a Dario la sera sperduto davanti alla tv…che se ne va a letto senza chiudere né tapparelle, né porta. Lo sento che si gira e rigira tra le lenzuola pensandomi…preoccupandosi e…quindi sto qui, accanto a lui. Lo amo tantissimoma sono proprio triste… infelice…ciao me ne vado…”
“Ma dove vai? Ti vuoi nascondere a piangere? Piangi qui piccola…tra le mie braccia…”All’improvviso si ingrandisce a vista d’occhio si trasforma in una coperta di lana morbida lucente e mi avvolge tutta. Un brivido di piacere attraversa il mio corpo…mi sento via via rilassata e sulla bocca mi spunta un sorrisoil più dolce della mia vita
Caro Dario tutto quanto ho scritto è per dirti che se non torno in teatro muoio di malinconia. Un bacio grande…


La donna non è cosa.

Si commentavano ieri, con gente varia, recenti fatti di cronaca: fra i quali, inevitabilmente, l’assassinio della sedicenne Fabiana a Corigliano Calabro, per mano di un “fidanzatino” al quale la definizione dolciastra si addice davvero poco.
A un tratto uno se ne esce con la seguente constatazione: "Il fatto è che oggi le donne non stanno più al loro posto"
Silenzio. Perplessità. Esplosione delle donne presenti. Sdegnato arroccarsi degli uomini. E si noti che il tizio in questione è uno molto presente, dà una grossa mano in casa, appare sempre disponibile e nella sua cerchia figura come un marito esemplare. Eppure, di fronte all’evidente e traumatico lacerarsi di un equilibrio socio-culturale fragilizzatosi oppure precario da sempre, non ha trovato di meglio che recuperare un vieto luogo comune: se una donna non “sta al suo posto”, subisce le conseguenze. Dunque Fabiana, come tutte le altre donne morte ammazzate in quanto donne, non occupava diligentemente il posto che le era stato assegnato da qualcun altro, come un barattolo su una mensola. Non lo voleva quel posto; e deve averlo detto chiaro e tondo a quel ragazzino già denunciato per atti violenti e che si stava trasformando in assassino sotto i suoi occhi. La colpa del resto è sua — di Fabiana che addirittura avrebbe alzato le mani su di lui: intollerabile oltraggio, ardimento da punire con la morte. Del resto, quando un arnese non funziona a dovere (ovvero non fa ciò che ci si aspetta che faccia, non risponde alle aspettative) non lo si scaglia forse a terra o contro un muro? E se si rompe pazienza: non funzionava già prima, verrà sostituito.
A me, quando ho sentito quella frase  — “il fatto è che oggi le donne non stanno più al loro posto” —, si è gelato il sangue: perché ho avuto la sensazione, fredda e nettissima, che nonostante tutto nell’immaginario maschile alberghi ancora anzi sia ben radicato a profondità insondabili lo stereotipo della donna-oggetto: non certo in senso puramente sessuale, ma a un livello ancora più profondo, ontologico direi — la donna è una sorta di accessorio dell’uomo, un’entità serenamente reificabile che è graziosa concessione maschile elevare allo status di persona.
E suppongo che sia sempre questo stereotipo a rendere così difficile, da parte maschile, l’accettazione del femminicidio (parola e concetto): come dimostrano le molte riflessioni, rigorosamente maschili, professionali o en amateur che ingombrano periodicamente i media italiani. Le obiezioni principali sono ri(con)ducibili a due: 1) il femminicidio non è un’emergenza, perché le cifre sono state gonfiate e comunque non dobbiamo ignorare i maschi ammazzati; 
2) non ha senso parlare di femminicidio come di “omicidio di una donna in quanto donna”, perché questo a) rappresenta una discriminazione; b) non tiene conto del fatto che la legge mette già a disposizione una  nutrita serie di strumenti atti a reprimere eccetera; c) è sempre possibile inscrivere l’omicidio di una donna in un contesto più ampio che tenga conto di altre dinamiche.
Ora, brevemente:
1) nessuno che parli di femminicidio intende sostenere che improvvisamente ci si sia messi, in Italia, a uccidere (più) donne, o che la cosa sia diventata lo sport nazionale — a fronte di un “prima” idilliaco nel quale certe cose non succedevano, no-no-no! La cosa esisteva già, soltanto non aveva un nome: l’introduzione del termine femminicidio rappresenta una tappa nel riconoscimento giuridico di una tipologia di reato prima inesistente — un po’ come è successo quando finalmente (con la legge 15 febbraio del 1996 n. 66) ci si è decisi a spostare il reato di violenza sessuale dalla sfera dei “reati contro la morale ed il buon costume” a quella dei “reati contro la persona e contro la libertà individuale”: il che ha comportato un inasprimento delle pene e una diversa considerazione delle vittime. Giova ricordare, fra l’altro, che femminicidio è la traduzione del termine femicide, “uccisione di una donna”, usato per la prima volta in Inghilterra nel 1801 dallo scrittore e giornalista irlandese John Corry nel suo libro A Satirical View of London at the Commencement of the Nineteenth Century, e ripreso con identico significato quasi mezzo secolo dopo, nel 1848, nel Law Lexicon del giurista inglese John J. S. Wharton.
Del pari, nessuno sta dicendo che l’omicidio di un maschio debba venire derubricato o liberalizzato: semplicemente, parlando di femminicidio si intende richiamare l’attenzione su di un problema che sta assumendo proporzioni importanti: dall’inizio dell’anno i femminicidi sono stati 33, vale a dire 1 ogni 4,5 giorni — più di uno alla settimana.

2) Invece, parlare di femminicidio come di “omicidio di una donna in quanto donna” ha proprio senso — tantissimo senso:
a) perché la discriminazione l’ha già messa in atto l’assassino: che uccide perché non riconosce alla donna lo status di individuo libero e autonomo, ma considerandola come “qualcosa” che gli appartiene le ha già sottratto ogni riconoscimento etico e giuridico; e pertanto la qualifica di femminicidio contribuisce a restituire alla vittima almeno la dignità di persona e non di cosa;
b) perché la legge, proprio come accadeva prima del 1996 per il reato di violenza sessuale, mette tutti gli omicidi sullo stesso piano: senza tener conto della gravità specifica consistente appunto nell’intento dell’omicida di colpire la donna in quanto donna, ossia in quanto individuo ritenuto non libero delle proprie azioni e scelte;
c) perché in ogni caso di femminicidio la sostanza si riduce a questo: «lei se n’era andata / voleva andarsene / aveva un altro / non voleva più stare con me etc.»: vale a dire che agli occhi dell’omicida la vittima si è macchiata di una colpa inespiabile — la libertà di volere qualcosa di diverso dal suo assassino.

Insomma il femminicidio fa paura: perché da un lato mette in discussione troppe certezze, e dall’altro fa affiorare troppe incertezze — sociali,  culturali, etiche, economiche, storiche… Ma non è ignorandolo nè tanto meno sminuendolo che si può rimuovere un ostacolo o risolvere un problema: la lunga pazienza delle donne può aver ragione anche di questo.

Alessandra

22 maggio 2013

Il duo Sciagura.

Era il véntinove aprile ed Enrico, il baciapile, alla Camera espone
un programma che lo eleva a statista d’eccellenza:
“Sobrietà, rigor, decenza e un gran senso dell’onore!”
Di Re Giorgio il gladiatore preparava la chiamata dell’ignobile brigata
dei Cicchitto, i Capezzoni, dei La Russa, i Formigoni, degli Alfano e i Nitto Palma
i qual dell’onor fan salma.
Nel discorso al Parlamento Letta Enrico fu un portento:
relazione democrista, senza spigoli, buonista, inclusiva, senza picchi,
tal da non turbare i ricchi e ai tapin dare coraggio.
Del programma qualche assaggio:
Stop all’Imu, prima rata. L’Iva a luglio congelata. Soldi per la mini impresa.
Dei precari la difesa. Soluzion per gli esodati. Quattrin ai disoccupati.
Cassa integrazione in più. Bonus per la gioventù.
Fiscal sgravi alle assunzioni e alle ristrutturazioni.
La ricerca incentivata. La Fornero riformata.
Un aiuto alle famiglie. E ancor altre meraviglie:
Convenzion per le riforme. Costituzionali norme per la legge elettorale.
Ed infine, è naturale, la Giustizia ai cittadini.
Sulla fonte dei quattrini nulla disse Enrico Letta,
non citava la ricetta, le libéralizzazioni né la privatizzazioni
né la caccia agli evasori né gli sprechi da far fuori.
Atteggiandosi a Gesù per noi sceso da lassù,
pesci e pan moltiplicava e in vin l’acqua trasformava,
per la gioia sia di Alfano che del Nobel veneziano, il tascabile Brunetta.
Spread a picco, Borsa in vetta!
Dopo ben cinquanta dì il governo partorì, fra un annuncio ed un rinculo,
una presa per il culo:
bloccan l’Imu fino a agosto.
Dei precari è certo il posto solo fino a Capodanno.
Ed infine stanzieranno per la cassa integrazione un miliardo. Che bidone!
Al veder le prime imprese del governo a larghe intese
un bel nulla si prospetta.
Anzi, in più, Re Giorgio e Letta stan portando ogni italiano
nelle fauci del caimano.


18 maggio 2013

Fingeranno di allentare la morsa, temono rivolte.

Questo governo apparentemente dovrà far vedere che propone la realizzazione anche di politiche sociali perché la gente non ce la fa più, ormai non c’è speranza di futuro per i giovani; non si parla di precarietà del lavoro, è precarietà della vita. Per non parlare di come vivono gli immigrati nel nostro paese, in condizioni disagiate, di miseria e repressione. Ormai disoccupazione e precarietà sono questioni che toccano drammaticamente persone adulte e non solo i giovani. Si parla di suicidi e di atti di follia, ma la gente non diventa improvvisamente pazza; ci si ritrova a 50 anni con due o tre figli senza sapere cosa dargli da mangiare, come pagare l’affitto o il mutuo della casa, una vita da buttare senza un futuro, perché riproporsi sul mondo del lavoro dopo un licenziamento a quell’età è di una difficoltà incredibile.
I politici hanno paura che la profondissima crisi economica e sociale possa portare ad un antagonismo duro, ad un conflitto forte che coinvolga sempre più ampi settori della società: per questo fanno proposte anche a carattere apparentemente di protezione sociale per tentare di placare la rabbia popolare, si teme la rivolta collettiva e non più il gesto individuale di un disperato. Si parla allora di reddito garantito, di nuovi ammortizzatori sociali, ma non saranno politiche sociali rivolte al welfare universalistico quanto piuttosto a un "welfare dei miserabili”; è finita la fase del capitalismo moderato e keynesiano, non ci sono più i margini di profittabilità che permettano al capitale una politica seppur minimamente redistributiva.  Una parte misera, più che povera, della società beneficerà di provvedimenti di qualche centinaio di euro. Ma i soldi pubblici delle nostre tasse continueranno ad andare alle banche e alle imprese, non alle politiche per uno Stato sociale allargato.
I tagli saranno per l’ennesima volta proprio sul welfare universalistico, quindi su istruzione, scuola, università, sanità, pensioni, edilizia pubblica, ammortizzatori sociali del lavoro ad ampia protezione. I tagli che vengono e verranno sempre più effettuati riguarderanno la spesa sociale, ma non la spesa pubblica complessiva. La spesa sociale è una parte minima della spessa pubblica; quest’ultima comprende anche le spese militari e tutta una parte di flussi di denaro proveniente dalle nostre tasse e che va a finire al sistema bancario ed al sistema d’impresa in forma di defiscalizzazioni, di incentivi, di voluta e favorita evasione ed elusione fiscale. Il governo dei tecnici di Monti aveva come obiettivo quello della riduzione del deficit e del rapporto debito pubblico/Pil, ciò ovviamente per mantenere un livello alto di competitività internazionale della Germania; e per favorire tale ruolo e funzione del capitalismo a guida tedesca, occorre che alcuni paesi si sacrifichino.
Questi sono i cosiddetti Piigs, acronimo che sta per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, ma che vuol dire anche maiali: è questo il nuovo termine offensivo utilizzato per indicare le vittime di un processo di ristrutturazione capitalistico, così come “terroni” o “mangia terra” erano i lavoratori migranti del Sud che dovevano garantire  lo sviluppo del “miracolo economico italiano”. Monti ha tagliato lo Stato sociale e il rapporto debito/Pil è aumentato. Dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse? Vanno con flussi enormi a chi ha determinato questa crisi, cioè al sistema bancario e finanziario. È come se avessimo davanti a noi un boia che ci mette il cappio al collo e, invece di combatterlo duramente per imporgli di smetterla, lo alimentassimo affinché continui a farlo fino a farci morire impiccati.
Le banche ci hanno distrutto la capacità di acquisto reale e di vita e lo Stato continua a dare i soldi alla speculazione finanziaria e alle banche, e non a redistribuire al lavoro, al lavoro negato per rendere il maltolto a chi la ricchezza sociale davvero l’ha creata con il proprio sangue e sudore. Ancora nei prossimi mesi, con la scusa della competitività internazionale continuerà ad andare denaro ai grandi potentati economici, in particolare a quelli del sistema bancario e finanziario. Inoltre si delinea una lotta per diminuire il potere salariale d’acquisto dei lavoratori e quindi anche il potere che i lavoratori possono avere nella società: questo perché pensano che un lavoratore costretto alla miseria, alla precarietà, a non avere casa, possa essere meno conflittuale avendo come priorità la sopravvivenza. Però qual è il limite di questa politica? Che la gente potrebbe non farcela più. E quindi le reazioni sociali collettive potrebbe andare fuori controllo.

(Luciano Vasapollo, estratto dell’intervista “Governo Letta, il ritorno della Balena Bianca”, realizzata da Gianmarco Dellacasa e Simone Mucci e pubblicata l’11 maggio 2013 da “OltreMediaNews”).
Letto su Libre .

16 maggio 2013

Terroristi sono loro!!

A voler essere sintetici, bisogna riconoscere che questo sistema sociale presenta molti aspetti che non è esagerato definire di feroce barbarie. Come altro definire altrimenti quel meccanismo perverso che ha condotto Giovanni Guarascio, 64 anni, muratore disoccupato, il quale s’è cosparso di benzina dandosi poi fuoco? Aveva un debito di 10 mila euro con una banca che gli ha pignorato l’abitazione che egli stesso aveva costruito con il proprio lavoro. La banca non ha trovato di meglio, per rientrare in possesso della propria libbra di carne, che fare a pezzi l’uomo e la sua famiglia. Infatti, ha messo all’asta l’immobile vendendolo a tal signor Sciagura (ironia del nome) per 26mila euro.

Ciò segue il recente suicidio di un altro proletario, Giuseppe Burgarella, impiccatosi ad una trave del suo appartamento perché non riusciva a trovare lavoro. A chi mettiamo in conto questa violenza quotidiana, questo stillicidio di morti? Eppure, a leggere i giornali, a sentire i telegiornali, a fare notizia è qualche petardo in Val di Susa contro un’opera assurda sotto tutti i punti di vista e dal costo esorbitante.

E intanto le procure indagano, indagano, indagano, sperperando forze e risorse. E poi, vai con il reato di vilipendio al presidente della repubblica per quattro frasi in internet. Un paese del cazzo che ha tanto tempo e tanta voglia di seguire le vicende che vedono coinvolto un vecchio porco con una puttanella che s’è scopata mezza Lombardia. Un paese disposto ad accettare qualunque cosa, che ha rinunciato a ribellarsi contro nemici riconoscibilissimi e politicamente indifendibili. Un paese che si rifugia in un consolatorio voto elettorale di protesta che non serve a niente. Questa dittatura la meritiamo tutta.
 Olympe de Gouges

La casa di abitazione dovrebbe essere impignorabile ed esente da tasse. La casa è un diritto come e più del lavoro. Il tragico rogo di Ragusa dovrebbe essere da monito: un prestito bancario di 10 mila euro che diventa un debito di 26 mila euro!! Una cifra spaventosa per una persona in difficoltà. Non si può espropriare e vendere la casa per questo. Sappiamo poi tutti del traffico che c'è attorno alle vendite giudiziarie e come queste vengano accaparrate da speculatori e mafie.

13 maggio 2013

Il politico, il potere e la corruzione.

La politica è il luogo dell’esercizio del male, della gestione del male, sparso nelle anime individuali e nelle forme collettive in tutti gli aspetti: quello del privilegio, quello del vizio e quello della corruzione. È la fatalità del potere assumere su di sé questa parte maledetta, mentre la fatalità degli uomini al potere è quella di essere sacrificati a essa – privilegio di cui scontano tutti i benefici secondari.
Gli uomini al potere hanno un doppio problema: nell’ordine politico quello di esercitarlo, nell’ordine simbolico quello di sbarazzarsene. È esattamente come per il denaro; il problema economico è di guadagnarlo e di farlo fruttare, il problema simbolico è di liberarsene ad ogni costo, di allontanare da sé questa maledizione. Ed è un compito quasi impossibile. Basta vedere quegli speculatori venuti dal nulla e divenuti improvvisamente miliardari che tentano disperatamente di fare donazioni a destra e a manca, di investire in tutte le fondazioni di beneficenza e di promozione artistica. Ahimè! Per un terribile malefizio, realizzano profitti ancora maggiori, il denaro si vendica moltiplicandosi. Lo stesso vale per il potere: malgrado tutti i riti di interazione, di partecipazione, di devoluzione, il potere non è solubile nello scambio, e i dominati sono troppo accorti per assumere veramente la loro parte: preferiscono vivere all’ombra del potere.
Si sogna di vedere la classe politica dimettersi tutta d’un colpo, perché si sogna di vedere come se la caverebbe un corpo sociale senza sovrastruttura politica formidabile sollievo, formidabile catarsi collettiva. In ogni processo, in ogni messa in stato di pubblica accusa di un politico o di uno statista, riaffiora l’esigenza millenaria, mai appagata, ovviamente, di un potere che si scagli contro se stesso, che si smascheri da solo, lasciando spazio a una situazione radicale, insperata, disperata, certo, ma da cui sia spazzato via il campo inestricabile della corruzione mentale.
La corruzione: non è mai accidentale. È inerente all’esercizio del potere. Da qualunque parte provengano, coloro che raggiungono il centro nevralgico degli affari sono immediatamente e dappertutto trasfigurati dalla corruzione, ed è in ciò che suggellano la loro autentica complicità. Perché la corruzione delle èlite è esattamente quella di tutti: la corruzione è uno psicodramma collettivo e, poiché si hanno sempre i dirigenti che si meritano, se li disprezziamo lo facciamo come riflesso del disprezzo che ciascuno porta a se stesso in quanto animale politico. 
La corruzione delle idee non fa eccezione. È questa astuzia a far si che, non appena sono investiti del potere, i politici si rivoltino automaticamente contro ciò o coloro che li hanno portati a esso, proprio come gli intellettuali si rivoltano molto presto contro le idee che li hanno ispirati. Inutile quindi lamentarsi di questo stato di corruzione, questa è la moneta vivente del potere.
Non esiste nessun altra soluzione se non l’abolizione di ogni forma di potere, lasciando il posto ad una società autogestita dove la gratuità e il dono saranno i soli rapporti sociali possibili.



Fonte

La Germania ora raccoglie i frutti dell’Economicidio: una nuova classe di untermenschen, ma istruiti. Goebbels non ci sarebbe arrivato.

I dati sono sconvolgenti: la Germania era fino a poco fa una nazione che esportava lavoratori, ora li importa a man bassa. Nel 2103 l’immigrazione in Germania ha toccato un record assoluto da 17 anni a questa parte. L’Ufficio Statistico di Germania l’ha detto chiaro: sono lavoratori alla disperazione che vengono da Grecia, Italia, Spagna e Portogallo. Quelli cioè che l’economicidio dell’Eurozona, voluto da Berlino e Parigi, ha portato al disastro. Marx lo sapeva, al capitale serve “L’esercito di riserva dei disoccupati”. Eccolo.
Un gruppo di economisti tedeschi ha felicemente commentato che si tratta “di lavori che andranno a riempire i vuoti qui da noi, poiché i tedeschi quei lavori non li fanno”. 
Back to the ‘70s. Ritorno agli anni ’70, solo che non sono più i turchi ora, ma noi ex ricchi. Infatti i nuovi immigrati sono soprattutto italiani, greci, portoghesi e spagnoli laureati, o almeno diplomati e con già un mestiere sulle spalle.
Eccoci. Berlino ha la crema a gratis. E noi, immani poveri deficienti, diciamo “Nessuno metta in dubbio l’ideale europeo!”.
Devono pisciarci in testa, è giusto, ma di più.

Contro l'austerity: sovvertire il presente.

di Guido Viale

"Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell'alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario". 
Ma è sufficiente una democrazia ridotta alla sola dimensione orizzontale?
 
Assistiamo da decenni, impotenti, a una continua espropriazione del Parlamento, peraltro consenziente, e per suo tramite del "popolo sovrano"
Le principali tappe di questo processo sono state: 
1) La separazione della Banca centrale dal controllo del governo (anni '80) per contrastare le rivendicazioni salariali, che ha dato a un organo non elettivo il potere (poi trasferito alla Bce) di decidere le politiche economiche e sociali; ma soprattutto ha fatto schizzare il debito pubblico mettendolo in mano della finanza. 
2) Le molte riforme del sistema elettorale, dall'abrogazione del sistema proporzionale («una testa un voto», principio basilare della democrazia rappresentativa) al cosiddetto porcellum, che trasferisce dagli elettori alle segreterie dei partiti la scelta dei propri rappresentanti.
3) La cancellazione della volontà di 27 milioni di elettori al referendum contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici con ben quattro leggi controfirmate da Napolitano (l'ultima anche dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le prime tre), come anni prima, con il referendum per l'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti.
4) L'imposizione di un "governo tecnico" con un programma (l'Agenda Monti) imposto dalla Bce, e attraverso questa, dall'alta finanza sotto l'incalzare dello spread: una sudditanza che non avrà più fine, perché da allora la finanza che controlla il debito pubblico potrà imporre a qualsiasi governo le misure che vuole.
5) Il governo Letta, conclusione logica di questo processo, che azzera la volontà di tre quarti degli elettori italiani (un quarto astenuti; un quarto cinque stelle; un quarto "centro-sinistra") tutti determinati, con il voto o il non voto, a cancellare le politiche di Monti e Berlusconi.
6) Il progetto, non nuovo, di cambiare in senso presidenziale la Costituzione.
Questa progressiva espropriazione del Parlamento e degli elettori serve a creare un interlocutore unico che risponda direttamente ai cosiddetti "mercati" (cioè alla finanza, che è la forma attuale del dominio del capitale a livello globale), annullando sia i poteri dei governi nazionali e soprattutto dei comuni, dai quali dipende la gestione della vita quotidiana e della convivenza civile di ogni comunità, sia la prospettiva di cambiare la propria condizione con il conflitto.

Questa deriva, che riguarda tutta l'Europa, non porta a una ripresa (ormai prevista da ben cinque anni, per essere ogni volta rimandata all'anno prossimo); bensì al disastro della Grecia, che ormai incombe anche su Spagna, Portogallo, Cipro e Slovenia; ma già investe in pieno anche Italia, Francia e l'Olanda; e presto persino la Germania: il cui governo fa da scudo agli interessi dell'alta finanza solo per non scoprire la situazione disastrosa delle sue banche, che ne sono parte integrante.

Ma la resa dei conti si avvicina: un disastro planetario: nemmeno le economie di Cina, India e Giappone vanno più molto bene, mentre la catastrofe ambientale incombe su tutti. In Italia l'occupazione crolla; la disoccupazione dei giovani è al 40 per cento (e gli altri sono precari o hanno rinunciato a cercare un lavoro; ma questi giovani presto saranno adulti, e poi anziani, senza alcuna speranza di un lavoro, di un reddito stabile, di una casa, di una famiglia, della possibilità di mantenere dei figli, di una pensione); scuola, università e ricerca affondano; migliaia di aziende chiudono e non riapriranno più; e non ne nascono di nuove; e con esse spariscono mercati di sbocco, know-how, competenze, abitudine alla collaborazione, coesione sociale, solidarietà. Perciò anche il Governo Letta nasce già vacillante e quel processo di accentramento rischia produrre regimi ancora più duri, magari sotto la di facciata di un antieuropeismo demagogico e populista, solo per nascondere una subordinazione anche più stretta alla finanza.

Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell'alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario. Ripudiare quei vincoli richiede un programma di respiro generale che unisce a livello europeo; che può e deve contare su tutte le rivolte e le mobilitazioni contro i vincoli del debito che da tempo si moltiplicano in un numero crescente di paesi, o che prima o poi esploderanno.

Ma per opporsi all'azzeramento della sovranità popolare non basta restituire al Parlamento quei poteri che i partiti non vogliono né usare né difendere. All'accentramento dei poteri va contrapposto, in tutti i paesi d'Europa, il progetto di un loro radicale decentramento: un governo dei territori, dei servizi pubblici e delle imprese basato sulla democrazia partecipata promossa dalla componente attiva della cittadinanza in un regime di trasparenza e leggibilità dei bilanci assolute. Per recuperare e potenziare quelle funzioni delle Municipalità che i patti di stabilità stanno soffocando. Ma se è chiaro quali sono le forze che lavorano per l'esautoramento della sovranità popolare, dove sono mai «i soggetti» in grado di elaborare, perseguire e portare a compimento un programma alternativo?

Quei soggetti non ci sono. Vanno costruiti. Ma senza distogliersi dai loro obiettivi specifici, le potenzialità dei movimenti, dei comitati, delle associazioni, delle iniziative civiche - ma anche e soprattutto quelle dei milioni di cittadini che in Italia espresso con il voto la volontà di liberarsi di Monti e Berlusconi - possono trovare una convergenza nel progetto di imporre alle rispettive amministrazioni comunali - alle poche disponibili, ma soprattutto alle molte che non lo sono - quel ruolo peculiare che le politiche di accentramento stanno azzerando: far saltare il patto di stabilità interno; quello che impedisce ai Comuni di far fronte ai propri compiti istituzionali, ma soprattutto che inibisce loro la possibilità di farsi promotori di una radicale conversione ecologica imperniata su un potere diffuso nei territori. Un passo irrinunciabile per costruire un'alternativa concreta al potere della finanza a livello locale, nazionale ed europeo.

Non è vero che "non ci sono i soldi" per politiche di promozione dell'occupazione, di sostegno dei redditi, di riconversione delle imprese, di salvaguardia del welfare e dell'ambiente. Nel mondo, di denaro o titoli equivalenti ce ne è anche troppo: oltre dieci volte il valore del Pil mondiale; e anche in Italia non manca di certo. Ma è nelle mani sbagliate: di speculatori che lo usano per metter alle corde lavoratori, amministrazioni locali, piccole e medie imprese e governi. Con quella massa immane di denaro l'alta finanza - che è ormai mera speculazione: fare denaro con il denaro a spese di chi non ne ha - impone la sua volontà ovunque. Ma tutto quel denaro è "solo" virtuale: funziona finché gli stati gli riconoscono un valore; in fin dei conti non è che una gigantesca "bolla finanziaria" creata nel corso degli anni e tenuta in piedi - fin che dura - dalle scelte operate da banche centrali, governi e parlamenti asserviti alla sua potenza. Come si è creata può essere sgonfiata e ricondotta alle dimensioni necessarie ad alimentare il credito e i redditi che fanno circolare beni e servizi sui mercati.

Ma per perseguire un sovvertimento del genere occorre un programma che renda praticabile un diverso modo di organizzare il lavoro, le imprese, l'amministrazione pubblica e i consumi: il nostro "stile di vita". Questo programma è il recupero della sovranità all'interno di ogni territorio non solo in termini politici, ma anche in campo economico: sovranità alimentare (filiera corta per le produzioni agroalimentari); energetica (fonti rinnovabili ed efficienza energetica); nella gestione delle risorse (soprattutto di ciò che oggi bistrattiamo come rifiuti); sui suoli (sottratti a speculazione edilizia e infrastrutture devastanti); monetaria (controllo partecipato di banche e monete locali); e, ovunque possibile, anche sulla produzione industriale (filiere corte con accordi diretti tra produttori e consumatori associati). In tutti questi campi il ruolo promozionale di una municipalità democratica e partecipata è fondamentale.

Utopia? I prossimi anni non saranno la prosecuzione di quelli che abbiamo alle spalle. Siamo ormai in mezzo a sconvolgimenti radicali; e altri, anche maggiori, sono in arrivo. O li affrontiamo con uno sguardo capace di vedere oltre le miserie del presente, o ne rimarremo soffocati.

09 maggio 2013

Peppino Impastato siamo noi, nessuno si senta escluso.

L’unica vera memoria rispettosa è il pretendere giustizia, lo svelare i meccanismi del Potere, con nomi, cognomi, trame, denunciando e mai tacendo. Peppino non è un santo per laici altari, è un fuoco che deve arderci dentro.
"Credo che questo sia un momento in cui si debba ascoltare e cercare di capire le realtà, poi arriverà il tempo della parola". Queste parole sono state pronunciate il 4 Maggio dal neoministro Bray a L’Aquila, in occasione della marcia degli "storici dell’arte". Bray si riferiva a se stesso, al suo essere da troppo poco tempo ministro. Ma nell’ascoltarlo è impossibile non ricordare che quelle parole, in questi lunghissimi, vergognosi per tanti versi, anni sono stati imposti come clave ai cittadini e alle cittadine aquilane. Il 6 Aprile e i giorni successivi non erano "il tempo della parola", era il momento del dolore. Non era "il tempo della parola" nelle settimane successive, bisognava rimboccarsi le maniche per l’emergenza. Non era "il tempo della parola" nei mesi successivi, c’era il G8(volevamo fare brutta figura davanti alla roboante "comunità internazionale"?). Non era "il tempo della parola" ancora dopo, si disturbavano B&B che lavoravano per noi... Nel frattempo non era "il tempo della parola" neanche per le mafie, le cricche, gli affaristi di ogni risma. Loro lavoravano nel silenzio, allestivano i loro lauti banchetti. Ma gli aquilani e le aquilane dovevano rimanere in silenzio. Ma ciò non accadde per tutti. Perché qualcuno non rispettò mai la consegna del silenzio, non aspettò mai un "tempo della parola" che se fosse stato per le classi del Potere non sarebbe mai dovuto arrivare. Qualcuno parlò, urlò, alzò la voce e denunciò tutto quello che poteva. Esattamente come, nella Cinisi di qualche decennio fa, Peppino Impastato. Peppino non rispettò mai la consegna del silenzio, non si esercitò mai nella genuflessione supplicante e complice di fronte alle mafie e ai potentati di mafiopoli. Risuonarono fino all’ultimo dai microfoni di Radio Aut i nomi, sbeffeggiati e additati, di Tano Seduto e dei suoi complici a Mafiopoli.
Il 9 Maggio è l’anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, un assassinio commissionato da Tano Seduto e dalle mafie di Cinisi, ben coperto da apparati istituzionali e di Stato che tentarono in tutti i modi di infangarlo e silenziarne la voce. Peppino fu assassinato lo stesso giorno in cui venne ritrovato il cadavere di Aldo Moro. E quindi il 9 Maggio è diventato soprattutto il giorno di quest’ultimo delitto, portando Peppino in una sorta di "secondo piano". Il 9 Maggio di ogni anno cerimonie e parate ricordano Aldo Moro e "le vittime del terrorismo". A Peppino così viene risparmiato, almeno in parte, il peggiore degli oltraggi e delle offese al suo impegno e al suo ricordo: la retorica vuota e buona solo per sfilare di cerimonie pompose e piene di belle parole. Diminuito, ma non eliminato. Perché, come accade con ogni persona assassinata dalla mafia, ogni uomo o donna che la sua vita ha sacrificato agli ideali e alle lotte più nobili e umane, la trappola scatta sempre: la creazione di laici santini da sommergere di discorsi pomposi, almeno una volta l’anno. E poi tornare alla vita di sempre. E’ la negazione e l’oltraggio di chi è morto e dell’antimafia, quella vera, quotidiana, pulsante e viva. Peppino Impastato non è un santino, non è un bel ragazzo da ricordare per agghindare la propria coscienza. L’esempio di Peppino, le sue denunce, sono fuoco vivo che deve ardere in noi. La commemorazione di Peppino, il rispetto del suo sacrificio la fanno a L’Aquila coloro che non sono rimasti in silenzio ma hanno denunciato, svelando nomi, cognomi, trame e intrighi. La commemorazione di Peppino, non un giorno solo, ma tutto l’anno, è compiuta da chi sta combattendo contro il MUOS a Niscemi, battendosi contro la colonizzazione militare della propria terra.
Carlo Vulpio nel suo libro "La città delle nuvole" scrisse che a Taranto "Un giorno, però qualcuno ha cominciato a guardare il cielo con una maggiore curiosità, poi con un più forte sospetto, infine con rabbia. Le nuvole non erano mai state tutte uguali come sembravano adesso, ecco qual era la novità sotto il sole di Taranto. Perché dentro quelle nuvole di cui nessuno si era mai accorto, o che nessuno aveva mai voluto vedere, si annidava un nemico che fa paura solo a nominarlo". Ecco, chi ha guardato il cielo, la propria terra ferita e ha dato parola alla rabbia, all’indignazione, chi ha nomiato il "nemico che fa paura" è Peppino Impastato oggi, ne rispetta il ricordo e ne prosegue il cammino. Esattamente come i giornalisti e le giornaliste che non faranno mai carriera perché con coraggio quotidianamente realizzano denunce e inchieste sui poteri forti e le piovre di ogni parte d’Italia.
L’Associazione Antimafie Rita Atria in questi anni non si è mai accontentata di piangere Rita, Peppino o altri. Senza retorica e ambiguità abbiamo alzato la nostra voce, ci siamo schierati con i "Testimoni di Giustizia", pretendiamo giustizia per Sandro Marcucci e tutte le persone assassinate nella strage di Ustica. Crediamo che la commemor-azione sia l’unica che rispetta e rende degni del ricordo di persone come Peppino Impastato. Intitolare una strada con i soldi di chi inquina e avvelena un territorio (e non sappiamo se definire più sporchi i loro soldi o la monnezza delle loro industrie) non è commemorare, è disprezzare con un’offesa indegna e indecente. Non si può un giorno piangere Agnese Borsellino e il giorno dopo esaltare il ricordo di Giulio Andreotti, non si possono celebrare cerimonie per le vittime di Ustica e di Piazza della Loggia un giorno e gli altri contribuire a non rendergli giustizia e verità, non si possono commemorare Pio La Torre e Peppino Impastato e poi accettare, condividere, tacere davanti alle violenze fasciste e allo sdoganamento di chi le compie, o ingannare, tentare di mettere a tacere, reprimere (in prima persona o da complici) l’opposizione al MUOS(una delle più grandi battaglie di Pio La Torre fu quella contro i missili a Comiso).
Sull’homepage del sito dell’Associazione Antimafie Rita Atria compare la fotografia di Peppino ed una sua frase tra le più celebri. "Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore". Non l’abbiamo messa perché Peppino era un bel ragazzo, o per commuoverci davanti ad una "bella poesia". L’abbiamo messa perché quelle parole sono anche nostre, quelle parole ci infiammano il cuore, ci fanno vibrare le corde più intense della coscienza, ci indicano una direzione ben precisa. Peppino le pronunciò mentre lottava contro la realizzazione della terza pista dell’aeroporto di Palermo insieme ad i contadini a cui erano stati espropriati i campi. Quelle parole sintetizzano la profondità dell’animo di Peppino, l’intensità della sua lotta. La bellezza contro la rassegnazione è una lotta che impegna tutti noi, sono parole che non vanno declamate ad una parata per risciacquare le coscienze. Vale in Sicilia, in Campania, nel Lazio, in Lombardia o nel nostro Abruzzo. Perché la bellezza da difendere è anche quella dei nostri romantici lidi, delle nostre coste baciate dal sole e impreziosite delle gemme più splendenti e colorate della natura. E’ la bellezza da difendere dalla speculazione edilizia, dalla deriva petrolifera, da impatti ambientali devastanti. E’ la rassegnazione da combattere davanti al clientelismo che ha forgiato, e domina, la mentalità di larga parte della Regione. La bellezza contro la rassegnazione impone di guardarsi intorno, di non voltarsi dall’altra parte davanti agli scempi e alle devastazioni del nostro territorio, è l’obbligo civile di fare nomi, cognomi, trame, intrighi, affari, complicità delle clientele, delle cricche e delle mafie. Perché, se vogliamo commemorare Peppino Impastato non dobbiamo farlo solo un giorno, ma tutto l’anno. Con la poesia dei fatti e non la retorica dell’ambiguità e dell’ipocrisia. Peppino Impastato siamo noi, nessuno si senta escluso

Alessio Di FlorioAss. Antimafie Rita AtriaPeaceLink Abruzzo

07 maggio 2013

Vietato vietare.

di Marco Cedolin

Se esiste un tratto saliente che contraddistingue gli ultimi decenni della civiltà occidentale, questo è caratterizzato dalla sempre più marcata bulimia di leggi e leggine che tentando di preservare un’immaginaria libertà collettiva ha di fatto reso obbligatorio tutto ciò che non è stato preventivamente vietato.
Nonostante fin dai tempi dell'antica Grecia si fosse realizzato come il miglior governo sia quello che riesce a mantenere l'ordine e la pace sociale attraverso il minor numero di leggi possibile, tutti coloro che hanno governato e governano le democrazie iper liberiste nelle quali viviamo, hanno deciso di procedere in senso diametralmente opposto rispetto a questa massima, calpestando in primo luogo il buon senso, prima ancora dei diritti dei cittadini.....

Chiunque abbia vissuto, come il sottoscritto, la propria gioventù a cavallo degli anni 70, percepisce con chiarezza il peso sempre crescente di una vera e propria jungla di leggi costruite con lo scopo dichiarato di preservare la libertà, mentre al contrario di fatto ne provocano l’eutanasia.

Possedere un’auto e circolare con essa è ormai diventato un sacrificio che rasenta l’autolesionismo. Fra tasse di circolazione, assicurazioni salasso, revisioni obbligatorie, controlli dei fumi, zone consentite o meno a seconda del mezzo (euro1-2-2-4-5), pedaggi per entrare nelle “città stato”, cinture di sicurezza, autovelox, telecamere, palloncini, parcheggi a ticket, quella che nell’immaginario collettivo era stata veicolata come un simbolo di libertà si è ormai trasformata in un mero esempio di coercizione all’ennesima potenza.

Ma sulla falsariga di quanto accaduto con l’auto ogni aspetto della nostra vita è stato è stato regolamentato da una marea di obblighi e divieti che orientano ogni nostra azione, rendendoci simili a tanti automi, deprivati del libero arbitrio e costretti a procedere su binari predefiniti che altri hanno tracciato per noi.
Vietato fumare, vietato vendere o consumare alcolici in orari o luoghi non consoni, vietato dare da mangiare ai piccioni, vietato sostare nei parchi la sera, portare gli zoccoli ai piedi, passeggiare a torso nudo, baciare la fidanzata, giocare a pallone in spiaggia e perfino fare i castelli di sabbia.
Obbligatorio tenere le luci dell’auto accese anche di giorno, vaccinare i bimbi, nonostante ci sia il rischio di farli ammalare gravemente, avere un conto in banca anche se non lo si vuole, compilare censimenti raccontando i fatti nostri e rendere conto a terzi del nostro tenore di vita, nonostante si tratti di un fatto privato.

Un divieto di qua, un obbligo di là, il nostro percorso è ormai simile ad un vero e proprio campo minato, dove il cittadino viene trattato alla stessa stregua di un “bambino scemo” da monitorare e controllare 24 ore su 24, affinché non compia l’errore di arrogarsi il diritto di prendere in proprio una qualche decisione.
Ma davvero l’uomo deprivato del libero arbitrio e della propria libertà, nel nome di una presunta libertà collettiva può aspirare a diventare un uomo migliore? E soprattutto può considerarsi ancora un uomo?

Andreotti, simbolo dell'ineluttabilità e della malvagità della ragion di Stato.

Stavolta lo seppelliranno per davvero. Chissà se porteranno mai alla luce la "scatola nera" che nascondeva nella gobba, come disse una volta Beppe Grillo, chissà se qualcuna delle verità che ha sempre tenuto perniciosamente nascosta verrà mai a galla, magari dai tanti faldoni che compongono il suo immenso archivio, chissà se nell'al di là in cui credeva ci saranno i demoni ad attenderlo con il forcone. 
Quello che è certo è che, malgrado il diluvio di dichiarazioni formali che ne ricordano la sua figura di statista, nessuno (a parte pochissime eccezioni) sottolineerà quanto la sua ragion di Stato sia costata carissima a questo paese. 
Giulio Andreotti è stato il paradigma vivente dell'anormalità della democrazia italiana, perpetuando all'infinito un potere che si è schiantato solamente grazie alla magistratura ed è poi risorto ai giorni nostri sotto mille nuove forme (non è un caso che l'attuale Presidente del Consiglio sia una specie di ammiratore incondizionato del suo illustre predecessore). 

Ineluttabile e malvagio, come è sempre il potere quando si manifesta, Andreotti nel mondo dei fumetti dei supereroi sarebbe stato un perfetto "antagonista". Ha iniziato la sua carriera come sottosegretario alla Cultura, su raccomandazione del futuro papa Paolo VI,  approvando subito una bella legge sulla censura che riportava il paese qualche anno indietro, ai tempi del fascismo, e poi è stato coinvolto in tutte le storie più sporche che hanno riguardato la nostra disgraziata nazione, come la collusione con la mafia almeno fino alla fine degli anni ottanta (per la quale non è stato mai assolto, ma solo prescritto, grazie alle leggi di Berlusconi), l'accusa che più o meno tutti conoscono. Ma i suoi atti censurabili riguardarono la P2, alla quale fornì sotto banco le carte del tentativo di golpe da parte dell'estrema destra, il pulcinellesco Piano Solo, prima che venissero distrutte; la strage di Piazza Fontana, mentre da ministro della Difesa garantiva le coperture istituzionali a uno degli indagati per l'attentato, Guido Giannettini, stipendiato dai servizi segreti militari; il rapimento di Aldo Moro, con il memoriale di quest'ultimo che gli riservava giudizi pesantissimi e soprattutto la copertura dell'organizzazione Gladio; l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, che fu ucciso poco prima di pubblicare notizie compromettenti (accusa per la quale è stato condannato a 24 anni in Appello per poi vedersi cancellare la condanna in Cassazione, ma che proveniva da uno dei collaboratori di mafia più attendibili, Tommaso Buscetta).
Potremmo star qui fino a domani a elencare gli episodi che hanno visto questo singolare personaggio, che in un paese normale avrebbe finito i suoi giorni in galera, rimestare nel fango. Potremmo elencare tutta la lunga schiera dei suoi fedelissimi, dai mafiosi siciliani Salvo Lima e Vito Ciancimino, agli affaristi romani Franco Evangelisti e Vittorio Sbardella detto "lo squalo", agli amici napoletani come Paolo Cirino Pomicino e quelli che conservava e probabilmente teneva per le palle al di là delle mura vaticane. Si potrebbe anche ironizzare sul fatto che in molti ripetono la barzelletta secondo la quale almeno lui non si sarebbe messo i soldi in tasca, a differenza dei suoi amici del CAF (Forlani e Craxi), perché non funziona molto neanche quella, visto che si è saputo da tempo che il divo Giulio aveva come tanti politici un conto "segreto" presso lo Ior. Si potrebbero ricordare i numerosi giudici diffamati o il povero avvocato Giorgio Ambrosoli, definito di recente "uno che se l'era andata a cercare" e smentire il luogo comune secondo il quale era un uomo di spirito, perché alle sue battute ridevano solo i giornalisti che gli facevano da codazzo (un fiume in piena).
Ma che senso avrebbe? 
E' stato tenuto tutto abilmente nascosto, nel nome dell'ineluttabilità e della malvagità della ragion di Stato. Un ossimoro, perché lo Stato non è mai ragionevole. Qui da noi uccide e poi nasconde le carte. 
 

02 maggio 2013

Morire per 30 euro di stipendio dopo una vita, breve, di miseria e soprusi.

Mercoledì 24 aprile, il giorno dopo che le autorità bengalesi hanno chiesto ai proprietari di evacuare la loro fabbrica di indumenti che dava impiego a quasi tremila lavoratori, l'edificio è crollato. L'edificio, Rana Plaza, situato nel sobborgo Dhaka di Savar, produceva vestiti per la catena di prodotti che si estende dai campi di cotone del Sud Asia attraverso i lavoratori e le macchine del Bangladesh fino ai punti vendita nel mondo occidentale. Molti marchi famosi erano cuciti quì (tra le aziende italiane la Benetton, ndr), così come lo sono i vestiti che sono appesi agli scaffali satanici di Wal-Mart. I soccorritori sono stati in grado di salvare duemila persone da quando questo articolo è stato scritto, confermando che oltre trecento sono morti.

I numeri finali sono destinati a crescere. Vale molto la pena menzionare che il bilancio delle vittime nell'incendio dell'industria Triangle Shirtwaist a New York del 1911 era 146. Il bilancio delle vittime qui è già due volte tanto. Questo "incidente" arriva 5 mesi dopo (24 Novembre 2012) l'incendio della fabbrica di indumenti Tazreen che ha ucciso almeno 112 lavoratori.

La lista degli "incidenti" è lunga e dolorosa. Nell'Aprile 2005, una fabbrica di indumenti a Savar è crollata, uccidendo 75 lavoratori. Nel Febbraio 2006, un'altra fabbrica è crollata a Dhaka, uccidendone 18. Nel Giugno 2010, un edificio è crollato a Dhaka, uccidendone 25. Queste sono le "fabbriche" della globalizzazione del ventunesimo secolo -rifugi costruiti poveramente per un processo di produzione assemblato attraverso lunghe giornate lavorative, macchinari di terza mano, e lavoratori le cui stesse vite sono sottomesse agli imperativi della produzione just-in-time.

Nello scrivere riguardo al regime di fabbrica in Inghilterra durante il diciannovesimo secolo, Karl Marx ha evidenziato “Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di plusvalore, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare... Lesina sul tempo dei pasti e lo incorpora, dove è possibile, nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore viene dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come sego ed olio alle macchine. Riduce il sonno sano che serve a raccogliere, rinnovare, rinfrescare le energie vitali, a tante ore di torpore quante ne rende indispensabili il riavviamento di un organismo assolutamente esaurito.” (Il capitale, capitolo10).

Queste fabbriche del Bangladesh sono parte del paesaggio della globalizzazione che è imitato nelle fabbriche lungo il confine USA-Messico, ad Haiti, in Sri Lanka, e in altri posti che hanno aperto le loro porte all'uso furbo delle industrie di indumenti del nuovo ordine di produzione e di commercio degli anni 90. Nazioni silenziose che non avevano né la volontà patriottica di combattere per i propri cittadini né alcuna preoccupazione per la debilitazione a lungo termine del loro ordine sociale sono corse a dare il benvenuto alla produzione di indumenti.

I grandi produttori di indumenti non volevano più investire in fabbriche - sono diventati sub-appaltatori, offrendo margini molto ristretti di profitto e quindi forzando a dirigere le fabbriche come campi di prigionia del lavoro. Il regime del sub-appalto ha permesso a queste aziende di negare ogni colpa per quello che era fatto dai reali proprietari di queste piccole fabbriche, permettendo loro di godere dei benefici di prodotti economici senza avere le loro coscienze macchiate dal sudore e dal sangue dei lavoratori. Ha anche permesso ai consumatori nel mondo occientale di comprare una vasta quantità di merce, spesso con un consumo finanziato dal debito, senza preoccuparsi dei metodi di produzione. Uno scoppio occasionale di sentimenti liberali si voltava contro questa o quella compagnia, ma non c'era una complessiva rivalutazione del modo in cui i tipi di bene della catena di Wal-Mart hanno fatto normali i generi di pratiche di affari che hanno provocato questa o quella compagnia.

I lavoratori del Bangladesh non sono stati così proni come i consumatori nel mondo occidentale. Già nel Giugno 2012, migliaia di lavoratori nella zona industriale di Ashulia, fuori Dhaka, hanno protestato per salari maggiori e migliori condizioni di lavoro. Per giorni e giorni, questi lavoratori hanno chiuso 300 fabbriche, bloccando l'autostrada Dhaka-Tangali a Narasinghapur. I lavoratori guadagnano fra i 3000 taka (35$) e i 5.500 taka (70$) al mese; essi volevano un aumento fra i 1500 taka (19$) e 2000 taka (25$) al mese. Il governo ha mandato tremila poliziotti per sorvegliare il luogo, e il primo ministro ha dichiarato, con offerte per calmare gli animi, che avrebbe affrontato a fondo il problema.
Fu istituito un comitato di 3 membri, ma niente ne uscì di sostanziale .

Cosciente della futilità di negoziati con un governo subordinato alla logica della catena di produzione, a Dhaka è esplosa la violenza con l'emergere di sempre più notizie dall'edificio Rana. I lavoratori hanno chiuso l'area della fabbrica intorno a Dhaka, bloccando le strade e colpendo le auto. L'ottusità della Bangladesh Garment Manufacturers Assotiation (BGMEA), aggiunge fuoco alla rabbia dei lavoratori. Dopo le proteste a Giugno, il capo della BGMEA Shafiul Islam Mohiuddin ha accusato i lavoratori di essere coinvolti in "qualche tipo di cospirazione". Ha spiegato che non c'è"nessuna logica per aumentare i salari dei lavoratori". Questa volta il nuovo presidente della BGMEA Atiqul Islam ha suggerito che il problema non era la morte dei lavoratori o le condizioni misere nei quali i lavoratori lavorano ma "il disordine nella produzione è dovuto a agitazioni e hartals (scioperi)". Questi scioperi, ha detto, sono "solo un altro colpo pesante al settore tessile". Non c'è da stupirsi se coloro che hanno occupato le strade hanno così poca fiducia nei sub-appaltatori e nel governo.

I tentativi per cambiare significativamente la condizione dello sfruttamento sono stati sventati da una pressione coordinata del governo e dai vantaggi del delitto. Qualunque decenza si nasconda nel Labour Act del Bangladesh viene eclissata da un debole rafforzamento da parte del Inspections Department del Ministero del Lavoro. Ci sono solo 18 ispettori e assistenti per monitorare 100.000 fabbriche nell'area di Dhaka, dove sono situate la maggior parte delle fabbriche di indumenti. Se viene riscontrata un'infrazione, le multe sono troppo basse per generare qualunque riforma. Quando i lavoratori provano a formare unioni, la dura risposta dall'amministrazione è sufficiente a ridurre i loro sforzi. L'amministrazione preferisce le esplosioni anarchiche di violenza alla ferma consolidazione del potere dei lavoratori. Di fatto, la violenza ha portato il governo del Bangladesh a creare una Crisis Menagement Cell e una Polizia Industriale non per monitorare le violazioni delle leggi lavorative, ma per spiare gli organizzatori dei lavoratori. Nell'Aprile 2012, agenti della capitale hanno rapito Aminul Islam, uno degli organizzatori chiave del Bangladesh Center for Worker Solidarity. è stato trovato morto pochi giorni dopo, con il corpo con evidenti segni di tortura.

Il Bangladesh è stato scosso nei mesi scorsi con proteste oltre la sua storia - la terribile violenza fra i combattenti per la libertà nel 1971 da Jamaat-e-Islami portarono migliaia di persone a Dhaka a nello Shanbagh; questa protesta è stata trasformata in una guerra civile politica tra i due più grandi partiti, mettendo da parte le richieste di giustizia per le vittime di quella violenza. Questa protesta ha infiammato la nazione, che è stata al contrario abbastanza ottimista riguardo al terrore quotidiano contro i lavoratori del settore tessile. l' "incidente" dell'edificio Rana potrebbe fornire un cardine progressivo per un movimento di protesta che è altrimenti alla deriva.

Nel frattempo in occidente, la sottomissione alle guerre al terrorismo e sul declino nell'economia impediscono ogni genuina introspezione riguardo lo stile di vita che fa affidamento su un consumismo alimentato dal debito a spese dei lavoratori di Dhaka. Coloro che sono morti nell'edificio Rana sono vittime non solo dell'abuso dei sub-appaltatori, ma anche della globalizzazione del ventunesimo secolo.

Vijay Prashad


Fonte:  http://www.counterpunch.org/2013/04/26/the-terror-of-capitalism/
Tratto da: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&;file=article&sid=11797.

Traduzione per comedonchisciotte.org a cura di Ilaria Groppi.