31 luglio 2012

 

VIRTUALITA'   E ... PIACERE


Dicevo, qualche mese fa, che la virtualità è un mondo parallelo e irreale, ma che può essere vero. Affermazione apparentemente ambigua ma … realistica. E' determinante saperlo, e crederlo, per chi vuole immergersi, come “persona”, e non solo come “nich name”, in quell'immenso spazio che è il mondo virtuale. Si può, come individuo e come soggetto razionale, trovare in quello spazio, le “verità”: quelle degli altri. Le verità degli altri non sono sempre combacianti con le nostre, ma non per questo sono meno... vere! Per questo dico che c'è la verità nella rete, basta trovarla: è quella che ci piace credere. Non importa quanto sia reale, buona per tutti; qui, in questo mondo parallelo... non ha nessuna importanza, è importante che sia vera per noi! Questo stato di cose, non è sostenibile nel mondo reale, dove, se non abbiamo corrispondenze, e coerenze reciproche, con il prossimo, non potremmo agire, fare, creare: vivere assieme agli altri. La socialità dei corpi richiede una conoscenza specifica di cosa pensa e di come è il mio prossimo. Non potremmo mai fare gioco di squadra senza essere certi che il vicino farà quello che ha promesso di fare. E anche con l'amante, se voglio conviverci, è necessario conoscerne la verità reale, per gli stessi motivi pratici del gioco di squadra. Tutto questo nel virtuale non serve. Non serve perché è irreale. Non ci sono problemi materiali da superare: due persone possono “convivere”, se si piacciono per un qualsiasi motivo, anche se pensano, o credono, in modi assolutamente diversi... anche dicendosi verità totalmente false. E' la magia della favola. Il mondo virtuale è una fantasia e come tale può essere perfetto, perché dipende da chi lo immagina, dalle capacità creative di chi vive in quel momento, in quella dimensione, totalmente fuori da ogni realtà. A cosa serve? A provare il piacere dell'impossibile. Nel mondo parallelo e inesistente, ma vivibile dal nostro cervello, dalle nostre capacità creative, in quel mondo, la “felicità” è possibile. Come nelle favole appunto, o nella poesia, o nel romanzesco, o anche nella potenzialità della nostra corteccia prefrontale, la parte del nostro cervello dove risiedono le capacità “cognitive” o comunque le doti necessarie per “pensare”. Possiamo pensarle le cose impossibili da fare! E se le pensiamo in due, se le condividiamo con uno, o anche più, nostri simili... il miracolo succede: possiamo vivere il “piacere” . I sentimenti nascono da dentro, dal nostro sentire, dal nostro pensare. Anche se la percezione visiva, e tutti gli altri sensi, sembrano decisivi, per sapere se ci piace una persona...  in realtà è l'elaborazione intima di quei segnali, è la nostra necessità, o volontà o desiderio, che ci fanno innamorare di quella persona e non di un'altra. Desiderio, necessità di un'amante, non dipendono da ciò che vediamo o ascoltiamo, cominciano prima i nostri “bisogni” biochimici cellulari, dopodiché ci rendiamo conto del nascere di un desiderio, un desiderio che cercheremo di esaudire nel miglior modo possibile. In questo mondo favoloso tutto ciò è più semplice che nel mondo della realtà oggettiva. Qualcuno dice subito, ma è insufficiente! La corporeità del piacere è indiscutibile, ma nessuno dice che sia ... l'unico. Il piacere di ascoltare musica, di leggere, di guardare un paesaggio... non dipendono dalle sensazioni fisiche del corpo. Leggendo un po' di ciò che si comincia a sapere del cervello umano...le cose non sono sempre così come sembrano. In ogni caso tutti sappiamo che il piacere ha un'infinità di sfumature, dunque quale che sia il valore oggettivo, sempre un piacere è, ed è altrettanto ovvio, che, come nella realtà, c'è chi sa godere di più o di meno, anche a fronte dello stesso stimolo: c'è chi impazzisce di guai e chi nemmeno fa una grinza, per lo stesso stimolo ricevuto. Sì, nel mondo della favola, la felicità è disponibile... per chi la sa cercare e per chi la vuole vivere. Poi è ovvio: saltare dal virtuale al reale... basta un click, se si vuole, si può provare, ma finirà male, quasi sempre, come nella realtà appunto. Ma ne riparleremo....

28 luglio 2012

Il prezzo da pagare.

La vicenda dell’ILVA di Taranto è sintomatico di come si trattano e si giunge alle soluzioni "inevitabili". Si lascia prima che si incancrenisca il problema, nel silenzio e nell’apatia più assoluta. Nessuno ascolta, nessuno evidenza gli appelli accorati, le urla disperate, i morti, le disgrazie, le tragedie. Al massimo una alzata di spalle ai lamenti, o un grido di "Comunisti! ", o per argomenti anche di natura ecologica l’accusa "siete i soliti ecologisti che dite di no a tutto!" Chi conduce la battaglia: quella che si definisce da quasi quarant’anni la "sinistra", poi "Centro sinistra", poi "democratici". Si lascia che i problemi si incancreniscano, fino a diventare essi stessi una cancrena. E poi, pronta la soluzione. La soluzione diventa inevitabile: non c’è altra soluzione. Il risanamento costerebbe più della chiusura, conti alla mano. Oppure laddove non interviene la politica si lascia che intervenga la Magistratura e il caso diventa un caso di legalità . Nasce l’emergenza ed allora la soluzione non può che essere una ed una sola.
Il caso Ilva, un caso simile nella strategia.
L’inquinamento di questa fabbrica risale fin dai tempi della sua nascita. Ma era la soluzione alla povertà. Il modello di sviluppo richiedeva il sacrificio della natura. Passare dai contadini all’operaio siderurgico. Senza nessuna mediazione, senza nessun compromesso. Tutto e subito.
Fin da quando era fabbrica di Stato si produceva diossina, inquinamento atmosferico. I tumori, e le malattie polmonari erano all’apice nelle statistiche nazionali. Ma tutto era dovuto.

Era il prezzo da pagare per l’industrializzazione.

Al massimo si alzò qualche barriera ecologica, qualche albero ai confini della fabbrica , che in pochi anni divennero striminziti, ingialliti.... morivano dopo pochi anni. Tutto intorno il silenzio e il fumo.

Ma era il prezzo che si doveva pagare per il progresso.

Le urla, le grida divennero più alte, Le invocazioni di aiuto, le proteste per quella fabbrica che oltre a produrre ricchezza produceva morte erano inascoltate con una alzata di spalle.

Era il prezzo da pagare per lo sviluppo.

Poi arrivò il privato. Il padron Riva che oltre all’inquinamento produsse anche l’alterigia del padrone privato. Fuori anche quell’embrione di sindacato, quella simulazione di organizzazione dei lavoratori. La dignità e l’umanità dovevano varcare il cancello della fabbrica. Oltre all’acciaio si produceva la Palazzina Laf e l’inquinamento. Diossina e PCB. Gamlen e fanghi da scaricare in mare. Diossina e fumi di polvere di carbone da scaricare in aria.

Era il prezzo per il nuovo modello di sviluppo.

La politica, sopratutto quella locale, dietro quelle migliaia di morti, dietro quelle centinaia di casi di tumore che non potevano più essere causate solo dal fumo delle sigarette o dall’ereditarietà, come ci avevano detto per tanti anni. Ed allora ha tentato di emettere qualche vagito, qualche flebile lamento subito però silenziato dall’interesse della produzione, del profitto. I controlli ambientali si, ma precedute da avvisi del prossimo controllo!

Era il prezzo da pagare per uscire dalla crisi.

Ora è intervenuta la magistratura. Ha fatto diventare l’ILVA un caso nazionale, ma lo si affronta ancora come una guerra fra poveri. La Salute contro il lavoro. O si muore per i tumori o si muore per fame. O si muore subito o lentamente per inedia.
Si è lasciato che il problema si ingigantisca, che vengano eliminate tutti le soluzioni. Di fronte all’emergenza ci si trova davanti ad un bivio. 

La guerra è guerra fra poveri.

Fonte

25 luglio 2012

A A A. Cercasi rivoluzionario disperatamente.


Eh sì, perché di questo ha bisogno l’Italia, e anche l’Europa intera, il mondo intero! Attenzione, non sto parlando di guerriglieri o bombaroli:  servirebbe un leader (o una leader, perché no?), o anche più di uno che è meglio, rivoluzionario nel pensiero e soprattutto nell’azione politica ed economica. Qualcuno capace di dare un calcio a tutto quanto e ricominciare dalle fondamenta. Sì, perché mi sa che i problemi ormai siano un po’ troppi e di non facile soluzione per sperare di metterci una pezza.
Vogliamo ricordarne qualcuno? Vogliamo parlare di partiti  che stanno cercando disperatamente di rimanere a galla arrampicandosi sullo specchio dell’ennesimo cambiamento di legge elettorale su cui nemmeno riescono a mettersi d’accordo? Vogliamo parlare di una sinistra che ormai non sa più che definizione darsi? Moderna, liberale, cattolica, radicale, liberista, e i cui componenti farlocchi hanno da tempo trovato il modo di uniformarsi comodamente al resto della truppa accampandosi nel miglior albergo nazionale che serve lauti stipendi e regali privilegi a colazione, pranzo e cena? Vogliamo parlare di un miliardario imbalsamato che vuole riprovare a mandare tutti a puttane perché dice di amare questo paese? O di uno speculatore svizzero-canadese che vuole smobilitare la più grande fabbrica italiana e ha come obiettivo il ritorno allo schiavismo? Vogliamo parlare di quella legge di cui tv e giornali benevoli non parlano per non spaventarci che prevede che in vent’anni si debba abbattere il debito fino al 60% del Pil? O delle politiche recessive a go go? O della corruzione?
Visto quanti argomenti ci sono anche solo nel nostro orto?
E quante ricette vengono proposte? Tante!!! Ognuno ha la sua, certa, assolutamente necessaria! Tutte improntate al cambiamento, ovviamente! Perché è questo che serve! Lo stesso cambiamento che viene proposto da sempre e che altro non ha prodotto che la situazione che stiamo vivendo: un paese tenuto nell’ignoranza, in ostaggio, ricattato, imbavagliato, dove non si decide per se stessi nemmeno in procinto di morte. Dove si muore su quel niente di lavoro che c’è e per quello che non c’è più. Dove le case vengono tolte per debiti di poche migliaia di euro. Dove la sovranità nazionale non si sa nemmeno cosa sia perché sono gli Usa, la Nato, il Vaticano, le Banche, le Mafie a decidere. Dove non esiste nemmeno la parvenza della libera informazione, dove vige censura e omertà. Dove vivere fa paura perché c’è il più alto tasso di criminalità d’Europa.
Un paese insomma dove c’è tanto da cambiare e dove c’è sempre il profeta di turno che promette il miracolo, ma dove manca ciò che servirebbe veramente: qualcuno capace di ribaltare davvero tutto quanto! In grado di dire con chiarezza che cosa ci aspetta e come si potrebbe provare a uscire dal tunnel, invece di prolungare l’agonia di un Paese cancellando i diritti, prosciugando i risparmi delle famiglie, azzerando lo stato sociale, cedendo la sovranità nazionale e svendendo a pezzi il patrimonio pubblico. Senza peraltro lasciar intravedere neppure una speranza di sviluppo e di ripartenza.
Basterebbe arrivasse un esempio concreto, qualcuno che avesse il coraggio di gridare che “il re è nudo” e desse un calcio alla prima tessera; con la speranza di far venire giù tutto il percorso del domino. E che naturalmente riuscisse ad avere un seguito popolare sufficiente a imprimere la svolta in modo democratico e possibilmente pacifico, anche se le rivoluzioni non sempre sono del tutto incruente. 
Il problema è che all’orizzonte si vedono solo mezze figure: senza idee, senza sogni, senza coraggio.
E per trovare un leader, purtroppo, non si può mettere un annuncio sul giornale, organizzare un reality o pubblicare un appello su internet.

22 luglio 2012

“Sono un ladruncolo, un gran falsario, un depresso forsennato, fiero, maldestro e violento” (Serge Gainsbourg)

Qualcuno ricorda questa canzone? Serge Gainsbourg  e Jane Birkin fecero scandalo all’epoca, si parla del ’68. Vennero censurati e il disco fu addirittura sequestrato e distrutto! La canzone fu infatti una delle prime a trattare il tema dell'erotismo in modo così esplicito, con i suoi sospiri e le sue parole, che descrivono l’atto sessuale tra un uomo e una donna, e che, con passaggi come “Je vais et je viens entre tes reins”, lascia poco all'immaginazione. 
Ma non è di questo che voglio parlare, la canzone serve solo per evidenziare il personaggio, Serge Gainsbourg, che molti conoscono solo per questa canzone.
Gainsbourg nasce a Parigi nel 1928, e muore nel 1991, eroso dall’alcol e dagli abusi. E’ un musicista, un compositore, un uomo disperato, un autolesionista, è libero da schemi di ogni sorta, è un artista maledetto, un grande seduttore. E’ il ritratto del genio ribelle, del viveur dalla barba lunga che passa le notti a bere pastis 102 e la mattina a comporre capolavori indiscussi. In un programma francese di fine anni 80, in prima serata, lui era l’ospite di punta, e arrivò sul palco ubriaco fradicio. Il presentatore, che poteva essere il nostro Pippo Baudo, non sapeva come gestirlo: lui alternava sigarette Gitanes a Gouloises, rigorosamente senza filtro. E diceva tutto quello che gli passava per la testa. Poi, cantava. E quando cantava, incantava chiunque. Le sue canzoni ricordano i versi dei poeti maledetti, quei cantori che, come Baudelaire e Verlaine, hanno saputo radiografare il disagio e la trasformazione di una società malata e contraddittoria. Accostare le atmosfere dei “Fiori del male” baudelairiani a quelle del canzoniere di Serge (più di trecento canzoni tra edite e inedite) non è azzardato. Anzi, è ancora una volta una dimostrazione che le contraddizioni, il dolore e la ricerca dell’essere viaggiano sul filo della memoria. Nelle composizioni del cantautore francese i registri cambiano: la solitudine del “Poinçonneur des Lilas”, l’amplesso della scandalosa “Je t’aime…moi non plus”, gli amori morti della “Chanson de Prevert”, la libertà attraverso la morte di “Bonnie et Clyde” o il legame tra padre e figlia di “Lemon incest” sono alcuni tasselli che completano l’opera vasta di artista che ha saputo esprimersi anche con la pittura e dietro la macchina da presa. Nel 78 in Jamaica compose, insieme a Peter Tosch, una versione reggae della Marsigliese, e fece nascere un putiferio colossale in Francia. Per questo, nel suo paese, il suo personaggio è vivo più che mai, e divide ancora oggi l’opinione pubblica. Gainsbourg, restando fuori dalla mischia, ha un canzoniere che con il tempo è diventato impeccabile osservatorio di un’epoca e del clima di una società davanti alla quale lui si è sempre posto con il solito atteggiamento di strafottenza. “Sono un ladruncolo, un gran falsario, un depresso forsennato, fiero, maldestro e violento”, è l’epigrafe di trent’anni di splendida carriera.
Tutto questo per dire che in questi giorni, in alcuni cinema estivi sparsi per l’Italia, stanno proiettando un film, una chicca per amanti della musica d’autore, e del cinema poco convenzionale: “Gainsbourg” di Joann Sfar, dal sottotitolo eloquente, “la vita eroica ".
Spero che arrivi anche qui da me, non lo perderò sicuramente…

16 luglio 2012

Il ministro della paura.

Uno spettacolo teatrale di Antonio Albanese di qualche anno fa, ovviamente rimosso velocemente dai palinsesti televisivi.



 Io sono il Ministro della Paura e come ben sapete senza la paura non si vive.
Senza la paura della fame e della sete, non si vive.
Senza la paura della famiglia e della scuola, non si vive.
Senza la paura di Dio e della Sua barba bianca, non si vive.
Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Per questo io ci sarò sempre, nel mio ufficio bianco, con la mia scrivania bianca, di fronte al mio poster bianco.
Ci sarò sempre con i miei attrezzi da lavoro, con la mia pulsantiera. Pulsante giallo, pulsante arancione, pulsante rosso. Rispettivamente poca paura, molta paura, paurissima.
E seguendo correttamente questo stato d’animo io aiuto il mondo a mantenere ordine.
Vedete, senza di me le guerre scoppierebbero inutilmente, le epidemie non avrebbero senso, le bombe esploderebbero senza alcun vantaggio sociale.
Io trasformo la paura in ordine e l’ordine è il cardine di ogni società rispettabile.   ------------------------------------------------------------------------ 
Passano i governi, ma la politica della paura permane, così come i suoi registi; varia soltanto la psicosi del momento: sicurezza, terrorismo, immigrazione… e più appare incerta e indeterminata e maggiore è il suo potere di suggestione.
Ora, temporaneamente accantonate le fobie securitarie e razziste, prevale la paura imbevuta di crisi generale, depressione economica e incertezza per il futuro.
Infatti, dopo tanti investimenti di risorse, promesse e speranze nel domani, risulta insopportabile non sapere e non vedere oltre un presente di sopravvivenza: “vivere contro un muro è la vita dei cani”.
In breve tempo, la percentuale di chi non ha si è allargata investendo anche settori sociali che fino a l’altro ieri si ritenevano fuori e sopra la realtà miserabile dei salariati e dei senza reddito; così anche molti di coloro che fidavano nelle possibilità di affermarsi ed emergere, per merito o per posizione economica acquisita, scoprono loro malgrado un’imprevista discesa verso la proletarizzazione.
In molte passate situazioni l’umanità si era trovata davanti ad un avvenire materialmente blindato e senza spiragli, ma era riuscita comunque a affrontarlo gridando la propria rivolta e prendendo in mano l’iniziativa per strappare libertà e migliori condizioni di vita. Adesso, al contrario, dopo decenni di abulia di massa, ci si rende conto che tra le elite al potere non c’è nessuno disposto ad ascoltare, compatire, concedere, contrattare e neppure tollerare, perché quando i  margini di profitto si assottigliano, diminuiscono anche i livelli della cosiddetta convivenza civile.
Si diffonde così la paura perché crolla la fiducia nella persuasione o nella concertazione: è l’avvertire il vuoto nel sostenere le proprie ragioni, nell’avanzare i propri diritti, nel rivendicare i propri bisogni; la non-risposta è sempre uguale: stiamo dentro un crisi complessa e misteriosa e chi avanza pretese contribuisce ad aggravarla non solo per sé ma anche contro gli altri.
Questa paura ha in se pure potenzialità corrosive ed esplosive e chi detiene il potere è ben conscio a quali rischi si va incontro quando viene meno il “contratto sociale”. Sa benissimo che chi oggi cerca una via d’uscita nell’autodistruzione, domani potrebbe scegliere di mettere in gioco la propria vita per distruggere il sistema che lo sfrutta e l’opprime: chi teme per il domani e non ha più niente da perdere è infatti una mina innescata.
Così, il ceto politico e i suoi affiliati cercano di scongiurarne la detonazione, declinando tale paura in spavento per l’ignoto rappresentato da una società senza più governo né padroni.
Ecco perché, oltre ai poliziotti antisommossa, vengono mobilitati sociologi ed esperti della comunicazione per dare un “senso” e un indirizzo alla paura dilagante, anche per arginarne i primi effetti collaterali quali la contrazione dei consumi e la crescita esponenziale dell’astensionismo.
Significativi in merito due recenti interventi sulla stampa: quello di Giuseppe Roma, direttore del Censis, e quello del costituzionalista Andrea Manzella. Il primo ha sottolineato come “se si percepisce una crisi, tendenzialmente si compra meno, generando in tal modo altra crisi” e quindi l’urgenza di “creare speranza di cambiamento (…) se si vuole che la gente abbia fiducia nel futuro”; mentre il secondo ha avvertito che “la crisi istituzionale da evitare è quella prevista per le prossime elezioni politiche. E’ la crisi dello sciopero elettorale”.
Ecco perché, si preferisce persino dare spazio e visibilità alla tanto deprecata “antipolitica” per offrire delle valvole di sfogo nelle urne: piuttosto che un rifiuto generalizzato della politica delegata si fa buon viso pure al partito a cinque stelle o alle liste pseudo-alternative a livello locale.
Infatti se è vero che ancora “la maggior parte della gente vive da sonnambula, divisa tra il timore e il desiderio di svegliarsi, intrappolata tra lo stato nevrotico e il trauma di un ritorno al vissuto”, è altrettanto evidente che su tale limite l’equilibrio è ogni giorno più precario. CFG (Ringraziando Antonio Albanese, Albert Camus e Raoul Vaneigem)

Devastazione e saccheggio: lo Stato lo fa continuamente.


Una settimana dopo la sentenza Diaz la Corte di Cassazione si è pronunciata anche sui 10 manifestanti  accusati di violenze di piazza nelle giornate di scontri del 20 e del 21 luglio 2001. Due persone sono state condannate fino a 15 anni di carcere. Tre hanno ricevuto riduzione nelle loro pluriennali pene detentive da nove mesi fino ad un anno, mentre cinque possono appellarsi ancora una volta, visto che per quanto riguarda il resto degli interessati, il giudizio non può più essere impugnato in qualsiasi altro tribunale.
Quindi, cinque persone saranno chiuse nella carceri:
Alberto Funaro: 10 anni (già in carcere)
Ines Morasca 6 anni e 6 mesi
Marina Cugnaschi: 12 anni e 3 mesi (già in carcere)
Vincenzo Vecchi: 13 anni
Francesco Puglisi: 15 anni
Gli altre cinque dovranno affrontare un nuovo processo:
Carlo Arculeo: 8 anni
Carlo Cuccomarino: 8 anni
Luca Finotti: 10 anni e 9 mesi
Dario Ursino: 7 anni
Antonino Valguarnera: 8 anni
Tutti i manifestanti sono stati processati e condannati per lo stesso reato, ”saccheggio e devastazione” (apparentemente più grave del “reato” di turbare l’ordine pubblico), quindi in realtà il potere giudiziario ha applicato il cosiddetto Codice Rocco del 1930, un paragrafo che risale all’epoca del fascismo.
La conclusione è questa:
qualche mese condonato e l’avanzamento in carriera, come se nulla fosse, se si spaccano teste,
una media di dieci anni da scontare se si spaccano vetrine…
Questa non è la giustizia di un paese democratico ma quella di uno stato di polizia!
Ci sarà mai una sentenza contro chi ci devasta e saccheggia la vita ogni giorno togliendoci il lavoro e la dignità?

11 luglio 2012

Se l'è cercata!


Anch’io ho sentito quella frase una volta, dopo che i miei vicini avevano letto sul giornale quello che mi era capitato nella notte. Anche se avrebbero potuto fare a meno del giornale, perché erano tutti là, morbosamente immobili dietro le finestre a guardare la scena inconsueta per un quartiere tranquillo come il nostro.
Se l’è cercata, certo, perché non va bene che una donna sia così indipendente, che non si sottometta alle “regole”, che pretenda rispetto e libertà dai tipici canoni moralistici.
Se l’è cercata, perché aveva mille amanti, anche se non ne hanno mai visto uno. Perché tornava tardi la sera e una donna che esce la sera può fare solo la puttana.
E quel “se l’è cercata” è un’affermazione lugubre, crudele, che ancora oggi viene spesso ribadita indicando un comportamento ritenuto “libero” della donna e che dà licenza al maschio di fare quello che vuole: stuprarla, magari in branco, o ammazzarla.
Quante donne sono state uccise nel 2012? Ho perso il conto. Uno degli ultimi casi, straziante ed efferato, quello di Maria Anastasi. E questa mattina un altro, a Cremona.
Coltellate, colpi inferti proprio per uccidere, per porre fine alla vita di una donna che forse non era più docile, o forse perché lo era troppo. E mariti che confessano, così, candidamente, come se, in coscienza loro, si sentissero nel giusto e fossero gli altri a non capire.
E mai, mai una volta che ci si astenga dallo scavare nella vita di lei, dal cercare indizi di una vita dissoluta, amanti, amori, lavoratrice o casalinga frustrata, italiana o straniera. E la gente giudica, fa supposizioni, si permette di sindacare sui comportamenti come se questi dovessero per forza influire sulle reazioni, o che le reazioni fossero giustificate dai comportamenti, fate voi.
Ma il risultato è sempre lo stesso: violenza su violenza.
E' dura sentirsi giudicare da coloro che, in teoria, dovrebbero mostrare almeno un po’ di solidarietà. È dura rendersi conto che certi atteggiamenti maschilisti, che spesso non sono prerogativa dei soli uomini, sono duri a morire e non fanno altro che portare avanti questa cultura becera di prevaricazione di un essere umano su di un altro essere umano.
Che importa cosa faceva, cosa desiderava o quali tresche andava complottando?
E’ stata uccisa, e questo dovrebbe bastare per condannare chi l’ha fatto.

Tutta colpa del caldo!


Tre giorni fa c’è stato un incendio. Beh, certo, con questo caldo, non meraviglia nessuno. C’è però una stranezza in questo piccolo incidente che non ha distrutto ettari di boschi ma bensì…... i reperti dell’attentato di Brindisi in cui ha perso la vita una povera fanciulla di sedici anni. 
Non ci sono notizie di altri danni ad altri reperti.
L’incendio è scoppiato alle 4 del mattino nel centro della Polizia scientifica che ha sede sulla via Tuscolana a Roma. 
Il motivo? Autocombustione!
Ma che coincidenza!! Proprio mentre i posti chiave della polizia sono oggetto di uno tsunami in seguito alla sentenza Diaz e a continuare l’inchiesta di Brindisi ci saranno altri colleghi, abbiamo la scoperta del fenomeno di "autocombustione" in un locale che dovrebbe essere protetto dagli incendi a norma di legge e frequentato da specialisti tipo NCIS come ci mostra la TV.
I nuovi dirigenti non potranno più , dunque, indagare granché e dovranno accontentarsi della dichiarazione di autoaccusa del killer-cretino che si fa filmare e si incolla tre bombole in spalla.
Ora, io non voglio dare colpe a nessuno, visto che non ci sono prove concrete, ma una domanda me la faccio:
alle 4 del mattino c’è così tanto caldo da far incendiare un laboratorio di polizia scientifica dotato di sistemi di sicurezza, scomparti per sostanze volatili ed infiammabili e tutta una serie di strutture e oggettistica adibite alla salvaguardia dell'uomo e del laboratorio?
Che dire? Caronte o Minosse che sia ci ha dato un gran mano, la verità è presto stabilita, soprattutto inconfutabile: il processo è finito!
Finalmente una giustizia certa e veloce!