"Ti passerà la voglia di difendere le donne... Stai
attenta e guardati sempre le spalle, da questo momento questo posto non è più
sicuro per te" e a seguire una serie di insulti. E' questo il contenuto di
un biglietto che Simona Giannangeli, avvocato, parte civile con l'associazione
antiviolenza nel processo a carico di Francesco Tuccia, ha trovato sul
parabrezza delle propria auto.
Per chi non ricordasse Francesco Tuccia è il militare in
servizio all’Aquila accusato dello stupro di una ragazza di vent’anni, ridotta in fin di vita e con lesioni
gravissime e permanenti, avvenuto a Pizzoli il 12 Febbraio 2012. Dopo la
brutale violenza la giovane fu lasciata esanime e insanguinata in mezzo alla
neve del piazzale del locale e fu salvata dall'intervento di uno degli addetti alla sicurezza, che dopo
averla soccorsa, allertò il 118.
Il collegamento con il caso Tuccia appena concluso con la
condanna ad otto anni per l'ex militare è apparso immediato.
“Non voglio collegare niente”, commenta
l’avvocato del Centro antiviolenza, “ma certo il contenuto di quel
messaggio appare chiaro. Ho provato tanta rabbia e con il passare delle ore è
cresciuta anche l’indignazione. Quel biglietto è la conferma di quanta
intolleranza possa ancora esistere nei confronti delle donne che prendono la
parola in un contesto pubblico e che magari lo fanno nel nome di altre donne. È
il segno e la riconferma del fatto che non ci sono poi grandi margini di
libertà quando le donne decidono di denunciare le violenze subìte. O, comunque,
di operare a fianco di altre donne vittime di violenza in qualità, come nel mio
caso, di avvocato. Quel biglietto sul parabrezza della mia auto significa che
lo strumento utilizzato contro le donne è quello della minaccia”. In un primo
momento la Giannangeli aveva deciso di non rendere pubblica la cosa. Poi il
ripensamento “perché si sappia che questi fatti non ci intimidiscono. Provo un
sentimento di rabbia che si accompagna alla consapevolezza tristissima di
vivere in un tempo in cui gli uomini fanno queste cose. Parlo al maschile
perché sono sicura che questo genere di cose viene dalla testa di un uomo. Ho
voluto raccontare di queste minacce per far comprendere alle donne che,
qualunque cosa accada, noi saremo sempre al loro fianco”. Per ora l’avvocato
Giannangeli ha deciso di non presentare alcuna denuncia. “Sarebbe una cosa
contro ignoti e sappiamo come queste cose vanno a finire. Vedremo cosa fare se
ci saranno, per dirla in modo ironico, altre attenzioni”. L’avvocato ripete di
non voler parlare del processo Tuccia. “Ma non accade tutti i giorni di essere
parte civile in un processo del genere e di ritrovarsi, nemmeno 24 ore dopo la
sentenza, a dover fare i conti con un biglietto minatorio lasciato nell’auto
parcheggiata sotto casa”.
Le violenze sulle donne non sono un’emergenza ma i numeri reali dicono di una violenza
costante. Un’abitudine, frutto di una cultura antifemminista, che stabilisce
relazione impari tra i generi, dove il potere maschile si riverbera sul corpo e
la psicologia delle donne per fermarne l’emancipazione. Quelle minacce, che
sottolineano una volta di più quanto la
violenza contro le donne sia radicata e pervasiva, dimostrano purtroppo la
persistenza di un disprezzo ideologico di genere, che si è espresso ora nella
forma della minaccia anonima ma è lo stesso che nei casi più estremi porta alla
violenza fisica. Quelle minacce e quegli insulti ad una donna che difende le
donne, rappresentano il simbolo dell'odio della rabbia e del disprezzo nei
confronti di tutte le donne. Forse il gesto di uno squilibrato, ma di certo un
ennesimo segnale di violenza, una violenza che ha il chiaro obiettivo di
terrorizzare e indurre al silenzio una donna, tutte le donne.
Le donne alzano la voce, dunque vanno punite.
Le donne
provocano, dunque la violenza se la cercano.
Due frasi che hanno la stessa
valenza, lo stesso significato di intolleranza. Entrambe dimostrano chiaramente
che le così tanto sbandierate
"uguaglianza", "dignità" e "pari opportunità di genere",
restano obbiettivi lontani.
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