27 febbraio 2016

I saccenti.

Quelli che credono di avere la verità in tasca e pensano di doverla imporre come contributo socialmente e assolutamente necessario. Sempre pronti a elargire la propria sapienza, sono convinti di sapere tutto meglio di chi hanno davanti e non si trattengono dal manifestare questa presunta superiorità con consigli non richiesti, sermoni compiaciuti, critiche salaci ed evidenziando che soltanto loro sanno che cosa è bene o male, utile o inutile, giusto o sbagliato.
"Tu sbagli, tu non capisci, non hai le capacità, non hai fatto abbastanza, non hai scelto bene, non vai bene".  
Assumono posture da maestro, da capo o da padrone della situazione e ti guardano come a dirti: "Sei un inetto". 
Se ci si rivolge a loro per un aiuto o uno sfogo personale, sicuramente sono accoglienti, perché non vedono l'ora di avere motivo di sfoggiare la loro immensa cultura, sono generosi di insegnamenti, ma non riescono ad evitare di criticare con tanto di predica sugli errori compiuti, è nella loro natura. Non hanno dubbi, sanno sempre com'è la situazione anche se non la conoscono nei dettagli, non si fermano per cercare di capire, ostentano le loro opinioni e non cambiano mai idea.
E i superlativi! Ah, come gli piacciono i superlativi! Per loro non esiste aggettivo che si possa esprimere senza il suffisso "issimo". E' tutto all'ennesima potenza, sennò non può essere al loro livello. Hanno vissuto grandissimi amori, esperienze grandiose, sofferenze inenarrabili, sono sempre andati "oltre".
Ma più di ogni altra cosa amano essere ascoltati, riveriti, elogiati, assecondati. Se lo si fa si può essere sicuri di essere considerati, non come pari, sia chiaro, ma come allievi bisognosi di un mentore. Se, al contrario, li si snobba o peggio, li si contesta, si apriranno cataratte di insulti, anche non consoni a quel linguaggio forbito che sono soliti usare, e sempre col superlativo naturalmente!!
Ne ho conosciuti in questo abbondante mezzo secolo di vita....e col tempo ho imparato  a neutralizzarli. Non senza fatica, lo ammetto, perché, non conoscendo bene me stessa, i dubbi, le fragilità e le mancanze mi predisponevano all'inadeguatezza, al disagio e all'influenzabilità. 
Poi qualcosa l'ho capito e finalmente ne posso fare a meno. Ma non li combatto, non mi metto in competizione, semplicemente li ignoro, li allontano. Perché con loro non si può impostare un dialogo, soprattutto se non si ha una dialettica mnemonica altrettanto importante. 
Quindi evito accuratamente di fare domande come se fossero oracoli e spesso, anzi quasi sempre, dopo qualche inutile tentativo di selezionare un interesse in quello che dicono, li cancello dalla mia strada, che non sarà sicuramente così acculturata ma lastricata di errori, di contraddizioni, perfino di superficiale leggerezza e di poca saggezza.
Però è la mia. 
E non permetto a nessuno di dirmi dove devo camminare.
Un po' di umiltà ragazzi, che fa bene alla salute!!

23 febbraio 2016


Questa foto sta girando parecchio sui social. E' una foto, una semplice forma di comunicazione. Ma se togliessimo la precisazione "non è Auschwitz, è l'Europa del 2016", la prima cosa che penseremmo sarebbe comunque quella di un campo di prigionia, un ricordo del passato.
E invece no, è il presente, sono i prigionieri delle nostre guerre per il petrolio. 
Sono i prigionieri che pagano il prezzo del nostro benessere, precario e vacillante.

22 febbraio 2016

Ammazzate i poveri.

Uno dei maestri residui del pensiero italiano, il nababbo Eugenio Scalfari, nei giorni scorsi se ne è uscito con tale argomentazione: i poveri soddisfano esclusivamente i loro istinti e voglie primari; non ne hanno di secondari: la ricerca di Dio, ad esempio; collezionare ceramiche Ming; leggere trattati di socialisti tedeschi dell'Ottocento; scrivere per il teatro; occuparsi di lirica et cetera. Il loro mondo è chiuso, basico, animale. Sono dei bruti. 
Ovviamente Scalfari ha ragione. Tutta la mia famiglia, ad esempio, in particolar modo i miei ascendenti diretti (nonni materni e paterni), sono una conferma delle sue tesi.
Ma c'è di più.

I poveri, quelli veri, quelli che ben presto popoleranno la nazione, sono pure brutti, sporchi e cattivi.
Brutti poiché le privazioni imbruttiscono; e un lavoro non intellettuale (scrivere articoli da quattro soldi con l'aria condizionata, i piedi sul tavolo e le sfogliatelle alla propria destra, ad esempio) non regala tempo per curarsi la barba come un orticello (altro esempio).
In quanto brutti i poveri attirano altri brutti: ne nascono, a meno di un terno secco cromosomico, figli brutti.
I poveri sono sporchi, poi, perché quando si è brutti, con un lavoro di merda, e la mattina ci si sveglia con una donna laida, grassa e sboccata al fianco (è un esempio pure questo) si va in depressione, e, in depressione, come tutti sanno, non si ha mica voglia di farsi la doccia, profumarsi con essenze che nemmeno si è in grado di comprare o tagliarsi i baffi in maniera cool.
Va da sè che un tizio che è brutto, con una moglie brutta, e figli brutti, senza una lira, con un lavoro merdoso e le ascelle che gli puzzano, si incattivisca ogni giorno che passa.
Queste mie considerazioni sembrano facili e posticce, ma non è così: si basano su una osservazione costante, empirica, trentennale, degli Italiani.
Quando dico che i poveri sono brutti intendo proprio questo: che esiste una relazione diretta, scientifica, causale, fra la mancanza di pecunia e le fattezze umane (le gambe delle donne: basta osservare le gambe delle nostre nonne e le gambe delle loro nipoti; la bellezza delle gambe delle donne è questione di censo. Le belle nipoti però non hanno da illudersi: le gambe delle loro figlie torneranno presto a incurvarsi).
Ed esiste una relazione diretta tra povertà e moralità umana (sempre dei poveri: cattivi, zotici e maleducati)
Insomma Scalfari ha ragione: i poveri sono bestie.
Tuttavia vorrei rivolgergli una domanda: com'è che i nababbi suoi pari (De Benedetti, Tronchetti Provera, Montezemolo, gli Agnelli et cetera) e tutti gli intellettuali che secondo lui intrattengono altissimi discorsi e pensose meditazioni (con una ruga sulla fronte), e tutti i dotti che ha il privilegio di interrogare con quesiti celesti sulla vita e sulla morte (vescovi illuminati, rabbini illuminatissimi, premi Nobel) - insomma tutta la sceltissima pletora di menti eccelse che i bisogni primari non sanno manco cosa siano, e vantano, invece, bisogni secondari, terziari, quaternari ... come mai tutti questi eletti sono, alla fine della fiera, delle micidiali nullità?
Una semplice domanda.
Insomma, ragazzi miei, se l'italia è in declino da trent'anni almeno, tanto che la sua classe media è ormai in putrefazione culturale, a chi addebitare la colpa?
Non ai poveri, che pensano solo a magnà', a beve e a scopà' (i bisogni primari).
Cos'ha dato alla nazione De Benedetti? E Montezemolo? E il cardinal Martini, a ben pensarci, cosa ha fatto per impedire l'agonia dell'Italia (son solo tre esempi, potrei continuare per decine di pagine)?
Sorgono altre domande. Se i poveri sono cani, quali bisogni secondari aveva uno come Lapo Elkann? Privo di bisogni primari, in realtà cosa cercava?
Sono curiosità.
Che fanno sorgere altre curiosità. Esempio: cos'ha dato alla nazione Eugenio Scalfari? Come si son inverati i suoi bisogni secondari, terziari?
Mentre è sprofondato nei velluti della redazione di Repubblica meditando le superne cose de l'etternal gloria, insomma, che gli passa per la capoccia? Lui che è una delle punte più acuminate del genio nazionale.
Che gli passa per la testa, a parte queste fregnacce, a ben guardare, dopo decenni e decenni di parole, meditazioni, pontificazioni, additamenti?


Sussurri e grida dal sottosuolo.

 
 
Devo uscire di casa
i pensieri hanno saturato le stanze togliendo spazio all’ossigeno
hai mai provato a camminare a braccetto con l’inquietudine?
e se questa diventasse l’ombra di ogni tuo passo, che faresti?
quel che è peggio è intuire la risposta ma non racimolare il coraggio di agire.
 
Sto parlando di lavoro, capisci?
quella parte di giornata data per scontata
o meglio, da scontare come fosse una pena.
 
Perché condannarsi a un tempo sospeso
trascorso con gli occhi alle ore in attesa che muoia
per rinascere una manciata di respiri dopo?
esistenze come clessidre da vivere al massimo
ma soltanto negli istanti concessi dalla mano che le capovolge.
hai mai pianto pensando a tutta la sabbia che hai lasciato cadere, lentissima?
non ti ha scosso la rabbia per aver permesso che fosse la gravità ad avere il controllo?
 
Ansia di libertà, spasmi e tremori vista annebbiata, acufene, salivazione da cane
sono famelico e mi gettano briciole nel fango
non mi sorridere con la faccia sporca, non mi dire che va tutto bene
che è così che deve andare!
 
Non mi consola sapere che il turno finirà, che arriverà il weekend
che ci saranno giorni di permesso, di riposo e di ferie,
che avrò diritto alla malattia
IO STO MALE ORA !
 
E starò male ogni volta che una suoneria forzerà i miei risvegli
che non sarò io a scegliere quando uscire di casa e quando tornarci
ogni volta che ripercorrerò gli stessi chilometri, che obbedirò a un capo
che indosserò una maschera per affrontare interazioni umane imposte
ogni volta che prenderò quella busta chiedendomi se ne è valsa la pena.
 
Ho una catena ai piedi, un giogo al collo, paraocchi da cavallo…
un repertorio di metafore abusate, nessun’espressione originale
ho una stabilità da mantenere, tasse da pagare, vizi e piaceri non gratuiti…
un repertorio di scuse pietose
nessun’argomentazione plausibile
ho scaffali di libri illuminanti, la realtà che mi parla chiaro
e una giovinezza con la miccia corta
ma un arsenale di dubbi e paure a rendermi immobile.
 
Che altro scrivere allora?
più nulla per ora
devo andare al lavoro!
[Blatte, giugno 2015]
 
*
 
Fermarsi a riflettere, ora più che mai, sembra una perdita di tempo. Nel succedersi tumultuoso degli eventi, a cui nemmeno i nostri modernissimi smartphone sembrano in grado di tenere il passo, l’unica parola d’ordine possibile pare essere Fare. Ma fare che cosa?? Questo non l’ho ancora capito…
A sentire in giro, tutti/e sembrano in grado di parlare di tutto: per ogni fatto un’opinione, per ogni problema una soluzione, dagli spaccini sotto casa al terrorismo globale. Ed io che ho perennemente la sensazione di non capirci un cazzo, osservo e arranco. Al qualunquismo di molti/e riesco a far fronte, probabilmente perché con quei molti/e non ho grossi rapporti, causa principalmente la mia spocchia. Ma sono “i compagni” che mi tolgono il sonno! sono le assemblee, i volantini, i blog, le iniziative, i presidi, le azioni… le benzodiazepine! Forse sono quelle che mi servirebbero davvero.
Sì perché ci sono i migranti respinti alle frontiere, i bombardamenti occidentali su mezzo mondo, l’allarme sicurezza e la restrizione delle libertà individuali, il Rojava sotto attacco, il razzismo, la precarietà, la repressione ed un elenco smisurato di altri fronti di lotta. Ce n’è per ogni gusto e per ogni ideologia. Chi si ferma è perduto, chi riflette troppo è un intellettuale e chi non si getta nella mischia è un collaborazionista.
Se queste sono davvero le regole del gioco, io per ora me ne chiamo fuori. Ho tentato di calarmi nella parte dell’anarchico militante, cercando a lungo la sfaccettatura di anarchismo che più mi si addicesse. Ho conosciuto “compagni” ed ho fatto cose “da compagni”. Non sputo nel piatto vegan in cui ho mangiato, semplicemente mi fermo un attimo, anche se là fuori tutto procede liscio verso la catastrofe.
Vedo persone che parlano con fervore di cose successe dall’altra parte del mondo, ma si lasciano passare sotto il naso crimini e abusi; persone convinte di combattere contro nemici invisibili o smisuratamente più grandi di loro, che nel frattempo si comportano in modo autoritario e spregevole con chi sta loro accanto; persone promiscue nell’esprimere solidarietà ad ogni individuo sfruttato, mandare all’aria relazioni ed essere sole o aggrappate a pochi ed esclusivi legami; persone sempre intente a propagandare società migliori e possibili perché di fatto profondamente insoddisfatte delle proprie esistenze; persone che gridano alle altre di liberarsi dalle proprie catene, per poi tornare di corsa al lavoro, alla famiglia, alle proprie prigioni.
Io sono stato e sono tuttora una di queste persone. Voglio smettere di esserlo!
Le nostre vite bruciano veloci senza lasciare un segno. Il nostro sguardo è rivolto in alto e lontano mentre intorno a noi si fa il vuoto. A forza di salire ed arroccarci su vette sempre più pure, la terra è finita e stiamo scazzando fra di noi per chi debba precipitare prima. Io quasi quasi torno a valle e rifletto su che fare, magari trovo pure qualche compagno (di viaggio!).
 
[Blatte, n. 2, dicembre 2015

20 febbraio 2016

Discorso sull'anarchia. (Fabrizio De Andrè)

Il cuore di un Anarchico sanguina sempre, il mio,
perché sono consapevole che Anarchia è solo pura utopia,
e perché il mondo che osservo con i miei occhi non mi piace, e lo vorrei diverso…
vorrei che nessuno fosse padrone e che nessuno fosse più servo,
vorrei che l'uomo riuscisse finalmente ad auto gestirsi e a collaborare con gli altri della sua specie,
vorrei non avere più nessun uomo politico che gestisca il mio futuro e quello di migliaia di altre persone,
vorrei che nessuno più fosse mercenario di guerra al servizio del potere,
vorrei che l'uomo non avesse più inibizioni come una legge imposta dall'alto e che l'unica legge fosse la nostra morale
vorrei che la gente smettesse in credere in valori sbagliati come il consumismo,
vorrei che l'uomo fosse finalmente libero,

e vorrei anche tante altre cose, ma mi ci vorrebbero almeno tre giorni per elencare tutto ciò che voglio.
Fatto sta che sono arrivato alla triste conclusione che l'uomo non può in alcun modo essere libero.
Se riuscissimo ad ottenere Anarchia non so se mi sentirei veramente libero,
c'è gente che non fa del male agli altri soltanto perché ha paura di essere punito dalla legge,
in Anarchia gente del genere sarebbe libera ma chissà quante persone priverebbero della propria libertà,
certa gente sarebbe libera e felice di uccidere o opprimere altra brava gente solo per puro divertimento perché è veramente cattiva dentro, e perché è più forte di altri…

(…)
Forse in Anarchia non saremmo veramente liberi perché potrebbe significare doversi guardare continuamente le spalle, e in alcuni casi anche dover vivere nella paura, paura del cattivo di turno che potrebbe privarci della libertà di vivere o farci del male, e vivere nella paura non significa essere liberi secondo il mio giudizio.
Forse in anarchia non saremmo tutti uguali perché un qualsiasi idiota molto molto robusto e molto molto cattivo appoggiato da altri uomini del suo stesso stampo potrebbe prendersi il potere da sè senza che nessuno gliel'abbia dato e opprimere così i più deboli.

Perciò Anarchia non può che essere solo utopia, solo un sogno fatto di uomini che vivono liberi e nel massimo rispetto degli altri e rinunciando a sottomettere il prossimo.
Ma se attualmente l'uomo non è libero è soltanto per colpa sua, perché non è capace di vivere libero e di auto gestirsi, per aumentare le probabilità di sopravvivenza ha dovuto dare potere ad altri uomini che in cambio di sicurezza ci chiedono l'ubbidienza…
perché chi ha potere può decidere quello che possono o che non possono fare gli altri uomini, e deciderne le sorti essendo come un Dio in terra…
e tutto ciò perché l'uomo non è capace di vivere libero,
noi uomini non possiamo essere liberi, nè adesso a causa di uomini che hanno il potere, nè in Anarchia a causa dei nostri stessi simili.


18 febbraio 2016

Prove di vigliaccheria.

Ieri in Parlamento un’altra prova di irresponsabilità. Si rimanda la discussione di una legge che ha un ritardo di 20 anni. Senatori e deputati si indispettiscono perché non viene garantito loro il voto segreto. Perché in questo nostro sistema manca, ma lo sappiamo da tempo, la trasparenza, l’autonomia di pensiero e quindi la libertà di coscienza è quanto di più insidioso esista per un sistema politico, non solo corrotto alle fondamenta, ma contaminato da un virus più forte di qualsiasi altra epidemia conosciuta: la vigliaccheria.

Tolleriamo famiglie spaccate dalla violenza o prepotenza domestica, tolleriamo l’incremento di soprusi su donne, bambini e anziani, tolleriamo atteggiamenti perversi di uomini sposati che frequentano prostitute e omosessuali, tolleriamo che la gente si tolga la vita per la mancanza del lavoro, ma non riusciamo a tollerare il bisogno degli esseri umani di condividere gioie e dolori in una unione omosessuale, non tolleriamo chi non ha fatto le nostre stesse scelte e intende assumersi la responsabilità della gioia e del dolore di una creatura per vivere l’esperienza genitoriale, per dare un senso all'eccezionalità della vita come donazione o semplice altruismo. Non tolleriamo l’alterità.

17 febbraio 2016

Ipocrisia e affari.

Già da tempo, mi sembrano secoli, sono convinta che l'informazione passi attraverso canali che la dirigono e che usi metodi ben studiati per influenzare l'opinione pubblica. E mi dispiace davvero che così tante persone si lascino abbindolare inseguendo modelli di pensiero suggeriti, fatti ingoiare in nome di non si sa bene quale logica opportunista. O meglio, la si sa, ma si fa finta di non saperlo.
In questi giorni, come sempre del resto, sono successe diverse cose, e, come sempre, se ne parla. Ma in che modo se ne parla? Con dei metodi ben precisi che odorano fortemente di falso moralismo e lamentoso piagnisteo buonista. 
Qualche esempio: sul "Corriere della sera" dopo l’uccisione del ricercatore italiano, torturato e ammazzato dai servizi segreti egiziani, piangono copiose lacrime sulle atrocità commesse da "regimi totalitari" o da "maligne teocrazie islamiche"(come se questi fossero gli unici governi ad incarcerare, torturare e accoppare oppositori interni o semplici cittadini). Scribacchiano articoli opportunisti e carichi di ipocrisia su quanto pesino moralmente, alla progredita Europa, in termini di libertà, gli accordi commerciali con paesi come Iran e Arabia Saudita, i cui governi usano sistemi peggiori di quelli dell’Isis. 
Ma questi (l’Isis) sono "tagliatori di teste", mentre i torturatori delle monarchie e teocrazie mediorientali sono ottimi partner commerciali. 
Quando si deve descrivere quello che accade nei paesi islamici si usano modi alquanto bizzarri: ci si indigna fortemente per gli islamici che usano le impiccagioni di oppositori del regime per reprimere le proteste, di chi ha una diversa sessualità, di chi sostiene la laicità dello stato e delle donne maltrattate e segregate. Ed è più che giusto. Solo che poi non si perde occasione per sostenere la teoria che bisogna "garantire" l'aspetto commerciale per continuare a fare affari con questi "stati canaglia". Non c'è nessuna remora nell'offrire all'opinione pubblica le due facce della stessa medaglia: si condanna la brutalità ma non si nega che sia necessario mantenere "buoni rapporti". 
Nello stesso tempo i bombardamenti aerei in Siria sostenuti dal “blocco occidentale” e dalla Russia, non procurano la stessa indignazione e lo stesso sdegno....ma questo è il prezzo da pagare per fermare i “tagliagole dell’Isis”. 
L'unica morale della storia è che le vittime sono sempre e comunque le popolazioni, costrette ad emigrare per salvarsi dalla guerra imperialista, le cui vite valgono sicuramente meno di altre, costantemente messe all’indice dalla stampa che li dipinge, a seconda delle necessità della propaganda nazionalista, come terroristi o stupratori seriali, sempre pronti a qualsiasi delitto.
La necessità del capitalismo di fare affari con i regnanti ed i governanti degli "stati canaglia"  fa si che tutta la questione diventi marginale e costituisca il prezzo necessario, il famoso "effetto collaterale" per la sopravvivenza dell’imperialismo. Questo è quanto.
Ah, dimenticavo che possiamo sempre utilizzare la soluzione finale che mette in pace i cuori: il perdono. Come insegna il Papa chiedendo perdono ai contadini del Chiapas dei massacri subiti. 
Ammaestrare e inebetire le masse attraverso il concetto del perdono è una antica teoria già lungamente sperimentata nel corso dei secoli dalla chiesa cristiana. Da un lato il braccio armato che rivendica l’inevitabilità della guerra che, "purtroppo", con le sue nefandezze, stupri, torture e violenze di ogni ordine e grado è però necessaria. Dall’altro un piagnisteo moraleggiante con cui ci si assolve per i crimini commessi con miserabili parole di costernazione.

13 febbraio 2016

“Si può fare politica e protestare in mille modi, io canto” (Rosa Balistrieri)


A proposito del festival di Sanremo, ma non quello di quest'anno, quello del 1973. Quello di una donna che non partecipò nemmeno perché esclusa all'ultimo momento dalla rassegna canora. La sua canzone si intitolava "Tierra ca nun sienti" e lei era Rosa Balistrieri, una donna tosta, una di quelle che si sono imposte per le loro capacità intellettive e non fisiche, lasciando un segno nella storia dell’umanità in campo politico, letterario e artistico.
La storia della sua vita è costellata di tragedie: lutti, soprusi, povertà e solitudine.
"Ho imparato a leggere a 32 anni. Dall’età di sedici anni vivo da sola. Ho fatto molti mestieri faticosi per dare da mangiare a mia figlia. Conosco il mondo e le sue ingiustizie meglio di qualunque laureato. E sono certa che prima o poi anche i poveri, gli indifesi, gli onesti avranno un po’ di pace terrena". 
"Li ho messi tutti nel sacco. Le mie storie di miseria provocheranno guai a molti pezzi grossi il giorno in cui l’opinione pubblica sarà più sensibile ad argomenti come la fame, la disoccupazione, le donne madri, l’emigrazione, il razzismo dei ceti borghesi… Finora ho cantato nelle piazze, nei teatri, nelle università, ma sempre per poche migliaia di persone. Adesso ho deciso di gridare le mie proteste, le mie accuse, il dolore della mia terra, dei poveri che la abitano, di quelli che l’abbandonano, dei compagni operai, dei braccianti, dei disoccupati, delle donne siciliane che vivono come bestie. Era questo il mio scopo quando ho accettato di cantare a Sanremo. Anche se nessuno mi ha visto in televisione, tutti gli italiani che leggono i giornali sanno chi sono, cosa sono stata, tutti conoscono le mie idee, alcuni compreranno i miei dischi, altri verranno ai miei concerti e sono sicura che rifletteranno su ciò che canto". ("Qui Giovani" del 22 marzo 1973).
Così si presentò Rosa ad un giornalista che l’intervistò nel 1973 in seguito alla mancata partecipazione al festival. Questo episodio suscitò molto fragore, al punto che Rosa venne considerata da molti la vera vincitrice del festival di quell’anno.
Le parole di questa donna pesano come macigni, hanno l’eco di dolore di una vita vissuta a testa alta, ma con un fazzoletto nascosto nella manica per asciugare le furtive lacrime, represse per orgoglio, inghiottite come chicchi di sale amaro.
Il poeta Ignazio Buttitta, che scrisse per lei numerose liriche andatesi ad aggiungere al suo già vastissimo repertorio, diceva di lei: 
"Ogni volta che cercheremo le parole, i suoni sepolti nel profondo della nostra memoria, quando vorremo rileggere una pagina vera della nostra memoria, sarà la voce di Rosa che ritornerà a imporsi con la sua ferma disperazione, la sua tragica dolcezza …".
In un’intervista a "Noi Donne" la cantante Lucilla Galeazzi ha detto a proposito del modo di cantare di Rosa: 
"Fare politica attraverso la canzone popolare non è solo qualcosa di esplicito e legato ai fatti del momento, ed è nel “come” non solo nel “cosa”. Lei portava avanti la voce del popolo, cantava le canzoni che appartengono a tutti, che sono “comuni” fin dalla loro radice e alle quali non è possibile apporre alcun tipo di copyright. […] A me Rosa piace come canta e cosa canta, cose che non vanno mai distinte, anche la ninna nanna è contestataria: la ninna nanna non la canta certo la donna borghese che può permettersi la balia, ma la mamma proletaria che l’indomani deve svegliarsi alle quattro di mattina per andare a lavorare, e si sente disperata perché il bambino non vuole dormire. Ecco allora che Rosa aveva la capacità di trasmettere la disperazione, di renderti compartecipe del lamento di questa donna: e anche questo è fare politica".


Maledetto quel momento
in cui ho aperto gli occhi in terra
in questo inferno.

Questi vent'anni di tormento
con il cuore sempre in guerra
notte e giorno.

Terra che non senti
che non vuoi capire
che non dici niente
vedendomi morire.

Terra che non trattieni
chi vuole partire
e niente gli dai
per farli tornare.

E piangi...
Ninna oh!

Maledetto... tutti questi anni
con il cuore sempre in guerra
notte e giorno.

Maledetto chi t'inganna
promettendoti la luce
e la fratellanza.

10 febbraio 2016

L'ultima frontiera?

L'ultimo orrore dalla Nigeria, la baby factory
Quanto costa un neonato? Dai 4000 ai 10000 Euro.
Un traffico odioso di neonati scoperto in Nigeria. Donne e ragazze rapite nei villaggi di origine, violentate e depredate del neonato che viene venduto con guadagni talmente alti da essere ormai un "affare" in mano a potenti organizzazioni criminali. Spesso le ragazze vengono spedite direttamente nel ricco Occidente, dove subiranno la stessa sorte.


Ragazze rapite nei villaggi vengono segregate e violentate al fine di far nascere bambini che verranno venduti sul mercato illegale delle adozioni.

Dicono che ci si abitua a tutto e forse è un po' vero. Le notizie che ci cadono addosso come macigni tutti i giorni diventano piano piano dei sassolini che facciamo presto a scrollarci di dosso, sono troppe le infamie, le ingiustizie che l'umanità riesce a perpetrare per poterle sopportare e sopravviverci, bisogna immunizzarsi per non soccombere. Ma l'orrore rimane insieme a quel senso di rabbiosa impotenza. Io non so fino a dove si può spingere la cattiveria dell'uomo, non so di quante nefandezze può essere capace in nome del profitto perché sembra che non ci sia un confine, un limite oltre il quale non riesce ad andare: l'avidità spinge sempre oltre.

09 febbraio 2016

Il tempo, l'amore e la lotta di classe.

Da contromaelstrom.
Ciascuno e ciascuna di noi ha una sua particolare idea dell’amore. La letteratura ci fornisce una varietà infinita di concezioni dell’amore nelle diverse epoche storiche, nelle diverse culture, nei diversi strati sociali.
Ad esempio: l’amore cavalleresco, quello romantico, l’amore eterno, l’amore fisico, quello spirituale, l’amor filiale, quello materno e quello paterno, quello appassionato, l’amore platonico, l’amor muliebre, l’amor di patria, l’amore divino, ecc., ecc.
Ma il tempo che rapporto ha con l’amore? Il tempo ha un ruolo nella concezione che ciascuno/a ha dell’amore. Per esempio rispetto alla sua durata. Alcune parole sono state prodotte per rappresentare rapporti d’amore a seconda della loro durata e dell’intensità: “mi sto facendo una storia con…” vuol dire sto avendo un rapporto sentimentale di non-lunga durata; oppure “mi vedo con tizio/a…” è un rapporto non molto coinvolgente e forse ancor più breve della storia…ed altre espressioni.

Ma questo è il tempo cronologico, quello con cui gli umani misurano ogni cosa, quello scandito dagli orologi che viene utilizzato anche per misurare anche l’amore, se breve, lungo, eterno…
Ma c’è un altro tempo. Non il tempo cronologico, un altro significato di tempo…un significato assai interessante con cui riprendere a familiarizzare.
Molte lingue antiche avevano due parole per rappresentare diversi concetti di tempo. Attualmente le lingue che hanno mantenuto il doppio significato, hanno una parola per il tempo cronologico e un’altra per il tempo meteorologico.
Ma è una semplificazione che ha annullato completamente il senso di un diverso significato del “tempo”.
La parola “tempo” nella nostra lingua deriva da termini latini come “tempestus”, “tempestas” … termini che rappresentano quel fenomeno naturale, “la tempesta”, conosciuta dagli umani da sempre e osservata spesso con esiti devastanti per l’osservatore, che si produce quando una serie di elementi: vento, temperatura, pressione, umidità… si miscelano e, in un momento dato, esplodono in quello spettacolo che stupiva e stupisce ancora con tuoni, lampi, scrosci d’acqua, ecc., ecc.
Alle origini della parola “tempo” abbiamo i concetti di “miscela di elementi diversi” e di “momento opportuno in cui questi si combinano ed esplodono”. Difatti la parola “tempestività”, che ha la stessa radice, definisce una azione in un preciso momento e non in altri; le parole “temperanza” o “intemperanza” stanno a significare se la miscela di elementi diversi si produce all’interno del consentito oppure fuori, se viene accettato o no dai contemporanei.
Dunque la parola “tempo” non ha avuto sempre l’unico concetto che oggi le attribuiamo, ossia quello di “scorrere di avvenimenti pressoché simili o comunque in continuità, senza sostanziali rotture”. Questo significato ha preso piede, probabilmente, nelle società ordinate e gerarchiche, nelle quali la continuità e l’immobilità è un valore importante da mantenere.
I greci avevano un termine per rappresentare questa immagine del tempo opportuno. Non è Kronòs ma Kairòs. Quest’ultimo, caduto in disuso, stava proprio a significare il tempo opportuno nel quale devono succedere delle cose. È evidente che nelle culture legate all'agricoltura e pastorizia e anche alla produzione artigianale questo concetto è fondamentale. Bisogna piantare o raccogliere i vari prodotti agricoli in quel tempo e non in un altro e proprio quando si miscelano, una serie di elementi: luna, temperatura, umidità…. Così per la gestione degli animali, per la pesca ed anche per le produzioni artigianali o legate all’agricoltura: formaggi, vino, ecc. Insomma c’è un “tempo opportuno” nel quale avvengono certe cose, debbono avvenire… è il tempo maturo per quell’attività, per quell’avvenimento.
Quest’ultimo significato è rimasto in alcune lingue riferito al tempo meteorologico, ma tassativamente assente nelle vicende umane. L’ordine familiare, religioso e statuale non lo poteva consentire.
E invece, poiché accade, e mica tanto raramente accade, inconsapevolmente ma accade, proviamo a rapportarlo al concetto di amore che troppo spesso caratterizzano a seconda della durata o, in qualche caso, dell’intensità, ma mai con il tempo opportuno quando si miscelano quegli elementi che fanno esplodere, come una tempesta, la passione.
Avviene proprio così e lo sappiamo tutte e tutti. Ma noi contemporanei non abbiamo pensato quale parola usare per dirlo o non abbiamo il coraggio per esprimerlo…ed è un guaio!!!
Anche la storia e l’attualità della lotta di classe la possiamo vivere più consapevolmente o, se volete, la capiamo meglio se introduciamo questo concetto del tempo opportuno. L’ho verificato nella mia storia e ancor di più in periodi di storia complessi. Ad esempio la storia degli anni ’70 si spiega assai bene col concetto di tempo opportuno, Kairòs per fare certe scelte. Quello era il tempo, né prima né dopo, per noi era quello. E in quel tempo abbiamo fatte quelle scelte. E ci siamo tirati addosso tutti i giudizi e le contumelie possibili, ma quello, per noi, era il tempo opportuno; comunque fosse andata.
La comune di Parigi, o prima ancora la rivolta degli schiavi di Haiti, e prima ancora quella degli schiavi e dei gladiatori di Spartaco, o ancora la saggezza sovversiva di Ipazia di Alessandria … e ne possiamo trovare decine e decine di periodi in cui il tempo opportuno ha dato il segno alla storia.
Ed oggi? La domanda si impone di nuovo: quando cadrà il tempo opportuno per fare qualcosa di importante che metta in discussione lo stato di cose esistenti?

La decisione spetta a chi è inserito/a profondamente nella lotta di classe, non altri. Cosa va fatto oggi lo decide chi fa, coloro che fanno, non chi guarda. E dovranno decidere per evitare di nascondersi… dietro il “tempo che passa” e continuare a vivere nello spaesamento totale.

07 febbraio 2016

Interrogandomi sul senso del nostro mascherarsi.

A proposito di maschere e mascherate. L’infelice idea di una ditta inglese che ha proposto sul suo sito di vendite online una maschera da “piccolo migrante”. Che è come dire ai ragazzini che è solo tutto un gioco. 
“Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai molte maschere, poche persone”. Tragico, fulminante Pirandello.
 http://www.remocontro.it/2016/02/07/carnevale-gatto-randagio-troppe-maschere-poche/ 

Come il pharmakon – insegnava Platone – può essere tanto una medicina che cura quanto un veleno che intossica (e noi oggi comprendiamo sempre meglio la verità di questo avvertimento), così la maschera è altrettanto doppia e infida. Ecco adesso, dovunque, a Carnevale, il rito festoso del mascherarsi e il piacere dello spettacolo corale dei travestimenti. Per qualche giorno abbiamo la libertà di sentirci e apparire diversi, belli o mostruosi, umani o extraterrestri, uno di un’epoca remota o uno di una dimensione fantastica e magari futura. Festa di bambini, che le scuole opportunamente promuovono, ma anche festa di adulti che desiderano alterare per un momento la routine del sempre uguale.
Valenti studiosi e pensatori hanno preso molto sul serio quest’antica voglia di mascherarsi e hanno spesso tessuto l’elogio del carnevale. Ogni volta che arriva si dice che è una festa in declino e forse destinata a estinguersi, tuttavia il carnevale sopravvive ogni volta a se stesso come se vi si riproducesse qualcosa che non sembra completamente risucchiato dal consumismo. Questo “quid”, che si mantiene in modo quasi anacronistico, consiste essenzialmente nel bisogno di modificare almeno un poco la propria identità quotidiana: nell’illudersi, nel giocare a essere qualcun altro o almeno a celarsi allo sguardo identificante di tutti i giorni, coprendosi il viso con una mascherina. Dietro all’innocente carnevale sta dunque una questione di enorme importanza: appunto l’esigenza di sfuggire all’omologazione, almeno di manifestare pubblicamente tale esigenza in maniera simbolica, parziale, residuale, ormai mercatizzata e svuotata quanto si vuole, comunque di tentare di farlo.
Ma allora quale sarebbe il veleno della maschera? Esso sta nell’ambivalenza del nascondersi, nel trionfo di un dispositivo sociale che, non per qualche giorno bensì per tutto l’anno, procede mascherato e tende ad assumere false fisionomie. Spesso, assistendo al normale spettacolo della politica, sembra di osservare un défilé di maschere e di volti contraffatti, al punto che verrebbe da dire “giù le maschere!”, “fateci vedere chi siete veramente!”.
La maschera diventa velenosa se si irrigidisce in una finzione: quando ciò accade, il gioco è finito, non ci si diverte più, o meglio: il divertimento diventa falso, un trucco per avere consenso, un volto sorridente e perfino esaltante per persuadere ingannevolmente, cosicché gli altri non riconoscano chi vuole trascinarli e le sue reali intenzioni. Quante volte capita che qualcuno scivoli giù dal piedistallo e si riveli ben diverso da quello che la sua maschera faceva intendere!
È chiaro che quando si ha qualcosa o molto da nascondere conviene indossare una maschera, e questo vale per tutti. Quando poi si hanno responsabilità pubbliche, quando si è potenti, questa maschera può diventare un veleno pericoloso. Si parla di continuo della necessità di lottare contro l’evasione fiscale: il grande evasore è uno che ha indossato una formidabile maschera per non essere riconosciuto.
È paradossale che per un verso vorremmo far cadere le maschere dell’ipocrisia e della truffa, mentre per l’altro verso ciascuno desidera di poter usare le maschere per avere più libertà ed evadere dalla propria angusta prigione individuale? Non lo è affatto, sempre che riusciamo a compiere un esercizio critico sul senso da attribuire alla maschera, distinguendo la maschera che produce un più di soggettività dalle maschere che ci bloccano e ci fanno restare immobili dove siamo. La maschera come gioco – un gioco molto difficile da giocare – che ci permette di alleggerirci e di imparare a uscire e a rientrare in noi stessi, dalla maschera che irrigidisce il nostro volto. Nei suoi limiti, il carnevale potrebbe anche essere un’occasione per farci capire questa distinzione e fornirci una qualche arma per combattere, o almeno per individuare le maschere sociali che ci avvelenano l’esistenza, maschere che introiettiamo anche senza volerlo, momento dopo momento, magari per scoprire un bel giorno che siamo diventati noi stessi una rigida maschera vivente.
[Pubblicato su "Il Piccolo", 13 febbraio 2015]
http://autaut.ilsaggiatore.com/2015/02/su-la-maschera/

06 febbraio 2016

Virus Zika, il crimine di massa della chiesa cattolica.

Da Micromega.

La chiesa cattolica si sta rendendo complice e anzi mallevadrice di un crimine di massa orrendo: migliaia e migliaia, decine di migliaia, e in crescita esponenziale, di poveri bambini microcefali, condannati a una “vita” di handicap, cioè di sofferenze, spesso gravi e gravissime (ma in taluni casi saranno pressoché normali, sdottoreggiano esibendo statistiche i nuovi sadici della fede).

L’ONU ha chiesto a tutti i governi dove è in corso l’epidemia di Zika di consentire l’aborto terapeutico. È davvero il minimo, una volta tanto le spesso inutilissime Nazioni Unite provano a esercitare i compiti per cui furono istituite.

Ma la conferenza episcopale dei vescovi brasiliani ha già detto di no, la vita è sacra quali che siano malformazioni e sofferenze, anche quando è “vita”, anche quando iniziale conglomerato di cellule (neppure l’embrione ancora informe ma addirittura la blastula: non appena l’uovo è fecondato è già “vita umana”, il dogma contro ogni evidenza scientifica).

Nel frattempo Papa Francesco, che dei vescovi brasiliani è il capo, per la gioia dei suoi aedi che si fregiano di laicità (e che faranno finta di non vedere e non sentire e non parleranno, come le tre scimmiette) si è posto alla testa della Agenzia mondiale della superstizione, ordinando la traslazione della salma di Padre Pio da Pietralcina (Santo, ça va sans dire) in tour a Roma per risollevare le sorti di un Anno Santo in indigenza di pellegrini. Si attendono nuovi miracoli, mentre continua la pressione dei vandeani del Family Day perché l’Italia resti all’ultimo posto della carovana occidentale in fatto di diritto matrimoniale moderno.

05 febbraio 2016

Sposati e sii sottomessa.

Involuzione di un popolo e di una società bloccata in schemi e cliché che nulla hanno a che vedere con l'essere uomo o donna o famiglia..e basterebbe solo una "cosetta"...il rispetto.

Dalla pagina facebook di Riccardo Lestini.
Oggi veniamo a sapere, dalle colonne dei principali quotidiani, che palpeggiare sul luogo di lavoro le parti intime di colleghe non consenzienti, non costituisce reato.
A stabilirlo è stata la sentenza del Tribunale di Palermo, che ha assolto il 65enne Domenico Lipari, impiegato all'Agenzia dell'Entrate, denunciato da due colleghe per, appunto, palpeggiamenti e molestie. Assolto non per non aver commesso il fatto (Lipari ha sempre confermato di aver palpeggiato le due donne), ma proprio perché “il fatto non costituisce reato”. Motivazione della sentenza: “il gesto è da ritenersi come inopportuno e immaturo atteggiamento di scherzo”.
No, non ho fatto alcun errore di battitura, è andata proprio così: il Tribunale ha ritenuto un 65enne “immaturo”.

Contemporaneamente, a Latina, una donna di 42anni è stata denunciata dal marito e rinviata a giudizio per “maltrattamenti in famiglia”. Nello specifico, i maltrattamenti consisterebbero nel fatto che la donna “non effettuava con regolarità le pulizie di casa” e “non preparava la cena al marito”. Il processo, in questo caso, deve ancora iniziare, ma dal rinvio a giudizio veniamo a sapere che una donna può finire in tribunale – e rischiare una condanna da due a sei anni – se non prepara manicaretti al consorte e non gli fa trovare ogni giorno la casa linda e splendente.
Per entrambi i casi, sui social, pioggia di truci commenti di maschi entusiasti.
Per la storia di Palermo, cito in ordine sparso: “e che vuoi che sia una pacca sul culo”; “poi ste troie vengono a lavorare vestite in un modo che le palpate te le tirano via dalle mani”; “tutta sta storia per una tastata di tette”; “la sentenza è giusta: ste donne hanno rotto il cazzo”. E via dicendo.
Per quella di Latina, sempre in ordine sparso: “io avrei fatto di peggio, l'avrei ammazzata”; “era ora”; “si merita quindici anni, sta stronza”. Cito anche due commenti di donne: “del resto è venuta meno al suo compito”; “il marito ha soltanto voluto riconoscere un suo diritto sacrosanto”.

Intanto, ci ricorda un bellissimo articolo di Michela Murgia apparso su “Repubblica”, dall'inizio del 2016 contiamo una vittima ogni tre giorni per femminicidio. Tra le tante, la donna morta a Catania strangolata dal marito davanti al figlio di quattro anni, la ragazza incinta di nove mesi e ridotta in fin di vita dal compagno che le ha dato fuoco, la donna che è stata decapitata dal marito. Su di loro, il silenzio.
Per non contare le innumerevoli vittime di stupro, sulle quali no, non regna il silenzio. Regna al contrario il dubbio. Il dubbio strisciante, nell'opinione pubblica, che sia colpa loro, delle vittime: troppo discinte, troppo provocanti. Troppo donne.

Nel primo pomeriggio di sabato scorso, al Circo Massimo, durante il Family Day, al momento clou della manifestazione, è salita sul palco la giornalista, scrittrice e blogger Costanza Miriano, autrice del best-seller “Sposati e sii sottomessa”. Un libro che esorta le donne di tutto il mondo a riprendere il proprio ruolo naturale, che è quello, appunto, di totale sottomissione all'uomo: “Rassegnati, ha ragione lui – scrive l'autrice – obbediscigli, sposalo, fate un figlio, trasferisciti nella sua città, perdonalo, fate un altro figlio”.
Il libro ha venduto 150mila copie. Vale a dire lo stesso numero di copie che otteniamo sommando cinque (cinque!) recenti pubblicazioni che denunciano la violenza sulle donne, si interrogano sul ruolo delle donne e, soprattutto, denunciano lo strisciante e incredibile maschilismo che ancora permea la nostra società: “Ferita a morte” di Serena Dandini, l'antologia “Questo non è amore” edita da Marsilio, “Regina Nera” di Matteo Strukul, “Sebben che siamo donne” edita da Derive&Approdi e “Mia per sempre” di Cinzia Tani.
Dal palco del Family Day, la Miriano ha gridato: “Riprendiamoci questo ruolo che stiamo dimenticando per emanciparci, torniamo a essere vere donne capaci di accoglienza, e se lo faremo i nostri uomini torneranno a essere capaci di grandezza”.
L'hanno applaudita, entusiasti, due milioni di persone. Un numero imprecisato l'ha applaudita da casa. Nessuno, a quanto risulta, si è scandalizzato.

Chissà perché l'opinione pubblica insorge contro la “segregazione” e la “sottomissione” della donna solo quando si parla di Islam.
Forse sarebbe il caso, noi uomini per primi ma anche molte, moltissime (troppe) donne, ogni volta che denunciamo il velo, le lapidazioni, l'orrenda, spietata e inaccettabile condizione in cui l'intero universo femminile viene tenuto in tantissime aree del mondo, ci ricordassimo di guardare anche tra le pieghe del nostro amato “mondo libero”.
Un mondo che, spesso e volentieri, si rivela paritario solo formalmente. Ma che nella pratica resta ferocemente e spietatamente machista e maschilista.
E sarebbe il caso di cambiarlo davvero, questo nostro amato “mondo libero”.
Cambiarlo una volta per tutte. 

Sono stanco di vergognarmi per essere un uomo.

Non ce la posso fare.

Salme che vengono scortate da poliziotti pagati da noi.

Uomini etero che uccidono o sfregiano le loro compagne, madri dei loro figli. 

Parlamentari analfabeti che non dico non sappiano cosa sia la stepchild adoption, ma non conoscono nemmeno una traduzione italiana decente per smarcarsi da figure di merda con un inglese paleolitico.

Il vergognoso e disperante spettacolo dell’emiciclo deserto (otto su 360 più i senatori a vita) mentre Padoan risponde sulle interrogazioni relative alla crisi bancaria in atto.

E non manca nemmeno quell'altro cazzaro milionario che dice che con 320€ al mese si può vivere benissimo.

E se non bastasse:
 
Un imbecille misogino che pubblica e vende libri  e gira pure il mondo per insegnare a stuprare e inneggia alla legalizzazione dello stupro. 

Incoerenza, menefreghismo, spreco di soldi, violenze indicibili, e tutto questo ben prima che io abbia potuto bere del caffè per riabilitare i neuroni.
Non ce la posso fare.

03 febbraio 2016

Violenza sulle donne, una lunga scia di sangue.

Cronaca degli ultimi giorni: a Pozzuoli un uomo ha dato fuoco alla compagna incinta, che versa ora in condizioni disperate; ad Anagni un uomo ha massacrato di botte moglie e tre figli, una delle quali ha solo due anni, quindi si è recato in ospedale sostenendo di essere stato aggredito, in un disperato tentativo di mitigare l’orrore delle sue azioni; in Ancona un altro uomo ha aggredito la moglie con una scimitarra, a Perugia la polizia è intervenuta in difesa di una donna inferma picchiata dal marito, a Sora madre e figlia sono state portate in un struttura protetta perché vessate dalle botte e minacce del padre-marito, ad Arese un uomo è stato arrestato perché picchiava la moglie davanti ai tre figli… e potrei andare avanti, ma mi fermo qui, perché è un crescendo che fa orrore e chiedersi perché è un urlo che rimane strozzato in gola.
E come al solito, di queste ultime vicende di violenza, terribili e non nuove alla cronaca, colpisce in modo particolare il linguaggio utilizzato da molti mezzi di stampa e da molte “persone comuni”. Un linguaggio che sembra sforzarsi di andare verso la comprensione per il violento. Non in modo evidente, certo. Ma con degli input. La povertà, la perdita del lavoro, la depressione, l’abuso di alcol, la conflittualità di coppia, la fine dell’amore, il vizio del gioco, lo stato di salute precario della vittima. Ecco, secondo chi scrive, le motivazioni alla base di atti estremamente violenti e di storie di maltrattamenti che, ci dicono i referti degli ospedali, si sono protratte per anni prima di sfogare in una brutalità intollerabile.
Chiedo: perché precisare queste condizioni? Perché si va a caccia di motivi? Perché la violenza di genere deve avere motivi per perdere tutta la sua cancrena? 
Se troviamo un motivo, la definiamo, circoscriviamo, riduciamo. Semplifichiamo. Edulcoriamo. Ed è sbagliato! Perché così continueremo a scusare queste persone, mentre le donne continueranno a stare accanto ai loro aguzzini, in agonia e fino all’ultimo respiro.
Quindi, per favore, basta con i veli pietosi sotto ai quali nascondere l'intenzione, basta con le giustificazioni. Non c'è nessuna giustificazione: sono persone malvage che non sanno amare (anche se sostengono il contrario), che non sanno o non vogliono gestire le loro frustrazioni.

02 febbraio 2016

L’utero in affitto è davvero un’aberrazione?

Da Libernazione.
Dopo giorni di discussioni, polemiche e diatribe sul numero di partecipanti al Family Day, almeno un risultato certo pare (purtroppo) acquisito: la pratica del cosiddetto “utero in affitto” viene condannata in modo ormai pressoché unanime, sia da parte di chi si straccia le vesti prevedendone un vertiginoso aumento a seguito del DDL Cirinnà (dove andremo a finire di questo passo, signoramia), sia da parte di chi nega il nesso causale, minimizza e si affretta a prendere le distanze (macché, quale utero in affitto, noi vogliamo soltanto regolamentare l’esistente).
La questione “gravidanza surrogata”, insomma, pare definitivamente chiusa con la rubricazione sommaria dell’argomento alla voce “barbarie”: senza, tuttavia, che se ne siano approfonditi i contorni come io credo sarebbe stato auspicabile.
Tanto per cominciare: è lecito chiedersi se portare avanti una gravidanza per conto terzi sia davvero, al di là delle possibili distorsioni legate allo “stato di necessità” o al “mercimonio di bambini”, un’aberrazione intollerabile in sé e per sé?
In altri termini, siamo sicuri che implementando delle regole grazie alle quali ci si possa assicurare che una donna decisa a “prestare” l’utero ad altri non sia spinta del bisogno, e si riesca a scongiurare l’eventualità che lo faccia a scopo meramente “commerciale”, il nostro punto di vista sulla questione sarebbe lo stesso?
La domanda, a ben guardare, è importante: perché segna il confine tra la condanna di una pratica in quanto tale e l’esigenza di regolamentare quella pratica in modo efficace per renderla accettabile; un po’ come succede, tanto per spingere il discorso un tantino più in là, con la donazione di organi, che è riconosciuta come un encomiabile atto di generosità qualora sia spontanea, e allo stesso tempo viene proibita nei casi in cui si configuri come una “vendita”, a maggior ragione se motivata dal fatto che il “cedente” versa in condizioni economiche precarie.
Sotto questa luce la questione diventa assai più complessa di come la si è dipinta nelle scorse settimane, e suscita interrogativi che prima o poi sarebbe il caso di esplorare compiutamente: portare avanti una gravidanza per mera “generosità”, fatto salvo un ragionevole “rimborso” per le spese sostenute, è davvero “moralmente inaccettabile”? E se sì, presupposta (e verificata) la capacità di intendere e volere di chi vi si determina e la sua libertà di scelta, perché mai?
Ecco, io a quest’ultima domanda, che poi mi pare quella cruciale, non riesco a trovare risposte plausibili.
Se qualcuno le avesse o ritenesse di averle, al di là dei pistolotti moralisti legati alla consueta proiezione delle proprie convinzioni su quelle degli altri, sarebbe gradito che le esprimesse.
In caso contrario sarebbe il caso di piantarla con le lamentazioni, e mettersi finalmente a ragionare sulle regole.
Altrimenti, come diceva Padre Pizzarro, stamo a parla’ de tutto e de gnente.