di Fabrizio Casari
Il Senato della Repubblica ha votato la decadenza da senatore di
Silvio Berlusconi. Un voto che rappresenta una prassi consolidata, un
esercizio dovuto a seguito di condanne penali o civili che implichino
l’interdizione dai pubblici uffici. La sceneggiata delle donne di Forza
Italia vestite a lutto, con lui che associa la magistratura alle Brigate
Rosse è il degno epilogo di una avventura politica e di costume che del
paradosso e della sfacciataggine, dell’ignoranza e del vittimismo, ha
fatto il suo marchio di fabbrica.
Comincia ora una nuova fase politica, con la destra italiana sempre
più desiderosa di una crisi parlamentare a breve, che consenta di
consumare possibili vendette pur a fronte di incerte vittorie. Dal
momento però che comunque Berlusconi non potrà essere eletto nella
prossima legislatura, la voglia di tornare alle urne vive solo dello
sfruttamento emotivo in un arco temporale breve della vicenda
berlusconiana, ieri trasformatasi da storia di successo in storia di
persecuzione.
La persecuzione, il complotto, le trame e i
tradimenti. Questi gli ingredienti della tragedia di un uomo privo del
senso del ridicolo, ultra potente che si è cosparso di ridicolo. Un
personaggio che ha dimostrato come le condizioni avverse del quadro di
sistema rendano impossibile l’elaborazione di una strategia politica
capace di ribaltare il piano. Affidatosi ai pasdaran, primi della fila
Santanchè e Sallusti, (sempre più identificati come i Rosa e Olindo del
biscione), il risultato non poteva essere migliore di quel che è stato.
Scarsa lucidità, incapacità di lettura politica, assenza di
ragionevolezza nel trattare la vicenda interna sono stati i caratteri
principali dell’avventura dal sapore donchisciottesco consumatasi in
queste ultime settimane.
A voler ascoltare o anche solo leggere
quanto Silvio Berlusconi ha affermato alla vigilia del voto, c’era da
domandarsi davvero dove finiva la realtà e cominciava la fantasia, cioè
dove il terreno del diritto individuale cedeva il passo all’ego
ipertrofico del cavaliere quasi decaduto. Giacché se per il primo
aspetto il condannato annunciava un ricorso per la revisione del
processo (che a giudicare da quanto anticipava sembrava però una solenne
patacca, diffusa al solo scopo di evitare il voto sulla decadenza), su
quello della personalità malata si è assistito al tanto peggio tanto
meglio.
Lancio
di appelli a deputati e senatori affinché non si macchiassero di quello
che deve tuttora sembrargli, fondamentalmente, un regicidio. Le ha
provate tutte. Alla vigilia ha persino chiesto a tutti di votare in suo
favore "in modo da non doversi un giorno vergognare di fronte ai propri
figli", ricalcando così la scenetta mediatica di quando giurò sulla
testa dei suoi a meri fini elettorali. E pensare che aveva sempre
definito le istituzioni politiche come un “teatrino”, salvo non voler a
nessun costo veder scendere il sipario.
Deve essere proprio il
convincimento che l’applicazione delle norme e delle sentenze
giudiziarie, quando riguardino la sua persona, siano un regicidio, dal
momento che in un delirio ormai inarrestabile condito con grida
manzoniane, il cavaliere di Arcore denunciava un ridicolo colpo di
Stato, omettendo che, letteralmente, un colpo di Stato mira a ribaltare
un sistema e a cacciare chi lo rappresenta istituzionalmente; nella
storia non si è mai saputo che un colpo di Stato viene realizzato per
ridurre il margine di manovra di un oppositore.
La stessa
pretesa per la quale Napolitano avrebbe dovuto concedergli la grazia è
parte del suo convincimento malato di essere al di sopra di tutti e
della stessa legge. Perché oltre a rappresentare un atto individuale di
clemenza a totale discernimento del Capo dello Stato, sentito il parere
del Ministro di Grazia e Giustizia, la grazia non può essere concessa se
la persona cui è destinata è sottoposta ad altri procedimenti
giudiziari in itinere (e Berlusconi ha altri tre processi aperti).
Oltre a ciò, la grazia viene concessa in presenza di un evidente
ravvedimento del condannato, non certo mentre lo stesso accusa
magistratura, presidenza della Repubblica, Senato e Camera dei Deputati
di colpo di Stato ai suoi danni. Men che meno quando il condannato
esalta la figura del suo stalliere mafioso, cui dedica parole di stima
per non essersi pentito come già in precedenza aveva fatto Dell’Utri.
Utilizzando
l’arcinota metafora del marziano che fosse sbarcato sulla terra e che
avesse letto quanto avviene in questi giorni sulla vicenda Berlusconi,
ascoltando o leggendo quanto egli affermava e afferma, avrebbe potuto
pensare di trovarsi di fronte ad un uomo che, rinchiuso nel braccio
della morte, si proclama innocente alla vigilia dell’iniezione letale.
Invece, si trattava solo del voto sulla decadenza da senatore del
condannato Silvio Berlusconi. Voto che, addirittura, è un ulteriore
passaggio garantista verso l’applicazione della sentenza definitiva del
quale ha usufruito solo in quanto parlamentare della Repubblica.
Andrebbe
semmai evidenziato come, nonostante le reiterate sentenze di
colpevolezza, che lo identificano quale diretto responsabile di alcuni
dei peggiori reati amministrativi, civili e penali, Berlusconi verrà
solo privato del titolo di Senatore della Repubblica, ma non conoscerà
né prigioni né confino, non dovendo scontare altro che una leggerissima
condanna ai servizi sociali. Per qualche tempo, insomma, dovrà diventare
una persona normale colpito da una leggerissima condanna
Sosteneva ieri, in conversazioni private fatte filtrare alla bisogna:
“Ricevevo gli uomini più importanti del mondo ed ora mi trovo a dovermi
figurare come portatore di vassoi in qualche centro di recupero o di
assistenza”. Insomma si è dipinto come statista (dipinto di chiara
impronta onanistica) e ha il terrore di diventare un cameriere, ha
vissuto tra i ricchissimi e teme di dover incrociare i poverissimi.
La
fine dell’immunità, per chi si è arricchito all’ombra di poteri
tenebrosi e amicizie politiche, che ha acquistato soprattutto con mezzi
illeciti tutto ciò che valeva la pena possedere, coprendosi così con un
manto di potere che avvolgeva ogni ganglo del corpo del Paese, rende il
momento particolarmente difficile.
Dover abbandonare i sogni monarchici procura in soggetti come
Berlusconi la tipica sindrome abbandonica della star del cinema
invecchiata e dimenticata, che senza più disporre delle platee adoranti,
rivede ossessivamente i film che la videro protagonista illudendosi di
esserlo ancora. Il suo amico Putin, non a caso, gli ha ricordato come il
sostegno all’inizio è ampio, poi si riduce e infine svanisce.
Ci
sono due livelli che s’incastrano perfettamente nella novella
berlusconiana: la perdita di prestigio istituzionale e, ancor più
sostanziosa, quella dell’immunità parlamentare. I suoi sicari nelle
redazioni dei suoi diversi house-organ paventano ordini di cattura che
sarebbero pronti ad essere emessi non appena l’immunità dovesse cessare,
ma sono solo una parte della guerra mediatico-politica che dichiara un
uomo impaurito dalla normalità, terrorizzato dall’associazione tra
diritti e doveri riguardante ogni cittadino.
Sono mesi che la
condanna definitiva è stata emessa e fin troppo tempo era passato. Ogni
possibile manovra destinata a impedirne o anche solo ritardarne
l’esecuzione è stata approntata. Per schivare il voto decisivo non si è
risparmiato: bombardamento mediatico tramite i suoi sicari nella
pubblicistica, minacce dirette e insulti ad ogni istituzione,
cambiamento politico della sua formazione, ritiro del sostegno al
governo Letta.
A definire ancora una volta la singolarità del
caso avevano provveduto le intromissioni non richieste di chiunque,
direttamente o no, sia a suo libro paga. Un ciarpame urlante di scarsa
dignità. Che non ha aggiunto niente a quanto già si conosceva ma che ha
confermato quanto il valore del denaro e del potere sia la condizione
perché in un mondo di teoricamente uguali, qualcuno sia più uguale degli
altri. Ribadendo con ciò quanto l’assioma secondo il quale “la legge è
uguale per tutti” sia, nella migliore delle ipotesi, un simpatico
auspicio.
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