08 aprile 2016

Referendum piuttosto ambiguo.

Come al solito, con il voto si fa credere di avere un potere decisionale che in realtà non esiste. Andrea Papi spiega bene le preplessità su questo strumento tanto sbandierato come espressione di volontà popolare.
http://www.libertandreapapi.it/blog/index.php
Il referendum indetto per il 17 aprile prossimo rappresenta una particolare conferma di ciò che sostengo da sempre: in Italia, per come è concepito e impostato, l’istituto del referendum è truffaldino. Dal punto di vista politico poi equivale a una vera trappola.
Innanzitutto è solo abrogativo, si può cioè indire esclusivamente per abrogare una legge, o parti di essa, già in vigore (in Svizzera, per esempio, tradizionale “madre putativa” delle pratiche referendarie, si può indire anche per proporre leggi non in vigore che però si ritengono necessarie). È interessante capire che, mentre chi vota (si o no) è in genere convinto di farlo per i contenuti propagandati, cioè contro o pro l’aborto, contro o pro gli inceneritori, contro o pro qualsiasi altra questione in ballo, di fatto giuridicamente quel consenso o dissenso sono riferiti alla formulazione della legge più che al suo contenuto. Ciò che verrà abrogato o confermato non sarà tanto l’aborto, l’inceneritore o quant’altro, bensì il testo che definisce la legge in questione per come è scritto, compresa la punteggiatura. Di fatto, anche dopo un’abrogazione referendaria, se viene cambiata qualche virgola e spostata qualche parola, dando quindi forma diversa alla stesura testuale abrogata, la legge può rimanere. Qualcosa di simile (non ho approfondito formalmente, quindi non conosco i particolari formali) in pratica successe con i referendum sulla caccia e il finanziamento ai partiti che, pur abrogati per volontà popolare espressa, sono tranquillamente rimasti.
Altro aspetto niente affatto secondario è che la decisione vera e propria, sia nelle sue espressioni formali sia nella sua sostanza decisionale, non sarà l’esito del voto, bensì verrà presa dal parlamento attraverso i suoi rituali e le sue procedure. Non a caso ciò che noi chiamiamo con la semplice dizione “referendum”, è definito “consultazione referendaria”. Fino a prova contraria democrazia diretta significa democrazia che decide direttamente, non delegata perché non filtrata da alcun medium, né strutturale né formale. L’attuale impianto giuridico-procedurale invece è fondato su una consultazione, solo in piccolissima parte vincolante, quale medium per suggerire cosa dovranno poi decidere gli eletti in parlamento. Ciò dimostra ampiamente che l’istituto referendario italiano non può in alcun modo essere spacciato quale espressione di “democrazia diretta”, come invece viene costantemente contrabbandato dagli addetti ai lavori, anche i più avveduti, non so se per malafede o per ignoranza.
Inoltre, aspetto particolarmente rilevante, l’ammissibilità di un quesito referendario è sottoposta al vaglio della giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale sistematicamente pone vincoli, paletti ed eccezioni che alla fine ne riducono la portata, rendendolo facilmente marginale. Pure interventi ad hoc del parlamento e del governo in carica possono rendere nulle parti di esso e preventivamente condizionarne in modo pesante rilevanza e prospettive.
È il caso dell’attuale referendum sulle trivellazioni. Sulla spinta propulsiva di 9 consigli regionali erano stati proposti 6 quesiti, miranti a mantenere il ruolo delle Regioni nella pianificazione della ricerca di idrocarburi, a pretendere la definizione senza ambiguità dei titoli delle concessioni, a contenere il proliferare delle ricerche oltre le 12 miglia dalla costa. A dicembre il governo è intervenuto su questi argomenti rendendo vani 5 dei 6 quesiti iniziali. Ne è rimasto solo uno, il più marginale, che richiede di non rinnovare alla scadenza i permessi delle trivellazioni in atto entro le 12 miglia dalla costa, di un insieme di quesiti che, a esser sinceri, fin dalle origini non erano mai entrati volutamente nel merito del problema vero, cioè la scelta delle politiche energetiche e del loro impatto ambientale. Troppi gli interessi, troppe le pressioni lobbistiche e dei potenti, troppa la pressione di una cultura della speculazione finanziaria che prevarica i bisogni di base delle popolazioni e dei territori.
Sia per il fatto di essere un referendum sia soprattutto per come è stato ridotto, il 17 aprile dunque non solo non servirà a nulla, purtroppo sarà un boomerang perché si trasformerà nell’ennesimo strumento di conservazione dell’attuale reazionario stato di cose presente.
Come ha scritto giustamente Mariella Caressa il 3 aprile 2016 sul suo profilo facebook, Votare si, votare no o non votare ai referendum sulle “trivelle” il risultato non cambierà: le trivelle ci saranno lo stesso.
Andrea Papi

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