Lo conobbi quando ormai la stanchezza della solitudine si stava facendo sentire, non che il mio matrimonio fosse solo un ricordo, ma era abbastanza lontano da sfuocare i dettagli. Mi piacque il suo modo di fare: adorante, pronto a qualsiasi bisogno e pronto a soddisfarli. Mi sembrava un uomo d’altri tempi, quando la cavalleria era normalità e lo stare insieme non era una questione di quantità ma di qualità. Dopo un anno la convivenza venne quasi naturale e per due anni la serenità del rapporto sembrava potesse portarci molto lontano.
Poi successe un imprevisto: fu licenziato e, nonostante le varie porte che gli vennero aperte, non ci fu più un lavoro che gli andasse a genio, era sempre lui che le richiudeva, per orgoglio, per insofferenza, per non so che cosa gli passasse per la mente. E fu così che il mio lavoro part-time si tramutò in full-time per forza di cose: e come si tirava avanti altrimenti? In questo modo, ovviamente, io passavo tutto il giorno fuori casa mentre lui si incupiva sempre di più e il tarlo della gelosia cominciava a insinuarsi in un rapporto che, forse, tanto sereno non era.
Bastò il ritardo di una sera che avevo trascorso in pizzeria con i miei colleghi per ritrovarmi coperta, oltre che di insulti, di pugni in testa e calci nello stomaco.
E non gli bastò: il freddo della canna della pistola contro la mia tempia è una sensazione che credo non mi abbandonerà mai. Per fortuna ho avuto la forza di reagire e dirottare il colpo e, ancora per fortuna, la pistola si inceppò permettendomi, ancora non mi rendo conto come, di scappare a chiamare aiuto.
È stata l’unica volta che ho subito violenza.
Non ho più permesso e non permetterò più che ce ne sia una seconda.