02 febbraio 2016

L’utero in affitto è davvero un’aberrazione?

Da Libernazione.
Dopo giorni di discussioni, polemiche e diatribe sul numero di partecipanti al Family Day, almeno un risultato certo pare (purtroppo) acquisito: la pratica del cosiddetto “utero in affitto” viene condannata in modo ormai pressoché unanime, sia da parte di chi si straccia le vesti prevedendone un vertiginoso aumento a seguito del DDL Cirinnà (dove andremo a finire di questo passo, signoramia), sia da parte di chi nega il nesso causale, minimizza e si affretta a prendere le distanze (macché, quale utero in affitto, noi vogliamo soltanto regolamentare l’esistente).
La questione “gravidanza surrogata”, insomma, pare definitivamente chiusa con la rubricazione sommaria dell’argomento alla voce “barbarie”: senza, tuttavia, che se ne siano approfonditi i contorni come io credo sarebbe stato auspicabile.
Tanto per cominciare: è lecito chiedersi se portare avanti una gravidanza per conto terzi sia davvero, al di là delle possibili distorsioni legate allo “stato di necessità” o al “mercimonio di bambini”, un’aberrazione intollerabile in sé e per sé?
In altri termini, siamo sicuri che implementando delle regole grazie alle quali ci si possa assicurare che una donna decisa a “prestare” l’utero ad altri non sia spinta del bisogno, e si riesca a scongiurare l’eventualità che lo faccia a scopo meramente “commerciale”, il nostro punto di vista sulla questione sarebbe lo stesso?
La domanda, a ben guardare, è importante: perché segna il confine tra la condanna di una pratica in quanto tale e l’esigenza di regolamentare quella pratica in modo efficace per renderla accettabile; un po’ come succede, tanto per spingere il discorso un tantino più in là, con la donazione di organi, che è riconosciuta come un encomiabile atto di generosità qualora sia spontanea, e allo stesso tempo viene proibita nei casi in cui si configuri come una “vendita”, a maggior ragione se motivata dal fatto che il “cedente” versa in condizioni economiche precarie.
Sotto questa luce la questione diventa assai più complessa di come la si è dipinta nelle scorse settimane, e suscita interrogativi che prima o poi sarebbe il caso di esplorare compiutamente: portare avanti una gravidanza per mera “generosità”, fatto salvo un ragionevole “rimborso” per le spese sostenute, è davvero “moralmente inaccettabile”? E se sì, presupposta (e verificata) la capacità di intendere e volere di chi vi si determina e la sua libertà di scelta, perché mai?
Ecco, io a quest’ultima domanda, che poi mi pare quella cruciale, non riesco a trovare risposte plausibili.
Se qualcuno le avesse o ritenesse di averle, al di là dei pistolotti moralisti legati alla consueta proiezione delle proprie convinzioni su quelle degli altri, sarebbe gradito che le esprimesse.
In caso contrario sarebbe il caso di piantarla con le lamentazioni, e mettersi finalmente a ragionare sulle regole.
Altrimenti, come diceva Padre Pizzarro, stamo a parla’ de tutto e de gnente.

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