28 marzo 2016

No, non sono stati giorni di festa sereni.

Parigi, Bruxelles, Istanbul… la lista è lunga e fa il giro del mondo. Sabato in uno stadio di un villaggio in Iraq , domenica a Lahore, in Pakistan, in un parco giochi. La maggioranza delle vittime sono ragazzi, donne e bambini.
Non so quanti tg abbiano fatto edizioni speciali per questo, proprio il giorno di Pasqua, non ho nemmeno acceso la tv. E non visto bandiere nei profili dei social. Ma sicuramente ci indigneremo...forse un po' meno....ma leggeremo comunque le analisi, ascolteremo le invettive e le richieste di guerra, muri, espulsioni, più armi, più morti, più morti, più morti. Ci riempiremo di orrore e di terrore, di lacrime e di lutto e di un dolore insostenibile. Ma questi ennesimi abominevoli crimini devono anche aprirci gli occhi e la mente. Ad essi bisogna rispondere con la forza della verità e della ragione. E la prima vera domanda da farsi è questa: a chi giova tutto questo?

Da Il Fatto Quotidiano:
 A uscirne vincitore è sempre il potere. Non v’è dubbio. Anche questa volta, la versione ufficiale è lacunosa: non convince, se non quelli che già sono convinti e i tanti che sono disposti a credere a quanto vedono sugli schermi televisivi, sulle pagine dei giornali e sugli altri organi della disinformazione di massa. 
Vi sono passaggi e punti che paiono montati ad hoc. Vi sono domande a cui non v’è risposta: le immagini ci restituiscono una realtà derealizzata o, se preferite, una realtà mediatizzata. Una realtà ritagliata su misura per indurci a odiare l’islam e per prepararci psicologicamente alla nuova guerra contro il terrorismo, ossia alla nuova crociata in stile postmoderno.
Chi trae giovamento da queste stragi che, come a Bruxelles, insanguinano il mondo?
Non è difficile dirlo: il potere. Più precisamente, quel potere che subito ha detto “ci vuole più Europa”, “ci vuole un’intelligence unificata”, “ci vuole un esercito unico europeo”, “ci vuole più sicurezza e quindi meno libertà”, e così via.
Per un anno almeno non si parlerà più di finanza, disoccupazione, precarietà, violenza economica: il nemico sarà sempre e solo il terrorismo, identificato impunemente con l’islam, secondo la più vieta retorica fallaciana.
La crisi è un metodo di governo, diremmo con Foucault: impone a livello economico scelte politiche come necessità ineludibili. Lo stesso modello si attiva anche con il terrorismo. Mediante la crisi e lo stato di permanente insicurezza, si prospetta uno stato d’eccezione costante, grazie al quale, nel quadro della quarta guerra mondiale iniziata con il 1989 (monarchia del dollaro contro ogni forza resistente al suo dominio imperialistico), la potenza atlantista, con il suo codazzo di vassalli e colonie, può sempre di nuovo intervenire militarmente, in nome ora dell’emergenza terroristica, ora della presenza di Stati non allineati demonizzati come pericolosi per la pace mondiale.
Lo stesso paradigma securitario può, per questa via, diventare egemonico: in nome della sicurezza contro l’emergenza del nemico e del terrorista, si restringono le libertà e si inducono i cittadini ad accettare limitazioni e invasioni nella loro vita privata che, in altri contesti, mai sarebbero state accettate.
Come inconfutabilmente si evince dalla situazione prodottasi negli Usa dopo l’attentato alle Torri Gemelle (New York, 11.09.2001), la situazione di crisi emergenziale, mettendo in discussione la sicurezza, diventa un “metodo governamentale” (M. Foucault) teso a intensificare il controllo panoptico dei cittadini e a limitarne le libertà.
Comunque lo si voglia intendere e definire, il terrorismo che insanguina il mondo si rivela oggi funzionale all’ordine egemonico. Il terrorismo, da un lato, permette alle pratiche manipolatorie della fabbrica dei consensi di produrre un immediato adattamento alla condizione neoliberale e al partito unico della produzione capitalistica, contraddittori ma pur sempre preferibili rispetto allo stato d’eccezione del terrore. E, dall’altro, produce un’automatica delegittimazione di tutte le critiche radicali della società esistente, subito accostate alle pratiche terroristiche e, per ciò stesso, integralmente esautorate: a uscirne trionfante è sempre e solo il partito unico della produzione capitalistica.

Diego Fusaro

Il nemico da battere non è la religione in sé e nemmeno il fondamentalismo, ma le condizioni economiche, sociali e (geo)politiche che fin dalla spartizione della "carcassa del turco" hanno prodotto disordine e guerre nel Medio Oriente e in Nord Africa. Dapprima queste condizioni di sfruttamento e sottosviluppo avevano come agente principale il colonialismo, oggi il protagonista è l’imperialismo, cioè i grandi interessi e i grandi affari (petrolio, armi, traffici, rotte commerciali, ecc.).
È una vecchia storia: quale motivo più forte di una fede religiosa o di una "scontro di civiltà" per fare una guerra?

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