21 novembre 2012

67 anni fa nascevano le Nazioni Unite, ma il mondo è ancora in guerra.



Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e alle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà, a praticare la tolleranza ed a vivere in pace l’uno con l’altro in rapporti di buon vicinato, ad unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune, ad impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli, abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini…
Questo è un passo di un documento storico: la Carta delle Nazioni Unite redatta il 24 ottobre del 1945 (qui il testo completo).
A distanza di 67 anni da quel giorno, la pace, la sicurezza e il rispetto dei diritti umani sono obiettivi ancora lontani e il mondo è ancora in guerra. Mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, lo è stato come oggi.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, la fine della Guerra Fredda e della contrapposizione tra Paesi Occidentali capitalisti e Paesi ad economia socialista, alcuni dei più autorevoli esperti e strateghi della politica internazionale avevano preannunciato un mondo finalmente pacificato, privo di guerre, una fase storica in cui gli uomini e le donne del pianeta, grazie ad una cocktail di democrazia e libero scambio, si sarebbero trasformati da nemici - amici in concorrenti. Passati ormai parecchi anni da quell’ evento abbiamo ormai capito quanto questa ipotesi di pace globale fosse basata su presupposti farraginosi. Basta dare un occhiata ad alcune cifre per rendersi conto quanto le previsioni di un mondo pacifico siano errate.
Dal 1988 al 1992, l’ONU ha gestito tante operazioni militari quante ne aveva intraprese nei precedenti quattro decenni. Attualmente le guerre in corso nel Mondo sono almeno 28. Oggi si spara e si muore, in Palestina, Israele, Libano, Iraq, Afghanistan, Kurdistan, Cecenia, Georgia, Algeria, Ciad, Darfur, Costa d’Avorio, Nigeria, Somalia, Uganda, Burundi, Congo (R.D.), Angola, Pakistan, Kashmir, India, Sri Lanka, Nepal, Birmania, Indonesia, Filippine, Haiti, Colombia. Si calcola che questi conflitti abbiano già causato la morte di più di 5 milioni e mezzo di persone. Telegiornali e carta stampata, ormai da qualche anno, ci parlano tutti i giorni di guerre, di bombardamenti, di eserciti, di milizie, di morti civili, di attacchi e di terrorismo. Parole come queste che sembravano relegate solo ai video games e alle partite di Risiko sono tristemente tornate a far parte del nostro lessico quotidiano. Nel corso di questa estate la guerra ha fatto sentire ripetutamente la sua presenza con l’escalation del conflitto mediorientale tra Israele e Palestina che si è esteso al Libano. Mentre le altre due guerre “famose” quella in Afghanistan e quella in Iraq sono ancora in corso e nessuno riesce ormai a prevedere quando finiranno.
Gizmodo propone una mappa mondiale 


Le aree colorate di viola sono quelle interessate da guerre, mentre quelle grigie rappresentano le zone geografiche "tranquille". Dei simboli poi "illustrano" la tipologia del conflitto in corso (traffico di droga, pirateria nei mari, incursioni aeree, battaglie via terra, terrorismo, ecc. ecc.) e la stessa intensità del colore indica la gravità del conflitto stesso.
Non voglio qui sviluppare un discorso sulle colpe e le ragioni, sull’analisi di chi sia la vittima e chi il carnefice, tanto meno voglio perdermi in sterili disquisizioni terminologiche sulle definizioni fantasiose ed ardite con cui giornalisti e politici amano oltremodo riempirci le orecchie, a mio avviso, solo per confondere ed intorpidire le acque. Voglio  solo evidenziare quei conflitti che affliggono milioni di uomini e donne nel mondo ma che per varie e molteplici ragioni non trovano risonanza tra le notizie che i mas media scandiscono ogni giorno. Dei 28 conflitti in corso, infatti, ne conosciamo al massimo 4 o 5, i più “famosi”, quelli dove sono coinvolti militari italiani. Quali sono le ragioni di questa mancanza di notizie sulle restanti guerre? Dimenticanza? Disinteresse? Ignoranza o calcolata rimozione? Perché la comunità internazionale o i singoli stati democratici si coalizzano per liberare alcuni popoli dalla tirannia di regimi dittatoriali mentre lasciano vivere, commerciano e a volte proteggono altri regimi altrettanto sanguinari e cruenti? Certo non è facile rispondere a tutte queste domande, sarebbe però sbagliato non farle e non provare a farsi un idea al riguardo.
La cosa che salta agli occhi è sicuramente una: lo stretto legame che c’è tra la “dimenticanza” da parte dei mass media e le ragioni strategiche, economico-politiche, che ogni guerra porta con sé. La maggior parte dei conflitti vengono combattuti nel Sud del Mondo in paesi poveri mentre le armi necessarie vengono prodotte da pochissime grandi potenze industriali che controllano la produzione ed il commercio del 90–95% degli armamenti.
Rimanendo sul piano generale, si potrebbero ridurre in tre categorie le modalità di gestione dei conflitti da parte della Comunità Internazionale e dei singoli stati.
La prima è quella dell’intervento armato contro uno dei belligeranti. Questo metodo ha come scopo quello di liberare e portare conforto umanitario alla popolazione civile martoriata dalla guerra o da un regime dittatoriale.
La seconda modalità è quella del coinvolgimento attraverso l’intervento umanitario, in questo caso a differenza del primo, l’intervento viene calibrato in modo da non danneggiare gli interessi delle nazioni più potenti presenti nell’area del conflitto.
Il terzo caso è quello dell’astensione da qualsiasi presa di posizione, ovvero la regola della non interferenza nel conflitto.
A quest’ultima categoria appartengono la maggior parte delle “guerre del silenzio”. I diversi paesi democratici, seguendo la logica del “ciò che non si vede non esiste”, preferiscono disinteressarsi e fare in modo che le informazione riguardanti tali conflitti non arrivino ai cittadini del “mondo libero” attraverso i maggiori mezzi di informazione.
In alcuni stati dell’Africa, dell’America Latina o dell’Estremo Oriente la popolazione civile viene lasciata in balia delle violenze e dei massacri commessi da eserciti e da milizie private in lotta. Altrettanto si fa con le rispettive multinazionali occidentali lasciate libere di sfruttare, grazie alle guerre, le ricchezze del sottosuolo di cui tali paesi sono ricchi.
Perché questo atteggiamento? Non sarà che ci sono di mezzo interessi economici? Non è più un segreto che molte guerre vengano sostenute e finanziate da potenti lobby economiche e finanziarie occidentali che guadagnano sia dal commercio delle armi che dalle vantaggiose condizioni di sfruttamento delle ricchezze dei paesi in guerra. Non è più un segreto che in molti conflitti una o più parti in causa siano finanziate dai soldi di alcune multinazionali in cambio di condizioni vantaggiose di sfruttamento di giacimenti di petrolio, oro, diamanti, uranio, coltan, cobalto ed altri indispensabili e rare materie prime necessarie alle industrie dell’Hi-Tech.
È triste vedere quanti sono i posti dove le persone combattono, soffrono e muoiono. E scoprire purtroppo quante di queste guerre siano poco interessanti per i principali media internazionali, impegnati a spostare i propri riflettori su quei conflitti che per ragioni economiche, politiche ed ideologiche rispondono meglio ai propri interessi. 
È triste assistere quotidianamente all’arroganza e alla crudeltà del potere.


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