Stavolta lo seppelliranno per davvero. Chissà se porteranno mai alla
luce la "scatola nera" che nascondeva nella gobba, come disse una volta Beppe Grillo,
chissà se qualcuna delle verità che ha sempre tenuto perniciosamente
nascosta verrà mai a galla, magari dai tanti faldoni che compongono il
suo immenso archivio, chissà se nell'al di là in cui credeva ci saranno i
demoni ad attenderlo con il forcone.
Quello che è certo è che, malgrado il diluvio di dichiarazioni formali
che ne ricordano la sua figura di statista, nessuno (a parte pochissime
eccezioni) sottolineerà quanto la sua ragion di Stato sia costata
carissima a questo paese.
Giulio Andreotti è stato il paradigma vivente dell'anormalità
della democrazia italiana, perpetuando all'infinito un potere che si è
schiantato solamente grazie alla magistratura ed è poi risorto ai giorni
nostri sotto mille nuove forme (non è un caso che l'attuale Presidente
del Consiglio sia una specie di ammiratore incondizionato del suo illustre predecessore).
Ineluttabile e malvagio, come è sempre il potere quando si manifesta,
Andreotti nel mondo dei fumetti dei supereroi sarebbe stato un perfetto
"antagonista". Ha iniziato la sua carriera come sottosegretario alla
Cultura, su raccomandazione del futuro papa Paolo VI, approvando
subito una bella legge sulla censura che riportava il paese qualche
anno indietro, ai tempi del fascismo, e poi è stato coinvolto in tutte
le storie più sporche che hanno riguardato la nostra disgraziata
nazione, come la collusione con la mafia almeno fino alla fine degli
anni ottanta (per la quale non è stato mai assolto, ma solo prescritto,
grazie alle leggi di Berlusconi), l'accusa che più o meno tutti conoscono. Ma i suoi atti censurabili riguardarono la P2, alla quale fornì sotto banco le carte del tentativo di golpe da parte dell'estrema destra, il pulcinellesco Piano Solo, prima che venissero distrutte; la strage di Piazza Fontana, mentre da ministro della Difesa garantiva le coperture istituzionali a uno degli indagati per l'attentato, Guido Giannettini, stipendiato dai servizi segreti militari; il rapimento di Aldo Moro, con il memoriale di quest'ultimo che gli riservava giudizi pesantissimi e soprattutto la copertura dell'organizzazione Gladio; l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli,
che fu ucciso poco prima di pubblicare notizie compromettenti (accusa
per la quale è stato condannato a 24 anni in Appello per poi vedersi
cancellare la condanna in Cassazione, ma che proveniva da uno dei
collaboratori di mafia più attendibili, Tommaso Buscetta).
Potremmo star qui fino a domani a elencare gli episodi che hanno visto
questo singolare personaggio, che in un paese normale avrebbe finito i
suoi giorni in galera, rimestare nel fango. Potremmo elencare tutta la
lunga schiera dei suoi fedelissimi, dai mafiosi siciliani Salvo Lima e Vito Ciancimino, agli affaristi romani Franco Evangelisti e Vittorio Sbardella detto "lo squalo", agli amici napoletani come Paolo Cirino Pomicino
e quelli che conservava e probabilmente teneva per le palle al di là
delle mura vaticane. Si potrebbe anche ironizzare sul fatto che in molti
ripetono la barzelletta secondo la quale almeno lui non si sarebbe
messo i soldi in tasca, a differenza dei suoi amici del CAF (Forlani e
Craxi), perché non funziona molto neanche quella, visto che si è saputo
da tempo che il divo Giulio aveva come tanti politici un conto "segreto" presso lo Ior. Si potrebbero ricordare i numerosi giudici diffamati o il povero avvocato Giorgio Ambrosoli,
definito di recente "uno che se l'era andata a cercare" e smentire il
luogo comune secondo il quale era un uomo di spirito, perché alle sue
battute ridevano solo i giornalisti che gli facevano da codazzo (un
fiume in piena).
Ma che senso avrebbe?
E' stato tenuto tutto abilmente nascosto, nel nome dell'ineluttabilità e
della malvagità della ragion di Stato. Un ossimoro, perché lo Stato non
è mai ragionevole. Qui da noi uccide e poi nasconde le carte.
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