Una delle cose che maggiormente viene contestata agli
anarchici è quella della possibilità dell’autogestione. Soprattutto adesso,
soprattutto rispetto all’"evoluzione" (???) che c’è stata nei meccanismi della società,
troppo complicati per essere compresi dalla maggior parte delle persone e
troppo difficili da gestire da chi non è “pratico”. Si pensa subito al famoso “caos”
di una situazione totalmente assente di direttive e ruoli prestabiliti. Eppure fatti
di questo tipo accadono continuamente nella vita reale: in determinate
circostanze storiche (crisi economiche e finanziarie, crollo di regimi
dittatoriali, guerre civili, processi di decolonizzazione, fasi successive a
catastrofi naturali come i terremoti) ecco che il popolo si sveglia dal torpore
e “scopre” l’autogestione, si riprende le fabbriche, i servizi, le scuole, le
campagne. L’energia finalmente liberata s’impadronisce della realtà. Il metodo
autogestionario può assumere anche un carattere rivoluzionario, soprattutto
quando effettivamente il popolo si rende conto che può osare di più, ed è in
grado di prendere parte al grande sogno della rivoluzione – come è accaduto
nella Spagna del 1936 – autogestendo ogni ambito lavorativo e di vita: dalla
grande industria all’agricoltura, dai servizi fino ai più piccoli esercizi
commerciali, nei paesi, nei villaggi e nelle città. In Argentina, nei primi
anni di questo secolo, dopo che i proprietari erano fuggiti all’estero con il
denaro per paura delle conseguenze dell’incombente crisi finanziaria, abbiamo
assistito all’autogestione delle fabbriche: i diretti interessati hanno
lavorato anche in assenza dei vecchi padroni senza mettere in discussione
l’autorità costituita.
L’autogestione può avere infatti varie caratteristiche, può
essere limitata ad un ambito, come per esempio l’educazione scolastica, ma, in
campo economico, può accadere che sia addirittura emanazione di uno Stato,
com’è accaduto nella ormai estinta Jugoslavia durante la seconda metà del
Novecento. Qui i lavoratori si autogestivano la produzione, decidevano
autonomamente le varie fasi, i salari, i ritmi, ma all’interno di una
pianificazione calata dall’alto. Nel caso jugoslavo si può senz’altro dire che
in definitiva gli operai autogestivano il loro sfruttamento. Solo quando è
parte integrante di un progetto antigerarchico l’autogestione diviene
incompatibile con il sistema autoritario, capitalistico e statale; solamente in
questo caso riproduce al suo interno tale incompatibilità, favorendo cioè la
piena autonomia individuale, senza gerarchie o ruoli prestabiliti che diano
accesso a privilegi. La libertà di tutti i soggetti che fanno parte del
progetto convive con la responsabilità individuale, con la rotazione dei ruoli,
l’equa distribuzione del sapere e dei beni di prima necessità, l’abolizione
della proprietà privata... Non vi può essere infatti possesso individuale dei
beni primari, come la terra, le materie prime, gli strumenti e le macchine, di
cui la comunità fa uso: appartengono a tutti, perciò a nessuno; sono in
prestito da chi ci ha preceduti e vanno in dote a chi ci seguirà.
Faccio un esempio che si inserisce meglio nella
quotidianità: supponiamo che un gruppo di amici decida di comprare un casolare
abbandonato e di rimetterlo in piedi per trascorrervi le vacanze. Ognuno mette
in campo le proprie competenze in materia, tutti partecipano alle spese e tutti
egualmente si spartiscono il lavoro senza che si sviluppino posizioni
privilegiate. E se qualcuno ha meno possibilità di contribuire economicamente
rispetto ad altri, prenderà parte lo stesso al progetto senza per questo venire
penalizzato. Iniziano i lavori: l’autorità (per usare un termine che dovrebbe
sempre fare rizzare i capelli) del falegname, o l’autorità del muratore non
danno diritto a questi di assumere posizioni gerarchiche, di comando, ma, se
riconosciute dagli altri, sono solo ed esclusivamente il frutto della loro
esperienza, e come tale rappresentano la loro autorevolezza in una materia. Ciò
definisce il contributo che daranno allo sviluppo dell’opera ma non gli concede
in cambio ritorni dal punto di vista materiale, tipo particolari privilegi. Se
saranno stati bravi la loro autorevolezza verrà confermata o accresciuta,
verranno gratificati per questo, ma dal punto di vista del compenso finale esso
sarà uguale a quello di tutti gli altri: la fruibilità di quel luogo che hanno
contribuito a ristrutturare per poterci trascorrere le vacanze.
La bravura di una persona non deve essere motivo di
gratificazioni economiche. È vero, e non c’è alcun dubbio che la capacità
professionale di un individuo è il frutto dei suoi studi, del suo impegno, ma è
altrettanto vero che essa è il prodotto di una società che gli ha permesso, con
le sue strutture scolastiche, con gli insegnanti, con i libri e con il sapere
che gli ha trasmesso, di divenire capace di fare determinate cose; una società
che ha dedicato risorse, energie, tempo, spazio alla sua formazione. Il suo
impegno senza tutto ciò non sarebbe stato sufficiente a farne quello che è
diventato; viceversa la cura della società non sarebbe bastata senza i suoi
sforzi personali. In quanto ai meriti, partiamo da un fatto: ciascun individuo
si dedica a qualcosa. Mentre qualcuno si applica nello studio, tanti altri
individui lavorano, producono, si impegnano in attività diverse ma altrettanto
importanti. Se lui, per fare alcuni esempi, mangia, si veste, viaggia, legge, è
perché altre decine di individui coltivano i prodotti che consuma, tessono e
cuciono i vestiti che indossa, costruiscono, guidano i veicoli che lo trasportano,
scrivono, stampano, rilegano i libri su cui studia... E così via. Dietro il
merito di uno c’è il merito di tutti, questo è il senso di una comunità, di una
società. Ora, il fatto che egli abbia raggiunto un certo grado di
professionalità e sia entrato nel mondo del lavoro non può rappresentare un
fattore di distacco da questo contesto, semmai è il momento in cui egli
comincia a restituire parte di quanto ha ricevuto sotto i più svariati aspetti.
È difficile dire che il pastore che accudisce le sue pecore per ricavarne latte
e lana svolga una professione meno importante del professore che pure beve latte
e indossa maglioni di lana, o che il lavoro dell’artigiano costruttore di borse
sia meno dignitoso e meritevole dell’attività dello studente che riempie una di
quelle borse coi libri sui quali studia.
È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, mediante
la cooperazione volontaria, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo con la
persuasione, l’esempio e il vantaggio reciproco che può trionfare una società di persone liberamente solidali,
che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo
benessere possibili. L’origine prima dei mali che hanno travagliato e travagliano
l’umanità, a parte s’intende quelli che dipendono dalle forze avverse della
natura, è il fatto che gli uomini non hanno compreso, o hanno smesso di
comprendere, che l’accordo e la cooperazione è l’unico e solo mezzo per assicurare
a tutti il massimo bene possibile. I più forti e più furbi hanno voluto
sottomettere e sfruttare gli altri, e quando sono riusciti a conquistare una
posizione vantaggiosa hanno voluto assicurarsene e perpetuarne il possesso
creando in loro difesa ogni specie di organi permanenti di coercizione.
"Aspetterò domani, dopodomani e magari cent'anni ancora
finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla
maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza
civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le
istituzioni repubblicane erano considerate utopie".
Fabrizio De André
Gianna, senti, io condivido pienamente questa affermazione, che trovo nel testo che hai riprodotto:
RispondiElimina"È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, mediante la cooperazione volontaria, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo con la persuasione, l’esempio e il vantaggio reciproco che può trionfare una società di persone liberamente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili".
Ma adesso, mi vuoi dire come si fa a "costringere" tutti, SENZA GERARCHIE, ad applicare tutto questo?
A un certo punto punto viene citata la "persuasione", ma in che modo si può
persuadere la gente? Perchè se non viene applicata,
è perchè nessuno, ma proprio nessuno, è mai riuscito a farlo, almeno su scala nazionale (lasciamo perdere i casi comunitarI di poche persone, fanno molta tenerezza, ma non sono "praticabili" per milioni di persone). La Yugoslavia NON ERA ANARCHICA, la gerachia c'era eccome. Voglio dire: sì, si dovrebbe fare così, ma se non si fa è perchè i sogni non si avverano mai. Purtroppo, ovviamente.
Non ho detto che la Juogoslavia era anarchica, ho detto che i lavoratori autogestivano la produzione, decidevano autonomamente le varie fasi, i salari, i ritmi, ma all’interno di una pianificazione calata dall’alto, limitata, quindi, ad un ambito specifico e senza progetti antigerarchici. Comunque questo ha poca importanza, l'importante è credere che questo possa essere possibile, se si pensa che sia solo bello ma irrealizzabile non si arriva da nessuna parte: "L'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l'utopia? Serve per continuare a camminare". (Eduardo Galeano)
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