[Machete, n. 3, novembre 2008]
Più che mai lo sport contraddistingue il nostro spazio e il nostro
tempo. Malgrado le centinaia di milioni di tesserati sul pianeta, i
miliardi di telespettatori, la sua importanza nel commercio mondiale, le
sue complicità politico-finanziarie ed il suo potere egemonico sul
corpo, lo sport viene presentato come un innocuo e piacevole passatempo.
Ma se ci si intendesse una volta per tutte sul significato di questo
termine, se si smettesse di confondere una partita fra amici che corrono
dietro a una palla con una finale di Coppa del Mondo, o una corsa fra i
campi con una finale olimpica dei 100 metri, la questione dello sport
non apparirebbe più così innocente e risibile. Lo sport non è un gioco,
né un’attività fisica. Religione dei tempi moderni, i suoi valori sono
indiscutibili e le sue pratiche universali. Nato con il capitalismo, ne
difende l’ideologia e i principi. Regno del corpo e del pensiero unico,
lo sport riflette e diffonde una visione del mondo. E poiché
l’intelligenza tende a diventare pigra al cospetto del consenso, è il
caso di porsi alcuni interrogativi. Perché mai lo sport occupa un posto
così considerevole nella nostra società? Come spiegarsi che tanti poveri
si identifichino con atleti che guadagnano in pochi mesi quello che
loro non guadagneranno in tutta la vita? Perché le diseguaglianze, le
menzogne e la corruzione tanto condannate altrove vengono tollerate in
ambito sportivo? Perché questo «fatto sociale totale» resta impensato?
Con occhi ingenui o interessati, lo sport viene visto per lo più
come un universo incantato e incantevole di pratiche che mirano al
superamento di sé, dei propri limiti, che nulla ha a che vedere con
progetti politici, programmi economici o fedi religiose. Lo sport è
considerato fondamentalmente neutro, apolitico, al di sopra di ogni
conflitto sociale. Questa pretesa neutralità nega il ruolo dello sport
nell’impresa di abbrutimento, indottrinamento e cloroformizzazione di
massa, e si manifesta essenzialmente in due modi. Il primo consiste nel
sostenere che lo sport, se organizzato in maniera “progressista”, può
contribuire al miglioramento del mondo: all’emancipazione delle donne,
alla lotta contro la tirannia, all’integrazione razziale, nonché alla
promozione della “cultura”. Ci sarebbe quindi uno sport vero, educativo,
puro, dal volto umano, insomma un’essenza o idea platonica dello sport
in aperta contraddizione con i deprecabili eccessi, gli abusi, le
degenerazioni dello sport che conosciamo. Ma la brutale realtà
dell’affarismo, del doping, dei risultati truccati e della corruzione
avrebbe dovuto già fare piazza pulita di simili illusioni.
L’altro modo per sostenere la neutralità dello sport, ancor più
diffuso, trae spunto dall’unanimità del suo consenso. Considerato il
prolungamento professionale di pratiche dilettantistiche diffuse
ovunque, lo sport è talmente popolare da risultare intoccabile e da
consigliare agli eventuali critici un cauto silenzio. Il gregarismo, la
massificazione, la mobilitazione totale — se non totalitaria — delle
folle che le favolose imprese degli idoli degli stadi mandano in
delirio, confermano in effetti l’universalismo dell’ideale sportivo, ma
in quale maniera? Nelle estasi nazionali che affollano la piazza in caso
di vittoria, gli amici dello sport riconoscono la manifestazione di una
unione sacra rigeneratrice. I campioni diventano quindi l’avanguardia
di una società riconciliata con se stessa. Come ebbe a dire il capitano
di una nazionale campione del mondo, «il calcio è un mezzo che permette
di cancellare le differenze razziali, sociali o politiche». Ma la civile
concordia auspicata da questa affermazione, per altro indicativa del
potere anestetizzante dello sport, risulta puntualmente smentita dalle
violenze che sempre più spesso accompagnano gli incontri. Sebbene queste
violenze siano presentate come tragici «incidenti» causati da qualche
balordo, si tratta in realtà dell’ovvia conseguenza del trionfo della
logica competitiva — della vittoria ad ogni costo — che prevale nello
sport come in ogni ambito della società.
Da molti anni siamo costretti a subire l’inflazione dello
spettacolo sportivo su tutti i canali di comunicazione. I campioni dello
sport sono sul punto di sostituire le stelle della canzone e del cinema
sul podio delle icone moderne. I tiracalci a palloni di cuoio fanno
parte delle personalità predilette dal pubblico, sono diventati i
modelli pubblicitari da imitare, quelli con cui i giovani devono
identificarsi. Eppure, durante le loro innumerevoli ed insopportabili
interviste, essi appaiono altrettanto vuoti dei loro omologhi della
musica o del piccolo e grande schermo. Il loro successo deriva soltanto
dall’enfasi di cui lo sport gode nell’universo mediatico. La loro
immagine viene costruita, uniformata e diffusa: stesso linguaggio
demenziale, stessi hotel di lusso, stessa passione per la automobili di
grossa cilindrata, stesse relazioni sentimentali con soubrette dello
spettacolo, stesse droghe, stesso interesse per i conti bancari.
Arruolati da squadre in mano a potenti interessi finanziari, questi
pochi eletti passano il tempo a incontrarsi in giro per il globo, dando
spettacolo di fronte a una immensa platea di diseredati e oppressi
ridotti ad essere telespettatori fanatici, mere macchine da applausi.
Gli atleti sono trasformati in uomini-sandwich, i loro attrezzi da
lavoro e i loro corpi vengono ricoperti di pubblicità e durante le
interviste non mancano di esibire i marchi degli sponsor e un adeguato
sorriso promozionale. Lo stesso vale per i luoghi dove avvengono le
competizioni sportive, spazi traboccanti di annunci pubblicitari
posizionati ad uso delle telecamere. Si tratta di fare audience e di vendere con ogni mezzo.
Gli sport-spettacoli dominanti vengono declinati in tutte le forme
fino allo sfinimento, mentre si avvicendano altri mercati sportivi. Non
esiste ormai più alcuna interruzione, ogni stagione ha il suo
“avvenimento” sportivo (quando non diversi contemporaneamente) in
un’autentica frenesia competitiva.
I giochi circensi degli antichi romani erano innocenti bambinate a
confronto delle odierne manifestazioni sportive. Ma com’è possibile che
uno spettacolo così idiota e cretinizzante appassioni miliardi di
persone? È stato detto che la sua potenza si fonda sulla moltiplicazione
infinita delle immagini, mediata solo da banali commentari. Questa
teletrasmissione permanente, offerta in tutte le salse (in diretta, in
differita, alla moviola, da più angolazioni) trasforma la passione
sportiva in passione dell’immagine («l’iconomania» di cui scriveva
Günther Anders). La contaminazione generale delle coscienze deriva da
questo martellamento continuo. Infatti il tifo sportivo
(all’origine della parola “tifosi”) è un’autentica pandemia che ha
trasformato ogni individuo in un potenziale sostenitore. Al punto che
per molte persone lo sport è diventato un bisogno essenziale, lo
spazio-tempo quasi esclusivo delle folle solitarie che abitano il mondo
moderno. Insomma, i tifosi delle competizioni sportive sono del tutto
permeabili alle tecniche di manipolazione mentale del mercato. Consumano
beatamente tutto ciò che viene loro chiesto di consumare e ne domandano
ancora, al di là di ogni più rosea speranza.
D’altronde trovano nello sport un ottimo fattore di socializzazione
e di calore umano, con un terreno comune per sfogare il proprio bisogno
relazionale. Poco importa che i loro argomenti di conversazione siano
patetici e i loro slanci collettivi da stadio ridicoli. Sono comunque
contenti di stare insieme e di vibrare per la medesima “causa”. Ciò li
conforta un poco dall’atomizzazione fredda e implacabile
dell’abitudinaria vita quotidiana. Gli spettacoli sportivi ricreano una
comunione nel bel mezzo degli odierni rapporti terra terra, perciò i
tifosi sono felici di urlare all’unisono negli stadi, in una sorta di
corale virile. All’uscita possono raccontarsi le partite e fare
pronostici sul prossimo incontro. Il chiacchiericcio sociale, questo
intralcio permanente al pensiero, viene continuamente alimentato dai
commenti sportivi. È facile rilevare l’effetto gregario di tutto ciò.
Dato che la maggioranza delle persone si entusiasma davanti allo sport,
quelli che temono di sentirsi esclusi seguono la tendenza collettiva,
anche se non ne sono attratti allo stesso modo. Avrebbero paura di
perdere il calore del gregge, qualora ignorassero gli ultimi risultati.
Non ci si pone troppe domande, ci si comporta come fanno tutti. Come si fa sempre.
L’idolatria sportiva può diventare una forma di affermazione
identitaria (più o meno violenta). Le mentalità sanguinarie comuni ai
pre-umani trovano qui un accettabile surrogato della guerra. Gli scontri
a colpi d’ascia o di bazooka vengono sostituiti dalle scazzottate fra
tifosi di squadre avversarie, che talvolta finiscono con feriti e anche
morti. Gli stadi diventano campi di battaglia dove non a caso si odono
le medesime urla eccitate (nel corso degli ultimi mondiali di calcio, un
commentatore sportivo affermò che l’Italia aveva «annichilito» gli
avversari, ripetendo l’espressione usata poche settimane prima dai
cecchini italiani in Iraq per indicare l’eliminazione degli insorti).
Sebbene altri sport, a differenza del calcio, scatenino meno gli istinti
bellicosi — almeno qui in Italia —, ciò non toglie che la mentalità di
fondo sia la medesima. Le competizioni sportive sono occasioni per
dimostrazioni virili esacerbate, dove comuni spettatori hanno
l’illusione di esistere attraverso colpi di mano e l’adesione a qualche
gruppo. Onore insperato, possono addirittura arrivare anche loro in
televisione!
Un’altra forma di identificazione è quella che spinge il tifoso ad
“attribuirsi” le vittorie della sua squadra o del suo beniamino. Un
misterioso transfert di energia passa dal campione ai suoi tifosi.
Tipico il caso del tifoso che, sparapanzato nella sua poltrona,
imbottito di birra, esulta davanti allo schermo televisivo: «abbiamo
vinto!». Coi suoi incoraggiamenti verbali a distanza, ha persino
l’impressione di aver contribuito alla vittoria, di aver egli stesso
segnato dei punti. Lui che per lo più si spacca la schiena per un
salario da fame, diventa il cortigiano di persone diventate ricche e
celebri solo grazie alla sua creduloneria volontaria. Invece di provare
disprezzo per le stelle dello sport e di ignorarle fino a farle
scomparire nel buco nero dell’oblio, si getta ai loro piedi elemosinando
un autografo. Adora pensare alla notorietà e alla fortuna degli altri, a
cui orgogliosamente ritiene di contribuire col proprio sostegno. È più
facile vivere delle “imprese” degli altri che fare da sé degli sforzi,
nello sport o altrove. Il tifoso più accanito non vive che attraverso la
sua squadra o il suo campione preferito, rinunciando ad una personalità
originale per annegare nell’ebbrezza allucinatoria sportiva. È il
perfetto esempio del piccolo uomo descritto da Wilhelm Reich,
qualcuno che «dissimula la sua piccolezza e ristrettezza mediante
grandezza e forza illusorie, grandezza e forza altrui». Quando
si ha già il pane, i giochi sono il complemento indispensabile per
dimenticare la propria condizione di docili schiavi. A volte, fra i più
poveri, lo sport riesce a far dimenticare anche la mancanza di pane. Lo
spettacolo diventa cibo.
Un’altra delle ragioni del successo dello sport è rintracciabile
nella mitologia della sua purezza. Ci troviamo in un’epoca sempre più
oscura, nonostante le dichiarazioni di continuo progresso, in cui
dovunque dilagano conflitti d’interesse, compromessi e trame più o meno
occulte; il solo ideale diffuso è quello del massimo arricchimento. Nel
mondo della dittatura dell’economia, le “imprese sportive” appaiono come
antidoti, boccate d’aria purificatrice. Si fanno indossare allo sport
indumenti iridescenti e gli si attribuiscono tutte le virtù. Esso
incarnerebbe la cavalleria, il rispetto dell’avversario, la fine delle
ostilità (la famosa tregua olimpica), la fratellanza e la solidarietà
internazionale, la festa della gioventù… tutte cose assenti nella vita
reale. Ci vengono narrate eroiche vittorie sugli elementi contrari e sui
limiti fisiologici. Gli atleti diventano eroi, saggi, icone, statue
d’oro, santi da venerare senza riserva e di cui bisogna seguire
l’esempio. Nell’entusiasmo ci si scorda semplicemente che i loro candidi
mantelli sono ricoperti di pubblicità e che lo sport è la fedele
immagine della società, vale a dire è completamente marcio (basterebbe
pensare al pugilato — la «nobile arte» —, al suo ambiente
particolarmente corrotto, ai 400 pugili morti sul ring dal 1945). Non
appena entrano in gioco la minima somma di denaro o il più infimo onore,
si scatena l’avidità. Truffe, doping, sfruttamento, disparità
uomo/donna e paesi ricchi/poveri, spirito di odio e di conquista… le
turpitudini sono le medesime che si trovano dappertutto nel mondo della
merce e del potere. Fin dal 1894, e per più di trent’anni, lo stesso de
Coubertin aveva definito il denaro «il grande corruttore, l’eterno
nemico», denunciando la «fabbricazione del purosangue umano» e l’avvento
dei «meticci dello sport, giornalisti in cerca di copie, medici in
cerca di clienti, ambiziosi in cerca di elettori, fannulloni in cerca di
distrazioni, gente di ogni risma in cerca di notorietà». Il barone era
sì reazionario ma, a modo suo, preveggente. Il suo difetto è di aver
creduto possibile costruire una «società umana» sul culto del più forte,
sulla concorrenza generalizzata e la competizione permanente,
sull’apologia della virilità, sulla reificazione dei corpi, sulla
cloroformizzazione delle coscienze, sui deliri patriottardi.
Allo stadio come altrove, la funzione essenziale dello spettacolo
sportivo è la manipolazione delle emozioni di massa. È attraverso il
gioco delle identificazioni collettive e della contemplazione passiva
che opera questo “oppio del popolo”. Lo sport consola, pacifica, fa
volatilizzare ogni conflitto sociale e di classe. Ecco perché, oltre ad
essere una inesauribile fonte di guadagno, è anche un potente strumento
di controllo e di pacificazione sociale. Durante le competizioni,
infatti, si dimenticano la miseria della propria esistenza e le
drammatiche condizioni in cui versa il mondo. Senza il minimo sforzo, i
flussi di immagini e di commenti sportivi imbottiscono il cervello e
dispensano dal riflettere sulle cause e i possibili rimedi delle
questioni sociali che ci affliggono. Hitler e i suoi emuli hanno sempre
compreso la potenza del fascino dello sport, e se ne sono serviti per
ipnotizzare, unire e galvanizzare le folle.
Nonostante nel 1892 de Coubertin sostenesse che «il giorno in cui
(lo sport) verrà introdotto nei costumi della vecchia Europa, la causa
della pace avrà ricevuto un nuovo e potente sostegno», il XX secolo
verrà ricordato per essere stato il secolo del male e dell’indifferenza.
Non solo lo sport non ha limitato la tirannia, ma anzi ne è sempre
stato il complice. A confermare questo aberrante successo sportivo è lo
stesso de Coubertin che, in occasione delle Olimpiadi berlinesi del
1936, ebbe a dichiarare che i Giochi «sono stati esattamente quel che
volevo che fossero… A Berlino si è vibrato per una idea che non dobbiamo
giudicare, ma che fu lo stimolo passionale che io cerco di continuo.
D’altronde la parte tecnica è stata organizzata con tutta la cura
desiderabile e non si può rimproverare ai tedeschi alcuna slealtà
sportiva. In queste condizioni, come volete che ripudi la celebrazione
della XI Olimpiade? Dato che anche questa glorificazione del regime
nazista è stato lo choc emotivo che ha permesso l’immenso sviluppo che
ha conosciuto». I regimi democratici contemporanei seguono il modello
totalitario, riproducendolo in maniera molto più estesa e sofisticata.
E che lo sport sia un potente strumento di pacificazione sociale
non l’hanno capito solo i politici, ma anche gli industriali. Non avendo
i grandi manager più nulla da dimostrare nel mondo degli affari, vale
la pena chiedersi cosa li spinga ad investire in squadre la cui
redditività rimane alquanto dubbia. Sebbene gli sponsor vengano
presentati come uno strumento recente del mercato sportivo, la storia
dei club sportivi mostra il contrario. Quante squadre di calcio sono
controllate da industriali? Il caso della Juventus è esemplare. Così
come Peugeot controlla il FC Sochaux dal 1925, Philips controlla il PSV
Eindhoven e Bayer il Bayer Leverkusen dal 1904, la Fiat possiede dal
1923 la squadra bianconera di Torino. Passatempo? Opera sociale?
In tempi in cui il concetto di «cultura d’impresa» non era ancora
sorto mentre erano diffuse forti tensioni sociali, il padronato ha
subito colto l’interesse implicito nello sport e le sue potenzialità.
L’obiettivo è duplice: tenere occupati i lavoratori durante il tempo
libero e assicurar loro una migliore identificazione con l’impresa
attraverso un sistema di valori e di comportamenti, uno spirito di
squadra e di competizione che renda più efficiente lo sfruttamento. Il
successo finanziario passa anche per la soddisfazione dei salariati,
facendoli sentire fieri di appartenere a una impresa «vincente», sul
campo come in economia.
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