Di Lorenzo Vitelli per "L'intellettuale dissidente"
La strada è deserta. E’ notte, non ci sono pedoni ma
il semaforo è rosso e, per passare, attendiamo che diventi verde. Chi
non si sente un idiota di fronte al lampeggiante che indica lo stop ha
assimilato la condotta normativa perfettamente. Non si accorge neanche
dell’insensatezza del divieto in quel momento, si attiene al codice
stradale, esegue freddamente la norma. Passare col rosso vorrebbe dire
distruggere per un attimo l’equilibrio, rompere provvisoriamente gli
schemi, privarsi, per un secondo, della propria incolumità. Arrestarsi è
un automatismo che rileva della infaticabile e onnipervasiva litania
Occidentale del “diritto alla vita”, le cui conseguenze sono
paradossali.
Questo diritto è l’obiettivo di una politica, o
biopolitica, il cui lietmotiv è la promozione di leggi e pratiche
comportamentali atte ad allontanare quanto più possibile la morte e a
preservare l’esistenza. Tra queste: prevenzioni obbligatorie, diagnosi
genetiche, campagne di sensibilizzazione su alimentazione, sport e
ricerche di fondi, giornate mondiali contro Aids e obesità, crociate
contro il fumo e l’alcool e in favore dell’igiene e della
regolamentazione dei rapporti sessuali. I fumatori vengono rinchiusi,
negli aereoporti o negli spazi condivisi, in teche di vetro o in
secondarie stanzette per essere additati come “deviati”. Gli obesi sono
ridicolizzati. Gli anziani sono considerati premorti. La vita e la
felicità vengono reiterate nell’orbita di un obbligo alla salute, di una
progressiva tensione verso un’irraggiungibile perfezione della
condizione fisica. La vera vita, a questo punto dequalificata a
benessere, è quella che si adegua a un canone comportamentale esemplare:
dieta, sport, prevenzione, igiene, attenzione alle ore di sonno.
Astenersi dalla procedura equivale ad avere un’esistenza parziale ed
incompleta, ma, diceva Franca Ongaro, “quando la salute come progetto
prende il posto della vita, è la vita stessa a svuotarsi di significato,
di fronte ad un’astrazione da perseguire e raggiungere”.
Se questo cammino verso la vita ottimale è
irraggiungibile (causa una serie di circostanza, ambientali, personali,
artificiali) è comunque diventato un dovere morale – ma non privo di
contraddizioni – perseguirlo. Mentre prima, non appena nati, si
disponeva di un’innocenza dello spirito (incontaminato dal peccato),
oggi si dispone – seguendo proprio la secolarizzazione del processo
dall’attenzione per l’anima alla cura per il corpo – di un “capitale
salute” (incontaminato… dalla vita?) la cui qualità dipende dal corretto
comportamento durante tutto l’arco dell’esistenza. L’attrattiva di
questa condotta inarrivabile fa leva e sul narcisismo – un culto di sé
che è il prolungamento di un rapporto rinnovato con il corpo (promosso
ad unica verità) – e sulla paranoia ipocondriaca di una società
allarmista sempre più ai margini del collasso, della crisi nucleare,
della guerra atomica, del riscaldamento globale. Ad ognuno il compito in
questa giungla cancerogena di ricostituire il suo piccolo ordine
cosmico. Di passare ore al cellulare e di mangiare cibi antiossidanti,
di essere bloccati nel traffico per poter andare in palestra, di
stressarsi per poi fare yoga. Se di mezzo c’è una serata di sballo, la
mattina dopo si fa jogging. Siamo diventati i manager del nostro
narciso. Dobbiamo mangiare frutta e legumi, sorvegliare la pressione del
sangue e il colesterolo, non fumare, guidare moderatamente, fare sport,
tutto ciò per il bene del nostro “capitale salute” che, sotto
l’avanzare imperante delle tecnologie e dei ritmi industriali,
dell’inquinamento e della deforestazione, sarà così a rischio che
diventerà più angusto lo spazio in cui muoversi per ristabilirlo, per
ricapitalizzarlo.
Viviamo la contraddizione di un’esistenza tanto
nevrotica e invivibile, a livello ambientale come umano, che si vede
costretta a ripiegare sulla salute, spazio di redenzione causato, ma
allo stesso tempo concesso, dal tumorale magma del progresso. Dietro il
diritto alla vita si nasconde un più ampio obbligo alla morte che
nessuno, troppo occupato su di sé, rimetterà in discussione. Nessuno
distruggerà i fast food e arginerà la sovrapproduzione, nessuno limiterà
l’ampiezza dei campi elettromagnetici o ridurrà l’uso di sostanze
inquinanti e di combustibili fossili, nessuno si immolerà contro il
degrado causato dalla concentrazione urbana e la distruzione degli
habitat naturali: ci restringeremo, piuttosto, nelle fenditure
rassicuranti di una vita salutista, uniforme, ovunque identica,
impaurita. E intanto però la vita evade oltre le stretture occupate da
codici civili gonfiati e da leggi che invadono l’intimità, dove tutto
viene legiferato, sottomesso a tribunali, esperti, dottori, tecnici e
medici. Mentre si perde la spontaneità guidata dall’esperienza e lo
slancio vitalistico, l’esistenza si riduce ad essere eco-friendly in un
contesto ultra-industrializzato, salutista per eccesso di
egoismo, securitaria per paura, terribilmente docile per avarizia di sé.