Lavorare dovrebbe servire a vivere, non
il contrario. Perciò dovrebbe essere considerato alla stregua del
denaro: un mezzo da maneggiare col dovuto senso del limite.
Il
lavoro, dicevano gli antichi Greci che a saggezza battevano alla
grande noi moderni, è una pena (un fardello, un peso, un
male necessario ma pur sempre un male).
Altro che festa!
Un tempo lavorare forniva perlomeno una
coscienza di classe, faceva sentire degna la fatica del lavoro anche
all’ultimo degli onesti sfruttati. Oggi è mortificante fare la
questua agli imprenditori per contratti a singhiozzo e paghe da fame.
Il lavoro parcellizzato, precarizzato, senza prospettive, appeso ai
capricci del mercato è peggio della schiavitù, che almeno durava.
Abbiamo scambiato le punizioni corporali con l’angoscia
esistenziale.
L’occupazione, dicono i sindacalisti,
dovrebbe avere garanzie e diritti uguali per tutti. Il contratto,
dicono gli imprenditori, non deve avere garanzie e diritti uguali per
tutti. Entrambi non dicono che a furia di inseguire modelli di
produzione del passato non è possibile né garantire tutti né tanto
meno assicurare la giustizia sociale. Bisognerebbe produrre,
consumare, lavorare meno e meglio. Non chiedere,
pretendere, sgobbare di più e basta.
I politici che magnificano il lavoro
come valore, in Italia, sono di tre tipi. Ci sono quelli che passano
la vita a parlarne ma non lo hanno mai praticato. Ci sono quelli che
hanno solo e sempre lavorato diventando mostruosamente ricchi e poi
si fanno eleggere per diventare ancora più ricchi. E ci sono quelli
che ne fanno una religione ideologica fermando le lancette al
Settecento di Smith e all’Ottocento di Marx. Consigliamo di
riscoprire l’otium, la bellezza, il sesso, l’arte. E la
Grande Politica fatta di ideali, comunità e vita quotidiana, e non
di spread, rating, deficit, fiscal compact, bonus, job’s act.
Fuck you!
Ma il lavoro è nemico del pensiero e
“come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno
e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della
cupidigia, del desiderio di indipendenza. Esso logora
straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la
sottrae al riflettere, allo scervellarsi, sognare, al preoccuparsi,
all'amare, all'odiare” (Friedrich Nietzsche).
Il lavoro abbrutisce: beato chi non
lavora, ben messo è chi pratica un mestiere. Lavorare fa pensare in
termini economici, di costi/benefici, di perdite/guadagni.
Disumanizza, specialmente ora che dipende da tecnologie alienanti e
da ritmi parossistici.
Il lavoro a dosi massicce ed eretto a
senso della vita è una fregatura. Per tutti: poveri e
ricchi. Anzi, più per i ricchi, i benestanti, i superlavoratori
contenti come citrulli nel passare gli anni a lavorare più di quanto
non dormano la notte (Paul Lafargue e Bertrand Russel, teorici
dell’ozio, concordano nel fissare la giornata lavorativa ideale a
non più di quattro ore).
Un tempo esistevano i mestieri
in cui il valore della fatica era nobilitato dalla creatività, da
quel quid di tocco personale e di autonomia negli orari che
rendevano un’attività parte integrante della propria
realizzazione, parte della vita. Penso agli artigiani, che oggidì
resistono malamente alla pressione dei mercati mondiali.
Lungi da noi fare dell’ingenuo
primitivismo, ma gli studi sull’età della pietra dimostrano che i
supposti “selvaggi” dedicavano all’accaparramento di cibo non
più di cinque ore al giorno, vivendo in un ambiente di abbondanza
data dalla ricchezza di frutti, animali e beni naturali.
Ora, pensiamo un attimo alla parabola
storica che ne è seguita: spostando via via il baricentro della
società verso la produzione per ricavare un profitto in denaro, si
sono moltiplicate ed estese a dismisura ingiustizie, asocialità,
alienazione, nevrosi, disagio. Fino ad arrivare agli estremi di oggi,
dove l’angoscia diffusa per avere di che campare è direttamente
proporzionale al prosperare di imperi finanziari in mano ad una
manciata di persone in tutto il globo.
I semi-umani bestiali, incivili,
animali da soma siamo noi.
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