Di Alessandro Robecchi
Non c’è niente di peggio di chi non capisce le metafore, di chi piega e
modella le allegorie a suo uso e consumo. Dopotutto, se Gesù si
esprimeva per parabole un motivo c’era, voleva che capissero tutti,
anche i più semplici: il linguaggio figurato serve soprattutto a questo.
E così qui, nel mondo alla rovescia dei grandi media italiani, tutto
pare girare all’incontrario. La retorica che si è spiaggiata in questo
giorni intorno all’isola del Giglio dice molto sulla furbizia italiana,
sul trasformare un disastro in resurrezione. Ore e ore di diretta
televisiva per il raddrizzamento della Concordia, chili e chili di
parole ad ogni centimetro di scafo recuperato dal mare. Fino alla
ciliegina sulla torta: la telefonata del presidente del consiglio alla
sala operativa, in cui parla di “orgoglio italiano” per le operazioni di
recupero. Ora, naturalmente si tratta di un grande spettacolo, e c’è da
festeggiare che una delle coste più belle d’Italia non sarà più lordata
da un rottame che fu di lusso e che stava lì a testimonianza
semigalleggiante dell’insipienza nazionale. Bene. Però, come in ogni
cosa della vita, suggerirei prudenza e una corretta lettura delle
metafore. A risollevare la Concordia dalle acque lavorano cinquecento
persone di ventisei nazionalità. Dunque sull’orgoglio italiano ci
sarebbe da ridire. Orgoglio mondiale andrebbe meglio, ecco. Mentre il
disastro, quello sì, fu tutto italiano, dalla pratica medievale
dell’inchino (l’omaggio al potente di turno), alla spacconeria
cafoncella (“Il sorpasso” di Risi, se si vuole ricorrere al cinema),
alla fuga ridicola e vile del comandante (restando al cinema: “Ve lo
meritate, Alberto Sordi”, cfr. Nanni Moretti). Dunque la corretta
lettura della metafora è: noi (uno di noi) abbiamo fatto un casino
inenarrabile. Loro (intesi come tecnici stranieri, esperti di ogni
angolo del mondo) sono venuti a rimetterlo a posto. Del resto, è quello
che ci piacerebbe accadesse per Pompei, per il Fori a Roma, per molte
delle ricchezze italiane che trattiamo male e malissimo.
Ma c’è di
più. La corsa a rimirare i titanici lavori di raddrizzamento di una nave
e a cercare in quel tirar di cavi una qualche consolazione alle nostre
disgrazie, un’immagine di riscatto, un “orgoglio” ritrovato, denuncia in
pieno il sogno italiano dello stellone, della provvidenza, del miracolo
a cui aggrapparsi. Se ci pensate, è lo stesso meccanismo mentale che
sostiene tutte le tesi sull’uomo della provvidenza. Ci pensa lui. Meno
male che c’è. Arriva uno e dal casino totale crea l’ordine. Un abbaglio
in cui il Paese cade periodicamente con la stessa stralunata fiducia,
sempre dimentico che chi doveva mettere a posto i disastri con la sola
imposizione delle mani (o del manganello, o della spending review) ha
solo creato disastri maggiori. Ora, allo stesso modo, ecco la retorica
del miracolo italiano che si ripete per un’operazione tecnica. La
metafora direbbe: visto? A provocare una tragedia immane ci vuole un
minuto, mentre a rimettere le cose a posto servono mesi, lavoro,
pazienza e soldi. Ecco, questo dovrebbe insegnare la metafora della
Concordia a un popolo bambino. Invece no: invece la si piega come un
elastico, come un chewingum per dire: “Visto, il genio degli italiani
che tirano su una nave come quella?”. Una sorta di strabismo di comodo,
una prospettiva sghemba. La metafora della riemersione del Paese?
Sarebbe bello. I fatti, invece, dicono che sono arrivati bravi tecnici,
molti stranieri, per mettere a posto un brutto pasticcio che si poteva
evitare.
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