E’ notte e nel reparto di ostetricia e ginecologia di un ospedale di
Pordenone una donna sta molto male dopo l’intervento per l’interruzione
volontaria di gravidanza. L’ostetrica teme un’emorragia e chiede
inutilmente l’intervento della dottoressa in turno ma questa si appella
all’obiezione di coscienza da cui si sente tutelata. Alla fine interviene il primario del reparto che presta soccorso alla paziente.
Ieri
la sesta corte penale della Cassazione ha condannato ad un anno di
reclusione e all’interdizione dall’esercizio della professione medica
la dottoressa che quella notte rifiutò di dare le cure mediche alla
paziente ricoverata. La suprema corte ha infatti ritenuto che
l’obiezione di coscienza riguardi solo la fase dell’intervento
chirurgico fino all’espulsione del feto e della placenta, non i momenti
precedenti o successivi l’interruzione di gravidanza.
Fino a questa sentenza, l’estensiva interpretazione dell’articolo 9 della 194 che prevede l’obiezione, ha lasciato molte donne prive di assistenza medica negli ospedali italiani prima o dopo aver abortito,
fino al verificarsi di situazioni assurde come l’obiezione dei
portantini e di infermieri che nemmeno intervengono nell’iter dell’IVG.
Nel libro “Abortire tra obiettori‘
sono raccontate situazioni in cui viene leso il diritto delle donne,
umano primo che legale, di ricevere assistenza medica e insieme ad esso
viene tolta ogni dignità e rispetto. Nell’ottundimento delle coscienze
sta avvenendo in Italia una sorta di moderna inquisizione contro le
“streghe” che abortiscono.
L’obiezione di coscienza ormai riguarda l’80 per cento dei ginecologi nel sud Italia e
il 70 per cento nel nord. Se non ci saranno risposte politiche
adeguate, nelle strutture pubbliche italiane tra meno di cinque anni
non sarà possibile ricorrere all’aborto legale.
Se così fosse si riaprirebbe lo scenario ipocrita e discriminatorio
degli anni che hanno preceduto la 194: le donne con possibilità
economiche potranno abortire all’estero o in strutture private, quelle
meno abbienti dovranno ricorrere all’aborto clandestino, esporsi a
rischi di salute e di vita. Le donne, le precarie, le immigrate, le meno
abbienti, torneranno a morire di aborto (e ci sono già casi tra le immigrate).
Riguardo questo problema non c’è stata nessuna risposta politica,
nonostante i rischi per la salute delle donne, le uniche iniziative
istituzionali hanno riguardato i compromessi fatti sulla pelle delle
donne con i movimenti contro l’aborto legale (diamogli finalmente
l’esatta denominazione) che chiedono di entrare nelle strutture
pubbliche dove si pratica l’IVG.
Sono seguiti attacchi ai
consultori come sta avvenendo da anni nel Lazio o protocolli per
migliorare l’iter dell’IVG che non affrontano il problema dell’obiezione
di coscienza quando più che il diritto di una scelta individuale,
diventa ostacolo all’applicazione della 194 e al diritto di scelta delle
donne. Le difficoltà sono soprattutto per l’aborto terapeutico
per le malformazioni del feto. Le donne sono costrette a recarsi da una
struttura sanitaria all’altra, mentre le liste e i tempi di attesa si
allungano, e il tempo è poco, e i ginecologi che applicano la 194 sono
lasciati soli con un enorme carico di lavoro. Sui problema della
mancanza di regolamentazione del numero di medici obiettori, sono
impegnati da anni i ginecologi della Laiga che hanno affiancato l’IPPF nel ricorso al Comitato Europeo per i diritti sociali (Consiglio d’Europa).
In attesa che l’Europa si pronunci (ci vorranno circa 18 mesi), questa
sentenza della Cassazione ha fatto almeno luce su quanto avvenuto
quella notte a Pordenone quando l’obiezione di coscienza è divenuta un
‘omissione di coscienza.
di Nadia Somma
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