01 maggio 2019

Mauro Macario: Lettera a Léo Ferré.

Maestro,
ti scrivo da un’epoca non epica come avevi predetto a gola aperta, dove la vergogna globalizzata è vissuta come orgoglio e l’orgoglio autentico viene bonificato con i lanciafiamme mediatici, in campagne di guerra subliminali ad opera di squadre istituzionali di disinfestazione che allargano a tutta la collettività il compito di sradicare il talento ovunque si trovi, un lavoro sporco per desfogliare la pelle ustionata da questo napalm oscurantista e da altre sottili innovative forme di sterminio cerebrale di stampo tecno-omologante che abilmente mimetizzate non sono riconoscibili, ma forse, per estremo paradosso, sono più feroci delle camere a gas perché ci lasciano vivi dopo aver asportato a crudo la nostra parte migliore, censurata e disattivata, esponendola al museo criminale degli irriducibili. Digiti uno, digiti due, digiti tre. Un disegno planetario perverso che mira in modo sistematico a recidere la memoria morale e culturale del più recente passato umanistico e dei loro protagonisti di riferimento. Le generazioni del nuovo ordine saranno così riformattate e il back up non salvato assicurerà l’archiviazione del sogno. Una società di decapitati non pensa più, agisce meccanicamente secondo le coordinate dettate da poteri unificati che concertano in sabba segreti la modificazione genetica, in senso interpersonale, di un’intera civiltà. Una tecnica dell’oblio, della cancellazione, per destituire il reattivo e pianificarlo all’asservimento acritico. Digiti uno, digiti due, digiti tre. Lo strumento che misura la temperatura dell’uomo degno è un termometro freddo e, malgrado il riscaldamento del pianeta, registra una febbre da obitorio, un’epidemia senza antidoto da laboratorio americano, una lapide sferica di cristallo attraverso la quale si vede il futuro dove veramente andremo su e giù per gli argini imparando a memoria i libri da tramandare, e fonderemo anche scuole clandestine per l’emozione appresa o rappresa. L’anatomo patologo di regime non dividerà più il cuore dal cervello, si troverà davanti a un organo mai visto: l’immaginario. Un organo carico di rivolta che segnala il soggetto ormai collassato e la sua sostituzione con l’oggetto: un modo come un altro per conquistare l’eternità spirituale della merce inanimata. Digiti uno, digiti due, digiti tre. Nel mio tempo di revisionismo antropologico, antro-ideologico, e di andropausa, ristabilisco termini ritenuti obsoleti: imperialismo, sopraffazione, sfruttamento. Gli artisti, ogni mattina, preparano i documenti d’espatrio, e ogni notte lasciano in silenzio il paese reale per andare nell’altrove, quella terra promessa, onirica e visionaria, parallela alla nostra, che tu cantavi con accesi toni salvifici attraverso la poesia in musica, tra struggimenti e requisitorie. Verranno a cercarci anche lì per farci a pezzi, ma li aspetteremo a Little Big Horn. Gli artisti che “da ventimila anni cantano nel deserto”, oggi nel deserto sono sepolti. Ti scrivo dunque da un’epoca non epica dove il senso del mito si confronta e si scontra con la logica derisoria del pragmatico; e perde. Lo si studia come un reperto paleontologico. La “tensione verso” che animava le stagioni luminose delle utopie, rimane così, moncata nella conclusione, incompleta nella frase, sbigottita nel gesto amputato, come un fotogramma che blocca a mezz’aria un tuffatore mentre sta per saltare dal trampolino e d’improvviso non sa più dove andare. Decidere in volo è difficile, volare con le ali recise ancora di più. La definizione di genio, in sede contemporanea, suscita l’ottusa ironia di certa casta intellettuale che la adotta solo per quei casi storicamente conclamati, privi di rischio, e mai come voce fuori dal coro. In definitiva è il senso del sogno, la perdita emorragica del nostro tempo, e gli investigatori privati del verso poetico che ostinatamente ancora lo cercano, vengono contrastati dai servizi segreti delle multinazionali. Digiti uno, digiti due, digiti tre. Quando mi chiedono in che cosa consiste il senso (residuo) del poeta oggi, faccio un attimo di silenzio e con gli occhi rivolti nel chissà dove, penso a te, maestro mio, perché la tua assenza pesa sul mondo e il mondo l’ignora, perché sono il guerrigliero di una battaglia solipsistica che ha come finalità di insediarti con i tuoi versi acustici in una terra apolide, in una dimensione atemporale. E ‘ la fraternità a distanza del poeta longitudinale e latitudinale. Io ti ricordo in una polvere d’oro nelle estati toscane, quando nella tua folle saggezza mi istigavi all’insurrezione entroflessa dicendomi: bisogna disimparare tutto. Così contagiato di vaiolo poetico attraversavo l’Eldorado del tuo verso cantato per arrivare al lazzaretto del mio e non più morirne. Io ti ricordo con la tenerezza del lupo che angelicava il tuo sguardo di muta adozione una sera a Parigi brindando alla mia rinascita dopo aver pianto per la tua capacità di eviscerarmi l’anima ad ogni brano, in scena, e trapiantarmi nell’altrove da cui non sono più tornato. Su quel palco ho visto il Novecento cantare i secoli precedenti in una reincarnazione sinfonica di tutti i poeti e di tutti i musicisti ricongiunti in una voce sola, allo scoperto, sotto i riflettori, fuori dalle loro tombe dove i becchini accademici li avevano sotterrati. Non c’è arte maggiore o minore. O canzone magica, commovente, miracolosa, corpo sonoro che da me si stacca e mi rappresenta in dimensioni sconosciute! La poesia morirà in un dormitorio pubblico. Mangiamo pane e merda e abbiamo sempre fame. E’ il menù neoliberista à la carte. La maggioranza, allineata e servile, ha tradito se stessa decretando così tante condanne a morte in tempo di pace, da fregare la rivoluzione francese. Involucri transgenici si riversano nelle strade come ologrammi darwiniani non ancora eretti. Il paese del sole gelido s’è trasformato, ha perso la sua identità, e gli antenati inceneriti tacciono nei loculi mnemonici. Squallidi dilettanti senza diritto di cittadinanza prevaricano gli artisti ortodossi relegandoli negli spazi amatoriali. Il nanismo nazionale cresce a dismisura grazie agli anabolizzanti di una dirigenza subeditoriale. Digiti uno, digiti due, digiti tre. Noi veniamo da un tempo lontano di bistrot e barricate, di nudi corpi in amore, e canti vigorosi di rivolta, noi siamo gli sciamani del sogno selvatico e della libertà estrema, gli angeli neri della A cerchiata, ma il cerchio si chiude intorno al collo come un cappio, l’assedio ci annienta; e quando cadrà l’ultima strofa, l’ultimo alessandrino, il sonetto limpido, quando cadrà l’ultimo verso belligerante, sul campo delle rovine tra i fumi della sera, il grande cadavere del mondo giacerà imploso. E sarà un bene per tutti.

Mauro Macario

Sarzana, 9 ottobre 2006


3 commenti:

  1. Ed ora va molti peggio. Sento molto queste parole che bruciano sulla mia pelle e che sento molto vicino a me ed al.mio sentire.

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    1. Sono parole crudelmente lucide...e anche le tue espressioni artistiche lo sono.

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  2. A me pare un po' troppo forbito nel linguaggio che pare addirittura forzato nella ricerca di accostamenti iperbolici, comunque chiaro e giusto nel concetto.
    Vale a dire: le stesse cose si potevano dire anche con un frasario più abbordabile.

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