11 marzo 2016

Tripoli bel suol d'amore.

È di questi giorni la querelle se andare in Libia con le truppe oppure no. Un antico vizio che ha alle spalle diverse italiche spedizioni e l’odore stantìo di un elmetto coloniale.
Gli alleati, USA per primi, spingono perché l’Italia si metta alla testa del contingente NATO che sbarcherà in Libia. Ma Renzi, che già scaldava i motori dei carri armati, ha frenato nel leggere i sondaggi: più dell’80% degli italiani è contrario all’intervento in Libia.
In realtà è solo questione di tempo, breve tempo. Solo questione di come gestire l’operazione senza perdere troppo consenso. 

Il somaro va sempre legato dove vuole il padrone.
E poi, per dirla tutta, l’Italia con i suoi alleati NATO è in guerra già da 25 anni, sin dai tempi della prima guerra in Irak. La presenza in Libia dei servizi di intelligence italiani è già un atto di guerra, come i droni statunitensi che partono dalle nostre basi. A Sigonella ci sono già quattro cacciabombardieri AMX pronti al decollo e già da tempo la parola “militare” ha sostituito la parola “umanitario” di fianco alla parola “intervento”. 
Le menzogne però restano. 
Oggi è il contrasto all’ISIS, quando ormai è chiaro che questo cancro terroristico è farina del nostro sacco, delle intelligence occidentali, USA in testa e in combutta con petromonarchie e Turchia: un grande esercito di zimbelli tagliagole catapultato nelle zone da predare, dove ci sono governi non compatibili, secondo il metodo NATO: guerra e caos. 
In palio sul terreno libico c’è tanto petrolio di prima scelta.
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In piena facoltà,
Egregio Presidente,
le scrivo la presente,
che spero leggerà.
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest’altro lunedì.
Ma io non sono qui,
Egregio Presidente,
per ammazzar la gente
più o meno come me.
Io non ce l’ho con Lei,
sia detto per inciso,
ma sento che ho deciso
e che diserterò. 

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