19 maggio 2016

Senza bisogno di catene o particolari costrizioni.

Da Diciottobrumaio.
Ciò che è accaduto negli ultimi tre decenni ha cambiato il nostro modo di pensare e di relazionarci con il mondo. A questi cambiamenti non abbiamo opposto, sul piano generale, alcuna resistenza, anzi, li abbiamo accolti come un segno, in realtà un mito, di progresso e di maggiore libertà, e comunque come un fatale destino. Del resto, come opporsi alle nuove tecnologie e a un certo loro impiego? Tecnologie, specie quelle digitali, con le quali entriamo in un certo ordine del discorso, in una sintassi di pensiero predeterminato e che non controlliamo. Al contempo, utilizzatori e riproduttori di un sistema che ci domina e nella sua albagia ci ricatta.
Accettiamo tutte le nuove forme di schiavitù, che vanno a sommarsi a quelle più “classiche”, senza bisogno di catene o particolari costrizioni. La nostra è una schiavitù volontaria e spesso bene accetta, proprio perché abbiamo perso, o non abbiamo avuto abbastanza, il senso vero di che cos’è, o dovrebbe essere, la libertà. Se solo prendiamo ad esempio la comunicazione, abbiamo la prova di come sia stata ridotta la nostra libertà, laddove la comunicazione passa necessariamente su delle piattaforme controllate da alcune delle più grandi imprese multinazionali, che solo alcuni lustri or sono non esistevano, le quali realizzano i più alti fatturati e all’interno di essi i più cospicui profitti.
Miliardi di dati che riguardano la vita privata di miliardi di persone in tutto il pianeta. Informazioni sul nostro lavoro, i consumi, le necessità e i desideri, le relazioni, le idee, la salute, gli spostamenti, ecc. Profili personali e famigliari completi che possono andare dai gusti musicali a quelli sessuali. Profili che disegnano tendenze di consumo e che possono essere ceduti, ossia venduti, ai più diversi produttori: alimentari, musicali, farmaceutici, dell’abbigliamento, dell’editoria; e operatori: turistici, alberghieri, ecc..
Ma anche un altro genere di profili, che possono interessare gli Stati e i loro apparati, specie quelli che lavorano nell’ombra e spesso nell’illegalità legalizzata, i quali attraverso le loro architetture informatiche esercitano innanzitutto un controllo preventivo. Ma noi, che sui social condividiamo tutto, dalle nostre foto a cosa pensiamo, crediamo di essere fuori da ogni controllo. E se anche questo controllo esiste, non ce ne importa nulla, poiché non ci rendiamo conto dell’uso politico che ne viene fatto.
Tutti questi dati glieli forniamo noi stessi, lavorando di tastiera. Un lavoro gratuito, il nostro, che rende alti profitti a tutta una filiera dove dominano poche società potenti, vere e proprie oligarchie che si arricchiscono del nostro gratuito lavoro (Google e Facebook) o col supersfruttamento (Microsoft, Apple, Amazon), tra l’altro appropriandosi, in forza dei prezzi di monopolio, di consistenti quote di plusvalore di altre sfere produttive.
A tutto ciò, singolarmente o per piccoli gruppi, noi non possiamo opporre nulla. Confusi e distratti nella nostra volontà, incessantemente stimolati da bisogni e opinioni miserabili, da merci selezionate che il sistema usa come armi per il proprio consolidamento, da noi non dipende più nulla. Sperimentiamo grandi solitudini e nuove forme di sfruttamento, e del resto l’alienazione è già insita nel nucleo originario del modo di produzione capitalistico, e questo lo sapevamo da tanto tempo.

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