16 novembre 2013

Cronache delle baby-prostitute: la pancia (e dintorni) del Paese

Di Alessandro Robecchi.
Brutta roba la crisi dell’editoria stampata. Non è facile far concorrenza al web, ma ci si prova, eh, ci si prova con una certa tenacia. Compie un paio di settimane, per esempio, il caso delle baby-prostitute, dette anche baby-squillo (scuola ateniese), baby-escort (upgrade socioeconomico), o “lolitine” (licenza poetica). Non c’è giornale che non abbia ogni giorno – da giorni – una sapida pagina sull’argomento. Le telefonate. I verbali. La mamma cattiva. Il pappone stronzo. Gli appartamenti. Il quartiere chic. Gli annunci. I rarissimi omissis e le numerose analisi sociologiche. I soldi. La cocaina. Le borse firmate. L’immaginario arcorian-maialesco, ascendente porco con la luna in mutande, se fosse un oroscopo. Eccetera, eccetera. Ancora da valutare quanto tutto questo scrivere e pubblicare e titolare con malcelata malizia, strizzatine d’occhio e colpi di gomito da bancone del bar-sala-bigliardo abbia rubato spazio a Youporn o eleganti cenacoli hegeliani consimili. Con due grandi assenze in primo piano, che brillano come neve al sole. La prima: qualche moto di umana pietà per delle ragazzine triturate da tutti (madri, sfuttatori, media). La seconda: nulla o quasi sui clienti. Ora, lo dico da maschietto italiano né buono né cattivo, non esattamente moralista ma in qualche modo sensibile a un barlume di morale: se un adulto va a letto con una quattordicenne è un delinquente. Non lei, la quattordicenne, che è la vittima e a quattordici anni ha tutto il diritto di non capire, o di non sottrarsi o di essere un po’ scema. Ma lui, che è (scusate il francesismo) un pezzo di merda.
Dunque, a leggere la grande saga delle due ragazzine romane si ha la sensazione di leggere le cronache di una rapina, dove per giorni e giorni si parla della vittima, cosa faceva, cosa non faceva, cosa diceva al telefono, se andava a scuola, se non ci andava, se aveva la mamma scema o delinquente, se aveva la famiglia disagiata, se si comprava le scarpe da cento o duecento euro, se si truccava, se metteva gli annunci in rete. E nemmeno una riga sul rapinatore, che rimane senza nome, senza identikit, senza colpa, alla fine. E questo nonostante la legge punisca lo sfruttamento della prostituzione minorile (clienti e sfruttatori, come ben sappiamo dai tempi di Lele Mora, Emilio Fede e e nonno Silvio) e non la ragazza, che è vittima. E così ecco il florilegio di raccapriccio per le madri complici o ignare delle ragazzine, ma nemmeno una riga su quelli che (magari padri anche loro, no?) mettevano a mano al portafoglio per divertirsi con le figlie. Leggereste un pezzo di cronaca nera in cui si dice tutto della vittima e non si spende nemmeno una parola per il colpevole? Forse no. Ma in questo caso sì. E per un motivo molto semplice: quel vago prurito che confina con la morbosità, quel voyeurismo che finge scandalo e occhieggia compiaciuto, quel “Uh, signora, son cose che non si possono vedere, ma si sposti un po’, per favore, che mi toglie la visuale”. La grande stampa ci marcia alla grande, condisce con qualche analisi socio-qualcosa e serve caldo per il gentile pubblico. Dopo il caso Cancellieri, l’immonda situazione delle carceri italiane ha tenuto banco un paio di giorni, poi ha stufato. Due ragazzine vittime di anonimi delinquenti, invece, valgono pagine di carta, speciali, dossier, riflessioni, cronache, pruderies, ammiccamenti, doppi sensi e moralismi a basso costo. In un paese in cui la pancia è ancora molto, troppo più importante del cervello. Si intende: la pancia e zone circonvicine.

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