Era tanto tempo che non andavo a
teatro. Ieri sera ne ho avuto l'occasione, sono andata a vedere “La
metamorfosi”, con la regia e l'interpretazione, insieme a Laura
Curino, Dario Cantarelli e Claudia Scaravonati, di Luca Micheletti.
Bravi gli attori, bella l'elaborazione musicale che ha sorpreso con
un inizio forte che sembrava anticipare una drammaticità che si è
poi dissolta nel corso della rappresentazione lasciando il posto al
grottesco, recuperando quella comicità urtante che si avverte nella
lettura del testo kafkiano da cui è ripreso il tema. Tema che è
quello della mutazione di un corpo che subisce una metamorfosi e
diventa altro da sé, tanto da non essere più riconosciuto e da
determinare una trasformazione anche nelle persone con cui,
attraverso il corpo, ci si relaziona. Gregor Samsa, il protagonista
di Kafka, non si tramuta in un insetto dopo un incubo notturno, ma si
ritrova disabile, metamorfosizzato nell'apparato tecnlogico di una
carrozzina all'avanguardia che richiama visivamente lo scarafaggio
kafkiano e rinchiuso in una stanza, in seguito ad un incidente
automobilistico a cui alludono, all'inizio, le luci blu lampeggianti,
forse di un'ambulanza. E sono la casa e la famiglia a diventare un
incubo: la madre non riconosce il figlio cambiato e non riesce
nemmeno a trovare le parole per definire la sua disabilità, il
padre, per il quale Micheletti ha attinto molto dalla “Lettera
al padre”, è autoritario e violento, la sorella Grete si
prende cura di lui, ma spinta da una certa morbosità e solo fino a
quando la creatura schifosa non interferisce con i suoi progetti.
Attraverso l'interpretazione e la
scenografia si percepisce un dualismo di fondo: c'è il prima della
memoria, di quando l'incidente non è ancora avvenuto, e c'è il poi
della costrizione e del bisogno d'amore. E due sono gli spazi
dell'azione: da una parte, la casa dagli arredi modesti, un ambiente
domestico multifunzionale, laccato e freddo, pulito nell'aspetto ma
destinato a imbrattarsi senza però colpo ferire, dove vive la
famiglia e che raccoglie la degenerante discesa all'inferno provocata
dalla diversità; dall'altra, la scatola-stanza di Gregor, scatola e
prigione, rifugio e tomba, una stanza che ruota su se stessa, che è
spazio di tortura e di reclusione, che è mondo separato e rimosso,
che diventa la sua prigione e si ribalta su di lui travolgendo ogni
possibilità di equilibrio.
Luca Micheletti è bravo a raccontare
che Gregor divenuto scarafaggio è pur sempre Gregor, è il figlio e
il fratello, è colui che sperava per Grete un futuro in
conservatorio, è uomo che sente e soffre, è individuo che vive una
condizione umana anche con un aspetto che ai suoi cari pare disumano.
A non riconoscerlo sono i suoi, a farlo fuori sono mamma, papà e
sorella e lo fanno in modo grottesco: un getto di Coca Cola lo
seppellisce.
E viene ovvia una riflessione sulla
disabilità sopportata o addirittura nascosta, sulla diversità non
accettata mai pienamente, una riflessione dura, non lontana da tanti
drammi e tragedie riportate dalla cronaca. Credo che Micheletti abbia
voluto proprio questo: utilizzare il teatro come critica sociale per
dire del nostro presente, per mettere in luce il disagio riflesso sul
nucleo familiare e sugli intrecci affettivi.
Bello, anche se amaro.
La diversità é sempre il problema,la disabilità ne è la sua esasperazione.
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