Ho scoperto un blog dedicato alle
nocività industriali, all'inquinamento ambientale, agli incidenti, le
malattie e gli "omicidi bianchi" sul luogo di lavoro: Il lavoro debilita.
Le schede sono estremamente curate, a titolo di esempio linko la scheda sull'Ilva di Taranto.
Riporto qui la presentazione della curatrice del blog e le linee guida del progetto:
Per un periodo della mia vita ho avuto il privilegio di entrare nelle
fabbriche emiliane e analizzarne i rischi. Privilegio di entrarci,
perché per tutti i non addetti ai lavori si tratta di un mondo a parte,
una fitta galassia di mini-imprese impermeabile alle intrusioni aliene
(tipo sindacalisti, ispettori dell’ASL, e simili). Privilegio doppio,
visto che dopo esserci entrata potevo anche uscirne, magari incazzata,
ma però viva, intera e in salute, sollevata dal pensiero di poter
tornare indietro dalla terra di nessuno.
Perché è tale la nebulosa dei circa 5 milioni di aziende italiane
sotto i 16 dipendenti (il 97 % del totale delle imprese), la cui
espansione, negli ultimi 40 anni, ha rappresentato la modalità di
scomposizione della grande fabbrica sul territorio. Qui lo Statuto dei
Lavoratori non è mai esistito, e non è mai entrato nessun sindacato
(complice o conflittuale che sia).
Oh, certo … ci sono i Rappresentanti dei Lavoratori per la sicurezza
(RLS). Peccato che alla prima docenza al corso per gli RLS nelle aziende
artigiane ti accorgi che più di metà della classe è formata da figli
dei proprietari, assunti in ditta come dipendenti.
Ne ricordo una di questi RLS, moglie di un socio di una
metalmeccanica, che mi richiamò incazzatissima durante un corso ai suoi
operai, perché non avrei mai dovuto permettermi di dire al saldatore che
gli ossidi di manganese possono far venire il Parkinson, “ ‘ché il
ragazzo è impressionabile perché sua madre è malata di quella malattia
lì”.
Ricordo anche l’incredulità di un gruppo di operai africani quando
gli spiegai che dalle carte aziendali risultava come loro rappresentante
il capo reparto, socio e cognato del padrone, lo stesso che li
comandava urlandogli “teste di cazzo” e “beduini di merda”.
E’ stato quantomeno singolare andare a spiegare la 626 e, in seguito,
il decreto 81/08, in posti dove non vengono rispettate nemmeno le leggi
sulla sicurezza degli anni ’50.
Se escludiamo le macchine a controllo numerico, che se apri il
portellone ti fanno il bagno di lubrorefrigerante, trovare le protezioni
su un tornio o su una fresa era una rara eccezione che generava stupore
e piacevole sorpresa. E poi … organi di trasmissione scoperti e a
portata di piede, parapetti rimossi, eternit che si sgretola sui tetti,
sporcizia e rumore assordante.
L’’inverno è freddo e umido nei capannoni, mentre d’estate le zanzare
ti massacrano e il caldo è soffocante. Anche solo il clima rende
gravoso vivere là dentro per 40 ore e più alla settimana. In qualsiasi
stagione, la fabbrica la senti dall’odore, a volte con una nausea
leggera che sa di olio sintetico e metallo, a volte con un pugno di
gomma bruciata che ti stringe lo stomaco.
Ho sentito raccontare gravidanze passate a saldare i cablaggi a
piombo (prima che vietassero il Pb nei circuiti), o a spalmare tinture
alla fenilendiammina fino al settimo mese.
Ho visto ragazzi spaventati dal dover stare per ore al trapano sotto
una pioggia di trucioli di acciaio, con un ritmo infernale, tenendo il
pezzo con le mani. Ho visto gente lavorare con le cisti sinovialisui
polsi, altri coperti dalla testa ai piedi di polvere di gomma, altri
toccare sostanze R40a mani nude, altre condannate a mansioni ripetitive
al limite dell’alienazione. Tanti a respirare merda senza aspiratori:
solventi delle colle, fumi di saldatura, passivanti al cromo, nebbie
oleose, prodotti di vulcanizzazione.
A questa gente, che vive gran parte della vita dentro aree
artigianali progettate per escludere ogni possibilità di bellezza,
dedico “IL LAVORO DEBILITA”.
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