25 gennaio 2015

Quando la vita diventa salute.

Di Lorenzo Vitelli per "L'intellettuale dissidente"
La strada è deserta. E’ notte, non ci sono pedoni ma il semaforo è rosso e, per passare, attendiamo che diventi verde. Chi non si sente un idiota di fronte al lampeggiante che indica lo stop ha assimilato la condotta normativa perfettamente. Non si accorge neanche dell’insensatezza del divieto in quel momento, si attiene al codice stradale, esegue freddamente la norma. Passare col rosso vorrebbe dire distruggere per un attimo l’equilibrio, rompere provvisoriamente gli schemi, privarsi, per un secondo, della propria incolumità. Arrestarsi è un automatismo che rileva della infaticabile e onnipervasiva litania Occidentale del “diritto alla vita”, le cui conseguenze sono paradossali.
Questo diritto è l’obiettivo di una politica, o biopolitica, il cui lietmotiv è la promozione di leggi e pratiche comportamentali atte ad allontanare quanto più possibile la morte e a preservare l’esistenza. Tra queste: prevenzioni obbligatorie, diagnosi genetiche, campagne di sensibilizzazione su alimentazione, sport e ricerche di fondi, giornate mondiali contro Aids e obesità, crociate contro il fumo e l’alcool e in favore dell’igiene e della regolamentazione dei rapporti sessuali. I fumatori vengono rinchiusi, negli aereoporti o negli spazi condivisi, in teche di vetro o in secondarie stanzette per essere additati come “deviati”. Gli obesi sono ridicolizzati. Gli anziani sono considerati premorti. La vita e la felicità vengono reiterate nell’orbita di un obbligo alla salute, di una progressiva tensione verso un’irraggiungibile perfezione della condizione fisica. La vera vita, a questo punto dequalificata a benessere, è quella che si adegua a un canone comportamentale esemplare: dieta, sport, prevenzione, igiene, attenzione alle ore di sonno. Astenersi dalla procedura equivale ad avere un’esistenza parziale ed incompleta, ma, diceva Franca Ongaro, “quando la salute come progetto prende il posto della vita, è la vita stessa a svuotarsi di significato, di fronte ad un’astrazione da perseguire e raggiungere”.
Se questo cammino verso la vita ottimale è irraggiungibile (causa una serie di circostanza, ambientali, personali, artificiali) è comunque diventato un dovere morale – ma non privo di contraddizioni – perseguirlo. Mentre prima, non appena nati, si disponeva di un’innocenza dello spirito (incontaminato dal peccato), oggi si dispone – seguendo proprio la secolarizzazione del processo dall’attenzione per l’anima alla cura per il corpo – di un “capitale salute” (incontaminato… dalla vita?) la cui qualità dipende dal corretto comportamento durante tutto l’arco dell’esistenza. L’attrattiva di questa condotta inarrivabile fa leva e sul narcisismo – un culto di sé che è il prolungamento di un rapporto rinnovato con il corpo (promosso ad unica verità) – e sulla paranoia ipocondriaca di una società allarmista sempre più ai margini del collasso, della crisi nucleare, della guerra atomica, del riscaldamento globale. Ad ognuno il compito in questa giungla cancerogena di ricostituire il suo piccolo ordine cosmico. Di passare ore al cellulare e di mangiare cibi antiossidanti, di essere bloccati nel traffico per poter andare in palestra, di stressarsi per poi fare yoga. Se di mezzo c’è una serata di sballo, la mattina dopo si fa jogging. Siamo diventati i manager del nostro narciso. Dobbiamo mangiare frutta e legumi, sorvegliare la pressione del sangue e il colesterolo, non fumare, guidare moderatamente, fare sport, tutto ciò per il bene del nostro “capitale salute” che, sotto l’avanzare imperante delle tecnologie e dei ritmi industriali, dell’inquinamento e della deforestazione, sarà così a rischio che diventerà più angusto lo spazio in cui muoversi per ristabilirlo, per ricapitalizzarlo.
Viviamo la contraddizione di un’esistenza tanto nevrotica e invivibile, a livello ambientale come umano, che si vede costretta a ripiegare sulla salute, spazio di redenzione causato, ma allo stesso tempo concesso, dal tumorale magma del progresso. Dietro il diritto alla vita si nasconde un più ampio obbligo alla morte che nessuno, troppo occupato su di sé, rimetterà in discussione. Nessuno distruggerà i fast food e arginerà la sovrapproduzione, nessuno limiterà l’ampiezza dei campi elettromagnetici o ridurrà l’uso di sostanze inquinanti e di combustibili fossili, nessuno si immolerà contro il degrado causato dalla concentrazione urbana e la distruzione degli habitat naturali: ci restringeremo, piuttosto, nelle fenditure rassicuranti di una vita salutista, uniforme, ovunque identica, impaurita. E intanto però la vita evade oltre le stretture occupate da codici civili gonfiati e da leggi che invadono l’intimità, dove tutto viene legiferato, sottomesso a tribunali, esperti, dottori, tecnici e medici. Mentre si perde la spontaneità guidata dall’esperienza e lo slancio vitalistico, l’esistenza si riduce ad essere eco-friendly in un contesto ultra-industrializzato, salutista per eccesso di egoismo, securitaria per paura, terribilmente docile per avarizia di sé.

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