Chiedo scusa al grande Giorgio Gaber se per parlare di una cosa molto
terra a terra prendo in prestito le sue parole. Non mi sto addentrando in un
discorso sul significato di questa bellissima parola tanto amata e tanto
abusata, ma voglio semplicemente parlare di una cosa che trovo innovativa, di
un’alternativa che, a mio avviso, offre una piccola soluzione alle tante, ormai
troppe difficoltà che stiamo attraversando in questo periodo, di un modo di
vivere che ripropone in termini moderni la vecchia idea della “comune”, una
riscoperta più che una novità quindi: il cohousing.
Qualcuno potrà dire che ho scoperto l’acqua calda, e forse è
vero, lo ammetto, non ne avevo mai sentito parlare (embè, che volete? Sono sei
anni che vivo praticamente reclusa su una montagna!!!). E sapete come l’ho
scoperto? Guardando Forum!!! Ebbene sì, mio padre (97 anni compiuti!!) quando
pranza, vuole vedere quello, che volete farci?
Sì, avevo sentito parlare di eco villaggi tipo quello di Jacopo Fo, che
però odorano tanto di business più che di alternativa. Questi mi sembrano una cosa diversa, più funzionali ad un nuovo modo di vivere sociale che sta diventando necessario se non urgente.
Ho voluto quindi approfondire cercando informazioni più
autorevoli rispetto agli autori di una dubbia trasmissione televisiva ed eccomi
qui a parlarne in modo decisamente positivo a chi, come me, non ne sapeva
niente.
Il cohousing è un modo di abitare con spazi e servizi
condivisi tra persone che progettano insieme una comunità residenziale. Chi
vive in cohousing, sono più di mille gli insediamenti di questo tipo nel mondo,
vive una vita più semplice, meno costosa e meno faticosa decidendo innanzitutto
cosa condividere: un micronido per i bambini, un orto o una serra, un servizio
di car sharing, capacità artigianali o manageriali, cose che SA e PUO’ fare
insomma, naturalmente in cambio di altrettante cose che NON SA e NON PUO’ fare.
Nate nel nord Europa cinquant'anni fa, le case condivise
sono di fatto condomini con una marcia in più, a cominciare dall'usufrutto
degli spazi comuni, ma soprattutto grazie alla cultura della socialità e del
mutuo soccorso. Si stimano risparmi medi annui per abitante del 10-15%, grazie
a utenze condivise e autoproduzione energetica. È come la vecchia sana cooperazione
tra vicini di casa, oggi praticamente dimenticata dalla maggioranza delle
persone. Siamo talmente presi dai problemi individuali, le difficoltà di
sopravvivenza ci spingono a comportamenti che oserei definire asociali: la famiglia si sparpaglia, il lavoro è
flessibile, il costo della vita lievita e gli stipendi si abbassano, la benzina
aumenta e i servizi al cittadino diminuiscono, genitori separati si palleggiano
i figli e i vecchi, nel migliore dei casi, sono affidati a badanti che dormono
sul divano. Il mercato immobiliare fatica a rispondere ai nuovi assetti sociali
e, soprattutto, nessuno, e intendo nessuna persona normale che lavora
onestamente per vivere, ha più la possibilità di comprarsi casa e metter su
famiglia. Ed ecco che un’altra cosa buona del cohousing, oltre al fatto di
condividere e di mettere a disposizione le proprie capacità e possibilità, è
proprio quella di usare fabbricati dismessi, come vecchie fabbriche o edifici
militari in disuso, e quindi a prezzi agevolati, per i progetti abitativi.
Cercando cercando ho visto che anche in Italia, che
normalmente in queste cose alternative rimane sempre un po’ indietro, esistono alcune
realtà
di questo tipo e questo mi riconcilia un po’ con la vita, ho come l’impressione
che le famose utopie di autogestione e partecipazione stiano diventando l’unica
strada percorribile.
A prescindere da questo piccolo esempio di civiltà che mi
auguro si allarghi ad altre forme di vita sociale, la questione della
partecipazione è piuttosto complessa, è un processo di grande impegno e fatica,
sempre diverso e il più delle volte molto lungo. La partecipazione impone di
superare diffidenze reciproche e riconoscere conflitti e posizioni antagoniste.
E’ difficile che il dialogo si apra subito ad una fluente ed efficace
comunicazione, ma quando si raggiungono fiducia e confidenza, allora il
processo diventa vigoroso, spinge all’invenzione, innesca uno scambio di idee
che viene continuamente alimentato dall’interazione dei vari modi diversi di
percepire le questioni portate nel dibattito dai vari interlocutori. A questo
punto l’ambiente si scalda e “accade” la partecipazione, che è un evento non
solo intellettuale o mentale, ma anche fisico, alimentato da calore umano. Man
mano che lo scambio si intensifica, l’interazione diventa sempre più stimolante
e i suoi esiti non sono più prevedibili, perché dipendono dagli interlocutori,
che sono sempre diversi e perciò rendono unico il processo-progetto a cui
partecipano.
Per questo non esistono ricette per la partecipazione. Se
cambiano i partecipanti e le ragioni per cui si sono incontrati, cambia la
partecipazione: bisogna inventarla e sperimentarla ogni volta da capo.
Oggi la capacità di condividere a livelli più alti è molto
attenuata, ma io credo che riprenderà. Non ho mai predetto e non credo che si
possa predire il futuro, ma sono certa che qualcosa si sta muovendo in questo
senso: abbiamo bisogno di unire le nostre capacità per far fronte a cose più
grandi di noi. Lo sforzo di organizzare e dare forma ad uno spazio umanamente
sostenibile non può essere individuale, deve per forza coinvolgere chi
direttamente o indirettamente lo utilizza.
Non sarà facile, perché la società è sempre più intricata,
infinite sono diventate le classi, le categorie, i gruppi sociali, senza
contare le prevaricazioni, le speculazioni, il consumismo e tutto il resto, ma.............sono ottimista.
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