22 febbraio 2012

Morti di serie B

Francesco Messineo
Francesco Currò
Luca Valente
 
Ci si abitua a tutto, anche alla morte. Specialmente quando viene distillata a piccole dosi, derubricata a esercizio di contabilità, da registrare e poi mettere in archivio. Tre militari italiani deceduti a settembre per un incidente stradale, uno a gennaio per infarto.
Infine le ultime vittime, lunedì scorso nella provincia di Herat, tre caporalmaggiori che hanno fatto una fine orribile, annegati in un metro d'acqua, prigionieri di un blindato poco adatto ai terreni accidentati dell'Afghanistan.

Francesco Messineo
Non è certo il caso e l'intenzione di fare una classifica, nessuno può dare lezioni in materia. Ma il dramma dei nostri commilitoni, si chiamavano Francesco Currò, Francesco Messineo, Luca Valente, meritava maggiore condivisione. Certo, ci sono stati i messaggi istituzionali, i minuti di silenzio nei consigli regionali, e davanti all'irreparabile non è cosa semplice trovare la misura e le parole giuste.
Eppure, guardando al nutrito elenco dei soldati italiani
Francesco Currò
caduti in quella terra lontana dove si combatte una guerra a intensità neppure così bassa, e all'eco che ha avuto ognuna di queste tragedie, appare difficile negare l'esistenza di una divisione per classi. Come se ci fossero morti di prima categoria, quelli uccisi dalle bombe dei talebani, e altri meno degni di nota e del nostro cordoglio, solo perché vittime delle insidie di quel territorio.
Luca Valente
Forse questa implicita censura è legata a un generale stato di assuefazione alle pessime notizie che arrivano da Herat e dintorni. Alla voglia di distogliere lo sguardo da un bilancio e da un prezzo da pagare che diventa sempre più pesante. Ma il dolore delle famiglie, di chi resta solo dopo aver perso un padre, un marito, un fratello, quello è uguale, le conseguenze dei lutti non fanno distinzioni tra attentati e fatalità.
I tre caporalmaggiori che oggi rientrano in patria per l'ultimo saluto non sono diversi dai loro colleghi uccisi dai terroristi. Le leggi dei media non transigono, lo sappiamo: una raffica di mitra o una bomba contano più di uno schianto in auto. Ma per l'Afghanistan andrebbe fatta una eccezione. Come gli altri, quei soldati stavano lavorando per il loro Paese, quindi per noi tutti, nel peggior posto possibile. Meritano anch'essi la nostra riconoscenza, e le famiglie hanno diritto a un trattamento uguale a quello ricevuto dai militari vittime di una azione violenta.
Non è retorica, o almeno non vorrebbe esserlo. È qualcosa che invece riguarda da vicino la nostra umanità, la nostra eventuale voglia di non cedere al cinismo dilagante. Perché alla morte non ci si dovrebbe mai abituare, e prima di arrendersi, senza magari rendersene conto, bisognerebbe opporre qualche forma di resistenza. A cominciare dal ricordo di tre soldati italiani morti in Afghanistan per un incidente stradale. 

Marco Imarisio 

L'acchiappasogni.

La mia amica Maria Agnese ha postato su facebook un foto dell'acchiappasogni  e mi ha fatto ritornare in mente le leggende indiane legate a questo delizioso oggetto, un pò come le fiabe che mia madre mi raccontava per farmi addormentare.
Io ho un acchiappasogni che mi è stato regalato tanti anni fa da una persona che ora non c'è più e che mi voleva un gran bene. E' vero che il mio pragmatismo mi impedisce di credere a qualsiasi cosa che non sia ancorata alla realtà e spiegabile razionalmente, ma ho una particolare simpatia per la cultura dei nativi americani, per il loro modo di vedere il mondo e la natura che ci circonda (dovrei parlare al passato perchè ormai di loro resta ben poco, ma voglio ancora credere che la loro saggezza resti come testimonianza di una filosofia di vita che, se ci appartenesse, avremmo solo da guadagnarci).
Secondo gli antropologi il dream catcher fu costruito per la prima volta presso la tribù Ojibwa, o Chippewa e, con il tempo, si diffuse a tutta la popolazione Algonchina.
Molte sono le leggende che narrano la nascita di questo "magico talismano", ma quella che più mi affascina è quella che narra di una bambina "Nuvola Fresca", che un giorno, terrorizzata da incubi ricorrenti, in cui un uccello più nero della notte la divorava, rivelò alla madre "Ultimo Sospiro della Sera" le sue paure e le chiese aiuto.
La madre allora inventò una rete tonda per pescare i sogni nel lago della notte e le diede il potere di riconoscere i sogni buoni e quelli cattivi. Al centro del circolo intrecciato mise un sasso e intorno ad esso una goccia d'argento (il tempo lunare), un turchese (a significare desiderio) e un dente di animale forte (simbolo di protezione).
All'estremo inferiore della rete legò delle piume di uccelli.
Fatto ciò, "Ultimo Sospiro della Sera" appese l'oggetto sul lettino di "Nuvola Fresca"..."i sogni buoni resteranno dentro, i cattivi andranno via..." E così fu....
E dunque io mi tengo il mio acchiappasogni appeso sopra il letto, nonostante sia convinta che i sogni non abbiano nessuna attinenza con la realtà e che un semplice oggetto, pur se magistralmente e artisticamente elaborato, non abbia il potere di cambiare alcunchè.....però mi piace pensarlo lì, sopra i miei sogni....

La poesia dell'acchiappasogni.

Appeso alla finestra
l'acchiappasogni attende
di afferrare un sogno per me, possibilmente grande
Calmo, immobile, attende nella notte
di acchiappare un sogno che viaggia nell'aria
Di pelle è la rete, leggere le piume
ed immensa è la magia che emana
Mi porterà un amore, una storia lieta o una canzone?
Oppure degli incubi
dove tutto va per il verso sbagliato
Il tempo ora è giunto per me di dormire
e attendo un sogno, che sia bello e fortunato
Acchiappasogni, acchiappasogni
prudenza, ti prego
il mio cuore ora è calmo, la mia mente rilassata
Va' nella notte e trova ciò che vuoi
acchiappami un sogno,
che sia importante e tranquillo

15 febbraio 2012

Sapessi com'è strano sentirsi innamorati a Milano.....

Formigoni pensava di aver avuto un’ottima idea per festeggiare San Valentino e, nel contempo, accaparrarsi un po’ di simpatie che, diciamoci la verità, ultimamente sembravano emigrare in tutt’altra direzione. L’idea era quella di invitare tutti gli innamorati a festeggiare sotto il cielo di Milano nella nuova faraonica sede della Regione , forse cercando in questo modo di dare una parvenza di condivisione ad una struttura realizzata con 571,4 milioni di euro dei contribuenti. Ieri sera anche i comuni mortali, purché innamorati, hanno potuto sentire l’ebrezza della velocità di sette metri al secondo dell’ascensore che, in un batter d’ali, li ha portati al 39° piano  dove hanno potuto baciarsi ed esprimere eterna gratitudine ad un anfitrione di tale levatura.
Pare però che questa bomba di idea sia scoppiata nelle mani del nostro novello Einstein perché l’invito è stato accettato anche dall’ Arci Gay che ha risposto con entusiasmo e ha a sua volta invitato gli omosessuali a partecipare all’iniziativa, lanciando il KissinGay chez Formigonì. Certamente una provocazione questa dell’ Arci Gay ma Formigoni, invece di ignorarla ed essere coerente almeno con le camicie che indossa, ha cercato di mettere riparo a qualcosa che gli avrebbe attirato gli anatemi dei bigotti dai quali dipende. Pensando soprattutto a Giovanardi, ha avuto una specie di premonizione: non sia mai che il 39° piano di palazzo Lombardia diventi un orinatoio!! In ragione di tutto questo, ha pensato a qualcosa che ultimamente sembra essere à la page: un bel cambiamento di rotta (Schettino docet)! Prima ha risposto ai giornali che loro accoglieranno tutti, ma che: ”La festa di San Valentino si chiama così perché è in onore di San Valentino vescovo e martire, è quindi chiaro a che tipo di ispirazione noi ci rifacciamo” e poi è passato all’azione su Twitter specificando che non dovranno esserci manifestazioni di nessun tipo.
Manifestazioni? Ma di che parli Roberto? Hai invitato gli innamorati? E allora…..pedala!!

12 febbraio 2012

Ironizzando sulla "flessibilità".....

L'ostetrico sorride.
- Congratulazioni, suo figlio è il primo nato a tempo determinato del nostro ospedale!
La donna lo guarda, allarmata.
- Cosa significa?
- Questa mattina è entrata in vigore la riforma sulla flessibilità della vita. I media ne hanno parlato poco, perché monopolizzati dalle reazioni di sdegno e condanna per l'oltraggio subito dal capo dello Stato.
- Sì, lo so, un tizio distratto s'è seduto su una sedia dove c'era una rivista col presidente in copertina. Mi dica piuttosto cos'è questa riforma.
L'ostetrico assume un'espressione compunta.
- La crisi richiede sacrifici. Vivere a tempo indeterminato senza dimostrarsi produttivi è un privilegio che il paese non può più permettersi di concedere a tutti. Suo figlio è stato quindi assunto in vita con un contratto a termine di sei mesi.
La donna sgrana gli occhi.
- Ma che stronzate dice?
- Le ricordo che le proteste sono consentite solo se civili, pulite, allegre, e colorate - dice l'ostetrico, in tono di rimprovero - il termine ''stronzate'' è di chiaro stampo terroristico.
La donna scende dal letto, furibonda.
- Dov'è mio figlio?
- Signora, la esorto a tornare nell'alveo della legalità democratica - indica il letto - suo figlio è in buone mani. I sei mesi sono rinnovabili - aggiunge in tono più conciliante.
- Ah sì? E come cazzo farebbe un neonato a produrre guadagni?
- Le assicuro che ci sono vari modi...
La donna spinge via l'ostetrico, e si dirige alla porta. L'ostetrico estrae una pistola, e le spara alla schiena. La donna scivola a terra. L'ostetrico le si avvicina.
- Mi dispiace, ma per chi come me fa applicare la riforma, l'obbligo di giusta causa per l'omicidio è abolito.

10 febbraio 2012

La solitudine dell’uomo moderno è il frutto avvelenato del “progresso”

L’uomo moderno soffre di solitudine: di una solitudine demoralizzante, angosciosa, intollerabile, come il freddo atroce di un inverno che non finisce mai.
Eppure le città sono piene di traffico; le strade, i negozi e gli uffici sono invasi e percorsi da una folla che non rallenta mai, che non decresce; i palazzi sono pieni di appartamenti e gli appartamenti sono quasi tutti occupati, anzi si fa a gara per assicurarsene uno, per quanto caro, non appena si libera; le scuole, le università sono frequentate da legioni di studenti; cinema, ristoranti, palestre, biblioteche, ovunque bisogna prenotarsi col numero e mettersi in fila per entrare; i campi sportivi rigurgitano di folla; le autostrade sono intasate di veicoli che portano uomini e donne in tutte le direzioni, e innumerevoli altri si spostano continuamente in corriera, in treno, in aereo, in navi da crociera, da una città all’altra, da uno stato all’altro, da un continente all’altro.
E non si è mai soli; non ci si riesce proprio, neanche a volerlo, neanche a cerarlo, neanche a supplicarlo: folla al supermercato, folla in banca, folla in ospedale, folla all’ufficio postale, folla al bar, folla all’agenzia turistica, folla sui campi da sci, folla in albergo, folla in riva al lago, folla sui sentieri, folla sul vaporetto, folla al corso di danza, folla al concerto rock, folla in discoteca, folla alle oasi naturalistiche, folla al santuario, folla in confessionale, folla in casa di riposo, folla al call center, folla davanti alla toilette, folla alle lezioni di yoga, folla allo spaccio aziendale, folla all’ufficio anagrafe, folla alle assicurazioni, folla al bowling, folla al solarium, folla in sala d’attesa del medico o del dentista…
È un diluvio di folla, dovunque, in ogni momento del giorno e della notte, d’estate e d’inverno, in città e fuori, al mare e ai monti: pallida o abbronzata, stanca o scattante, di giovani e di vecchi, di indigeni e stranieri, di furbi e di fessi, di buoni e di cattivi; come dice Ortega y Gasset, in nessuna epoca della storia si è mai vista una tal quantità di folla in giro per il mondo; e non per qualche circostanza eccezionale, ma sempre, abitualmente, senza pause, senza rallentamenti.
Sono sempre più rari, sempre più precari i luoghi non ancora presi d’assalto dalla folla; vien da chiedersi dove mai fosse tutta questa folla, prima di rendesi così visibile: se ne stava in casa, se ne stava in fabbrica, se ne stava in chiesa, oppure dove?
E dire che ai tempi di Ortega gli abitanti della Terra superavano di poco il miliardo di persone; oggi siamo arrivati a sette miliardi, in meno d’un secolo, e la corsa non si ferma, non vuol saperne di fermarsi: forse dovremo davvero andare a colonizzare qualche altro corpo celeste, forse sarà la volta buona che incominceremo a popolare il fondo dei mari e degli oceani, come nei romanzi di Jules Verne; oppure verranno costruite delle grandi stazioni orbitanti nello spazio e la popolazione comincerà a disperdersi su di esse e sulle astronavi di collegamento, sugli incrociatori galattici, come nei telefilm di «Star Trek»…
Intanto, però, la solitudine aumenta, si fa sempre più acuta, è come un grido soffocato, silenzioso, che prorompe da migliaia, da milioni di petti di uomini e donne; una solitudine assurda, inspiegabile, grottesca, che attanaglia le persone in mezzo a delle folle strabocchevoli: come morir di sete non già nel deserto, ma in mezzo a una terra ubertosa e verdeggiante, solcata da fiumi e allietata da fontane e cascate.
Le città affollatissime, simili a deserti allucinati; i palazzi e i grattacieli, con decine e centinaia d’appartamenti, simili a spettrali torri popolate da fantasmi; gli autobus, i tram, i veicoli privati che sfrecciano nel buio della notte, simili a fuggevoli sprazzi di luce, che si perdono poi subito nel caos tentacolare, mentre subito degli altri sopraggiungono senza pose, senza pace, mai: si direbbe un brutto sogno…
Eppure si era meno soli quando si era di meno; quando si era meno numerosi, meno concentrati, meno affollati.
Non stiamo parlando di una solitudine fisica, evidentemente, ma di una solitudine psicologica, intellettuale, morale e spirituale.
Psicologica: perché ciascuno è talmente preso da se stesso, dai ritmi insostenibili della modernità, dai tristi riti del consumismo, da non riuscire più a comunicare con gli altri, nemmeno con la propria moglie o il proprio marito; nemmeno con i propri figli o con i propri genitori.
Intellettuale: perché ci sentiamo tutti come delle monadi senza porte e senza finestre e perché ce ne siamo convinti a forza di sentirlo dire e ripetere dai nostri mâitres à penser, dalla casta sacerdotale degli intellettuali, tutti d’accordo su questo punto, tutti impegnati a rigirare il coltello nella piaga di questo nostro disperante isolamento.
Morale: perché nella lotta per la vita, di darwiniana memoria, non c’è più posto per il tu, è già anche troppo stare dietro al proprio io, difendersi dalle innumerevoli minacce esterne: ciascuno pensa per sé e nessuno pensa a tutti quanti, dato che Dio, che forse ci pensava prima, ormai è morto, ucciso dalle nostre stesse mani.
Spirituale: perché la vita dell’anima si è congelata in se stessa, nella superbia intellettuale e nella delirante volontà di onnipotenza; sicché ciascuno si muove come nel vuoto, annaspa come se stesse precipitando, grida ma senza voce, solo muovendo la bocca; e nessuno lo sente.
Nessuno lo sente anche perché, nella società di massa, la folla domina incontrastata sull’individuo: una persona che si mette a gridare, attira l’attenzione di tutti; cento, mille, diecimila persone che gridano tutte insieme, inducono solo ciascun altro ad alzare il volume della voce.
È anche vero che la solitudine, di per sé, non costituisce necessariamente un male: può essere, anzi, un gran bene; può offrire l’occasione per concedersi una pausa in cui riflettere, in cui raccogliersi, in cui ritrovare se stessi.
L’uomo moderno la vede senz’altro come un male, perché ha perso la capacità di stare da solo, anche per periodi limitatissimi: bastano poche ore di solitudine per mandare in crisi molte persone, bastano pochi giorni senza la televisione (surrogato indispensabile di una compagnia umana) per piombare uomini e donne in una specie di terrore del vuoto, del silenzio.
Bisognerebbe perciò domandarsi da che cosa nasca questa paura abnorme, patologica, della solitudine; e se le vie che abbiamo intrapreso per esorcizzarla siano realmente quelle idonee allo scopo, o se non siano altro che dei vani palliativi per spostare il problema o per fare finta di non vederlo e doverlo, così, affrontare.
Esistono, dunque, una solitudine “buona” ed una solitudine “cattiva”: la prima ci aiuta a costruire noi stessi, a realizzarci, a ritrovarci se, talvolta, tendiamo ad allontanarci da noi stessi e a perderci nel gran mare degli impegni e dell’agire; la seconda ci sprofonda nella tristezza, nello scoramento, ci bocca, ci paralizza e ci irrigidisce, come una gelida mano ferrata che ci afferra nella sua stretta e sembra volerci spezzare.
Noi abbiamo disimparato l’importanza e l‘utilità della prima e abbiamo equiparato ogni forma di solitudine alla seconda, dichiarandole guerra senza quartiere, come ad un nemico pericolosissimo, così come abbiamo dichiarato guerra a tante altre cose: alla nostra parte più vera e profonda – che, appunto, ha bisogno di silenzio per rivelarsi e farsi udire -, alla natura, agli istinti (tutti, indiscriminatamente), ai sentimenti, al prossimo come nostro fratello, al sacro e alla trascendenza, a Dio come Padre, alla sofferenza (senza distinguere quella utile e necessaria da quella inutile e superflua), alla vecchiaia e alla morte.
È proprio l’aver dichiarato guerra alla natura, e quindi alla morte, in nome di una battaglia insensata che chiamiamo “progresso” e che fatalmente si ritorce contro noi medesimi, che ci ha resi così fragili e irragionevoli di fronte alla solitudine: perché la solitudine è necessaria per ascoltare la voce interiore, e la voce interiore ci ricorda che dobbiamo morire: non per gettarci nell’angoscia, ma per spronarci a vivere in maniera degna.
Ecco, allora, che abbiamo bisogno di stordirci in mezzo alla folla, in mezzo alle voci, in mezzo ai rumori, per negare la solitudine, per cancellarla dal nostro orizzonte esistenziale, dalla realtà concreta dalla nostra vita quotidiana: ma l’essere immersi nella folla non ci fa sentire meno soli, e il chiasso non ci aiuta a ritrovare le strade della vera comunicazione, solo vero antidoto – quest’ultimo – alla solitudine stessa.
I luoghi dove la folla cerca di esorcizzare l’angoscia della solitudine sono anche i più rumorosi e quelli che meno si prestano alla comunicazione e alla socializzazione: centri commerciali, discoteche, stadi; entrare al bar per fare quattro chiacchiere con un amico è divenuto problematico, se non impossibile, perché la musica a tutto volume rende difficile sia parlare che ascoltare; e, come se non bastasse la musica, da qualche anno ci si sono messi pure i giochi elettronici, le slot-machines per mangiare soldi ai clienti: così, la partita solitaria di una singola persona provoca un disturbo acustico e psicologico ad altre dieci, venti o trenta.
E non parliamo della televisione, che porta il rumore e il chiacchiericcio insulso fin dentro l’intimità delle nostre case, delle nostre stanze (perché in molte case vi sono diversi apparecchi televisivi, uno per ogni stanza, sì da poter continuare a drogarsi con essa in ogni momento, senza dover litigare con la moglie o con il fratello per la scelta del canale, anche stando a letto, prima di scivolare nel sonno) e ci isola dai nostri stessi congiunti; né abbiamo vergogna di stordirci con programmi televisivi che vorrebbero essere allegri e divertenti ma in cui, di allegro, c’è solamente il suono delle risate pre-registrate: tristezza nella tristezza, finzione nella finzione, squallore nello squallore.
Perché una cosa è certa: la folla non è il contrario della solitudine; non è la sua negazione, il suo rovesciamento; e meno ancora è lo strumento per fronteggiarla e per sconfiggerla: essa non ne è che la manifestazione estrema e più appariscente, l’ultimo stadio sulla via dell’alienazione che la solitudine stessa ha fatto penetrare in noi.
La folla è la quintessenza della solitudine, in quanto essa ha di più maligno, di più paralizzante, di più sordido; e questo proprio perché essa è la negazione radicale dell’autentica comunicazione, dell’autentico relazionarsi delle persone con se stesse e con l’altro.
La folla è sempre la manifestazione dell’inquietudine, dell’agitazione, delle esasperazione emotiva: una folla è capace di qualunque degradazione, di qualunque laidezza, di qualunque bestialità: il fatto di essere in tanti, in troppi, smorza e cancella il senso della responsabilità individuale, della ragionevolezza, della distinzione del bene e del male: non c’è follia, non c’è crimine che una folla non sia capace di compiere, qualora di presentino le circostanze adatte.
Ed eccoci tornati alla domanda che ci facevamo all’inizio: dov’era la folla, prima che l’avvento della società di massa la rendesse così visibile, così onnipresente, così invasiva?
Non era da nessuna parte: non c’era.
La folla si formava solo in circostanze particolari, ritualizzate dalla società: feste e spettacoli, sagre e cerimonie, scandendo e accompagnando i ritmi delle stagioni e della vita: il Natale e il carnevale, il santo patrono e le rogazioni, il battesimo e il funerale; ma non era una folla nel senso che intendiamo noi, perché ciascun individuo si rapportava agli altri e alla comunità, si completava in questa, rafforzava il proprio senso di appartenenza e, quindi, la propria identità; mentre la folla moderna è spersonalizzante, ognuno vi s’immerge per scomparirvi, omologarsi, travestirsi, mimetizzarsi, stordirsi ed annullarsi, cercando l’oblio.
La solitudine cattiva, dalla quale ci si deve difendere, è nella povertà e nell’inaridimento della nostra dimensione sociale; nel nostro cercare la folla per fuggire dagli altri, dal rapporto autentico con l’altro, che è sempre profondo e personale – oppure non è.
Il paradosso risiede nel fatto che, per comunicare realmente con l’altro, bisogna prima conoscere se stessi; e, per conoscere se stessi, bisogna essere se stessi, o meglio, diventare se stessi: e quindi saper amare la solitudine, saperla cercare e non fuggire; così come, per imparare a nuotare, bisogna cercare ed amare il contatto con l’acqua, non fuggirlo.
Ma come potrà l’uomo moderno, che è l’uomo della folla, imparare ad amare la propria solitudine, se è proprio ciò da cui fugge spasmodicamente, compulsivamente?
Egli deve spezzare un circolo vizioso: ma non potrà mai farlo, se non depone la paura della morte…

  
Fonte: Arianna Editrice
Ogni donna è diversa, ogni donna ha il battito del cuore differente, ogni donna ha un prezioso lato nascosto e misterioso, ogni donna è affascinante a suo modo, ma c’è una cosa che esigono allo stesso modo, il rispetto! 
(Ejay Ivan Lac)

04 febbraio 2012

Il silenzio degli uomini.

Il clamore della sentenza della Cassazione ha fatto danni e mietuto vittime un po’ ovunque sia nella disinformazione più totale che nella troppa informazione da abuso di cavilli burocratici.
Ieri era tutto un pullulare di notizie false e fuorvianti: buona parte dei media mainstream hanno purtroppo rilanciato la notizia che per il reato dello stupro di gruppo non si dovesse più andare in galera a cui è seguito il solito “vergogna, vergogna, buuu” da social network buttato un po’ lì, tanto a fare i leoni dietro un monitor siamo buoni tutti e del resto, se l’hanno scritto su faccialibro noi ci fidiamo ciecamente e lo diamo per scontato che è andata proprio così.
Ma quello che mi ha stupito di più sono gli espertoni di legge, quasi tutti di sesso maschile a dire il vero, che si sono prodigati in ampie e precise spiegazioni alle illetterate e ignoranti donzelle loro lettrici per cui la legge va applicata così e così e chissenefrega se voi siete laureate in giurisprudenza quanto noi, ve lo spieghiamo noi perchè siamo maschi e di queste cose ne sappiamo più di voi.
Io ora non voglio stare a recriminare sul comportamento di ognuno di questi personaggi dal leguleio facile ma vorrei renderli edotti che  
“s ì , a b b i a m o  c a p i t o”
Si tratta del carcere preventivo, o meglio dell’obbligatorietà del carcere preventivo, riservato solo ai presunti mafiosi e a chi stupra in gruppo invece no, trattasi non di associazione a delinquere ma di “delitti meramente individuali”, come ha sostenuto la Cassazione.
Infatti il branco non è affatto sorretto da un sistema come quello mafioso, non ci sono famiglie, amici, concittadini pronti a difendere gli accusati di violenza sessuale e a vessare la stuprata che un po’ puttana era se si è fatta violentare, diciamocelo. Le urla e le manifestazioni di questi difensori della virilità maschile davanti ai tribunali nei processi al “branco” in tutti questi anni ce le siamo inventate, perché si sa che noi siamo facilmente impressionabili e quelli lì, dai compagni di classe alle zie dei bruti erano solo ectoplasmi, proiezioni di sostenitori degli stupratori come si vede anche da questo video, mentre continuano a sostenere un sistema d’appoggio agli stronzi nonostante confessioni e condanne.
Ma d’altra parte come si può essere a favore del carcere, basta dire “no carcere” e si è tutti libertari, si è tutti superalternatttivi e molto ganzi. Di carcerazione preventiva manco a parlarne ovviamente tra ipergarantisti, si tira sempre fuori l’argomento di quel “più di un terzo” in carcere in attesa di processo. Tutti stupratori forse quelli che stanno in carcere? Niente affatto: buona parte sono clandestini, spacciatori, ladruncoli, militanti, tutta gente pericolosissima che come si può immaginare non possono assolutamente fare a meno delle sbarre.
E le vittime? Che vittime? Eh no, quelle ce le siamo scordate, del resto i domiciliari vanno benissimo come preventiva, fa nulla se una gran parte delle violenze e degli omicidi sulle donne viene compiuta mentre si è ai domiciliari e nonostante l’obbligo di stare lontani dalla vittima e dalla sua famiglia. Del resto lo si sa ancora in pochi nella lunga decennale esperienza di chi opera nei centri antiviolenza che la primissima cosa da fare è mettere distanza tra la persona che subisce e il suo aguzzino.
Ma, visto che gli uomini (non tutti per fortuna) sembrano davvero grandi esperti di leggi e sono molto garantisti con i presunti stupratori ma non con le vittime vorrei ricordare io, da donna, qualcosina anche a loro. Dal basso della mia ignoranza, dal fondo della mia incompetenza vi dico che lo stupro è un problema vostro. Lo so, potrebbe apparire brutale questa verità scritta così nero su bianco è qualcuno avrà fatto un salto sulla sedia leggendola (“Maddai, ma che daverooo?”) ma la violenza sessuale è sessuata, la violenza sessuale è MASCHILE.
Lo stupro non è un atto compiuto dalle donne e questo silenzio degli uomini che non disconoscono la violenza e i violentatori come un sozzo bubbone che infetta il loro genere sta diventando assordante. Ogni volta che stuprano una donna ci sono sorelle, compagne, ma non vediamo manifestazioni di uomini che si dissociano dalla violenza e dalla cultura dello stupro; ne abbiamo visti tanti dissociarsi da tante altre cose, protestare con forza per i loro diritti, manifestare contro una parte politica, per un mondo diverso. Ma per la violenza del loro genere mai e poi mai.
E allora ve lo chiedo io, signori miei: invece di stare a leggiucchiare gli articoli dei legulei scuotendo la testa in cenno d’assenso per assomigliare a tutti gli altri, invece di fare i libertari e i “contro” senza alcun motivo, quando scenderete in piazza per urlare finalmente NO ALLA VIOLENZA SULLE DONNE?

Farlo in gruppo è un'attenuante? Dipende....

Lo stupro di gruppo è un atto particolarmente odioso, che moltiplica la violenza subita dalla donna che ne è vittima. La moltiplica materialmente, aggravando il danno fisico, psicologico, emotivo che infligge. Lo stupro viola l´intimità della donna, il suo senso di integrità e di controllo su di sé.
Quando è più di uno a compierlo l´esperienza di perdita di sé diventa estrema.
Lo stupro di gruppo esplicita anche, enfatizzandola, l´oggettivazione della vittima e del suo corpo, reso puro oggetto delle pulsioni dello stupratore e insieme trofeo di gruppo, documentazione reciproca del proprio potere di maschi, strumento di consolidamento del rapporto di gruppo. Infine, è un atto ancora più vigliacco dello stupro individuale, dato che i singoli usano la forza del gruppo per sopraffare la loro vittima.
È difficile comprendere come la Corte di Cassazione abbia potuto equiparare lo stupro di gruppo allo stupro individuale, con l´argomento che il primo «presenta caratteristiche essenziali non difformi» dal secondo.
Come se si trattasse di tanti atti individuali senza collegamento tra loro, ignorando proprio il contenuto di gruppo dell´atto e le sue conseguenze per la vittima. Eppure, per altri reati, l´essersi organizzati con altri per compierli è un´aggravante che in qualche modo cambia il tipo di reato.
Se il farlo in gruppo è un´aggravante quando si distruggono cose e si aggrediscono (non sessualmente) persone, o si partecipa a forme di protesta non autorizzate, perché se si stupra una donna invece diviene irrilevante?
Perché uno stupro è solo uno stupro, a prescindere che a compierlo sia uno solo, due o, perché no, cinquanta, dato che l´atto materiale è compiuto sempre da uno per volta? Si può discutere di carcerazione preventiva e di forme di custodia cautelare alternative. Ma in questione qui è l´equiparazione di due reati, gravissimi entrambi ma non identici né nelle motivazioni né nelle conseguenze, dal punto di vista della vittima, ma anche di chi li compie.
La pronuncia della Corte riguarda solo le misure di custodia cautelari. Ma non è difficile ipotizzare che gli avvocati difensori degli stupratori la utilizzeranno in sede di giudizio, per alleggerire la posizione dei loro clienti.
Non è la prima volta, purtroppo, che la terza sezione della Corte di Cassazione sottovaluta la violenza sulle donne. Rimane indimenticabile la sentenza del 1999 che dichiarò l´insussistenza dello stupro, perché incompatibile con il fatto che la vittima indossava i jeans. Anche se successivamente, in un altro caso, la stessa Corte corresse il tiro, probabilmente resa più avvertita dalle proteste seguite a quella ridicola sentenza.

Il fatto che ripetutamente incorra in questo tipo di infortuni valutativi induce al sospetto che molti giudici della Corte non considerino poi così grave lo stupro, individuale o di gruppo che sia, e siano disposti a concedere molte attenuanti agli stupratori.


Chiara Saraceno La Repubblica del 03/02/2012

03 febbraio 2012

Non importa se ti hanno stuprata.










Non importa se ti hanno stuprata,
se ti hanno  rotta,
se ti hanno violentata,
se ti hanno lacerato l’utero,
se ti hanno fatto male,
se ti hanno rovinato per sempre,
se ti hanno offeso nell’anima,
se ti hanno fatto sanguinare,
se hanno violato il tuo intimo,
se hanno compromesso la tua vita sessuale per sempre,
se ti hanno tolto la dignità,
se ti hanno sottoposta a sevizie,
se ti hanno rovinata per la vita,
se hanno sconvolto il tuo presente,
se ti hanno picchiata,
se ti hanno uccisa, ma respiri ancora.
Non importa.  Sei una donna. Vali meno di niente.

Erano un branco,  ma non è grave per i colpevoli,  possono starsene a casa, ai domiciliari, al calduccio, coccolati da mamma e papà, in attesa di un carcere che non arriverà mai, mentre tu soffri e soffrirai sempre per quello che ti hanno fatto.
Non importa. Sei una donna. Vali meno di niente.
Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione oggi, 2 febbraio 2012. Un mucchio di vecchi che non sa niente della donna, della sua sofferenza quando viene stuprata per di più da un gruppo intero di maschi violenti!
Un’offesa intollerabile, un ritorno a considerare lo stupro solo un’offesa e non un reato grave contro la persona.

Fonte

01 febbraio 2012

Tragedia e commedia si sovrappongono

Le notizie della giornata di oggi  che sono state  date come sensazionali sono due : l’aumento della disoccupazione e l’intervento del Presidente della  Repubblica  sul debito pubblico.
Che la disoccupazione fosse in aumento lo sapevamo senza bisogno di attendere il comunicato ufficiale ISTAT: se tutti i giorni  le fabbriche private chiudono o delocalizzano e buttano migliaia di lavoratori sul lastrico, se le aziende pubbliche fanno altrettanto, e se nessuno assume, non ci vuole tanto a calcolare di quanto possano aumentare i disoccupati, al netto di quelli che si suicidano, spesso seguiti da qualche datore di lavoro particolarmente sensibile, che preferisce la morte  all’onta di chiudere la propria fabbrichetta  e mettere sul lastrico i propri dipendenti. 
Quindi niente di sensazionale, ma ordinaria storia drammatica di tutti i giorni.
Le dichiarazioni di Napolitano sul debito sono apparse addirittura commoventi, quando ha affermato che non possiamo lasciare ai figli e alle nuove generazioni un debito così enorme.
E allora chi lo paga questo enorme debito fuori controllo e fuori da ogni logica, destinato a galoppare ulteriormente per via dei tassi di interesse a oltre il  6% ai quali vengono collocati attualmente i titoli? 
L’esercito dei  disoccupati o i cassintegrati? Forse i precari?  I taxisti o i benzinai ? O, infine, le famiglie che dopo la raffica di aumenti  su autostrade, benzina, gasolio, Iva, trasporti, e un’altra miriade di piccole tasse e balzelli, non riescono più a fare la spesa? A meno che non si speri che un contributo consistente possa arrivare dalle zone più povere e degradate del Paese, guidate dai forconi e dai camionisti messisi in moto.
Il Ministro del Lavoro ha dichiarato oggi che la sua preoccupazione maggiore è l’occupazione, mentre pensa di rendere i rapporti più fluidi ed elastici di quanto già non lo siano e rendere più facili i licenziamenti.
Certo che questo è un paese sconcertante! Mentre quotidianamente si consumano drammi veri e servirebbero risorse e fondi per arginare l’ulteriore crescita del debito pubblico  e sostenere crescita ed occupazione, tutta la classe politica, tecnica e la dirigenza nel suo complesso sembrano recitare una cinica  e sinistra commedia, sovrapponendola alla tragedia che si consuma nel Paese. Loro fanno finta di non sapere niente, di non accorgersi di niente, salvo che non arrivino i dati ufficiali dell’Istat e qualche telegiornale che  ogni tanto li rimbalza. Fanno finta di non sapere niente nemmeno della beffa che giocano sulle nostre spalle le banche italiane ed europee. La BEI (banca europea per gli investimenti) finanzia le Banche ordinarie al tasso dell’1%, queste non concedono più credito a famiglie ed imprese trovando molto più comodo, tranquillo e conveniente acquistare i titoli del Debito italiano in emissione a tassi del 6%, lucrando un comodissimo spread del 5% semplicemente muovendo qualche tasto del computer. Sono tutti contenti e soddisfatti, compreso il governo italiano, dal momento che questo perverso giochino consente di collocare i titoli senza correre il  rischio dell’inevaso.
E’ impossibile che una mente come Monti non sappia che oltre ai tassisti, ai benzinai, ai precari e alle famiglie in crisi debbano contribuire in proporzione anche le famiglie super ricche che, pur rappresentando il 10% sul totale, possiedono il 50% della ricchezza, cioè di sola ricchezza finanziaria un importo quasi pari al debito pubblico. Se poi vi si include anche quella immobiliare l’importo diventa più che doppio rispetto al debito. 
Vorrei fare una domanda molto ingenua : secondo il nostro Premier e il nostro Presidente chi compie un sacrificio maggiore? Una normale famiglia con uno stipendio dai 1500 ai 2000 € che a seguito della raffica di aumenti paga un tributo annuo di 3-400 € oppure un grosso possidente che con un patrimonio di 10 milioni, con un’aliquota del 5%, pagherebbe, una tantum, un importo di 500.000 € o ancora un possidente che, con un patrimonio di 1.000.000,  pagherebbe, con una aliquota del 2%, 20.000 €, o con l’aliquota all’1%, 10.000?

Oltre alla sobrietà , all’equità e all’etica, c'è un preciso dovere costituzionale: l’art. 53! Che recita così: 
tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

Che vogliamo fare? 

Francesco Calvano