Francesco Currò
Luca Valente
Ci si abitua a tutto, anche alla morte. Specialmente quando viene distillata a piccole dosi, derubricata a esercizio di contabilità, da registrare e poi mettere in archivio. Tre militari italiani deceduti a settembre per un incidente stradale, uno a gennaio per infarto.
Infine le ultime vittime, lunedì scorso nella provincia di Herat, tre caporalmaggiori che hanno fatto una fine orribile, annegati in un metro d'acqua, prigionieri di un blindato poco adatto ai terreni accidentati dell'Afghanistan.
Eppure, guardando al nutrito elenco dei soldati italiani
I tre caporalmaggiori che oggi rientrano in patria per l'ultimo saluto non sono diversi dai loro colleghi uccisi dai terroristi. Le leggi dei media non transigono, lo sappiamo: una raffica di mitra o una bomba contano più di uno schianto in auto. Ma per l'Afghanistan andrebbe fatta una eccezione. Come gli altri, quei soldati stavano lavorando per il loro Paese, quindi per noi tutti, nel peggior posto possibile. Meritano anch'essi la nostra riconoscenza, e le famiglie hanno diritto a un trattamento uguale a quello ricevuto dai militari vittime di una azione violenta.
Non è retorica, o almeno non vorrebbe esserlo. È qualcosa che invece riguarda da vicino la nostra umanità, la nostra eventuale voglia di non cedere al cinismo dilagante. Perché alla morte non ci si dovrebbe mai abituare, e prima di arrendersi, senza magari rendersene conto, bisognerebbe opporre qualche forma di resistenza. A cominciare dal ricordo di tre soldati italiani morti in Afghanistan per un incidente stradale.
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